martedì 30 marzo 2021

Dragonero il ribelle n.17 - il sacrificio di Yannah - la nostra recensione

(Doverosa introduzione sonora)  quindi, citando il buon Rino Gaetano in uno dei suoi pezzi più celebri,“ la festa è finita (o) evviva la vita”? 

(Sinossi fatta male) Ricordiamo tutti noi fan di vecchia data della testata la faccenda del numero 33, la storia dei barbari contro i troll. Il popolo del nord di Yannah, l'amica di Ian che abbiamo conosciuto tutti noi fedeli fan nel numero 5 della testata “pre-ribellione” (oggi sento potente in nerdismo in me), al raduno degli scout, aveva poco dopo avuto a che fare con questi viscidi leoni da tastiera, che intasavano sempre più tutti i forum sul culturismo e il wrestling di cui i barbari erano assidui fan. Serviva un'azione radicale, perché dopo i troll sarebbero arrivate in zona pure le parabole di Radio signora delle lacrime, Real Time, Csaba della Zorza, Barbara d’Urso. Insomma: il male puro. Così Ian e Gmor sono intervenuti ad aiutare la principessa Yannah e il re, che per una antica, imparziale e saggia legge barbarica guidava il popolo nerboruto insieme ai ragazzini con cui da giovane giocava a calcetto. Era finita bene, Yannah era tornata a fare la scout confidando che la sua sorellina-gracilina iniziasse almeno a fare un paio di routine addominali al giorno. Oggi finalmente sapremo se sorellina-gracilina è pronta a cospargersi il corpo di olio come concorrere alle giovanili di Miss Olympia Erondariana, con la scusa che Ian è in zona per la storia solita della “ribellione“. I forzuti servono, ma pare che Radio signora delle lacrime abbia i ripetitori vicini e li stia già scoraggiando dalla pugna. Forse il saggio consiglio dei barbari amici del calcetto voterà contro l’annessione al “franchise della ribellione”, a questo giro. E dire che erano già pronte le magliette “Dragonero - il ribelle” di tutte le taglie, un vero spreco. Poi nella storia succederà  un qualcosa che non vi dico per non fare spoiler. Poi il fumetto si metterà  a parlare di altro, ossia di Alben che spreca il suo tempo tra le migliori birrerie artigianali dell’Erondar, con la scusa di “carpire informazioni utili alla ribellione” a tutti gli ubriachi che vede. Già lo abbiamo visto numeri fa girare per i migliori alberghi con spa e forno a legna, ci aspettiamo presto che il mago inizi a indagare per piadinerie e autogrill. Comunque, se prima sapevamo che Roney è uscito di testa, diventando strano e pazzo e con una mano forse demoniaca ora, grazia alle informazioni raccolte da Alben, sappiamo che Roney è effettivamente uscito di testa, diventando strano e pazzo, con una mano forse demoniaca. Glielo ha detto un tizio alla quinta rossa scura con tre luppoli, e lui ci crede. Il posto poi era pulito e la clientela simpatica, almeno 3 stelline sulla prossima guida scout del kraken rosso. Basterà questa nuova rivelazione a pianificare una articolata strategia di attacco per sgominare il male, come esposto in due vignette a pagina 98? 

(Cosa ci dice la copertina) Ho accolto con gioia l’invito del prode Barbieri, esposto nella solita paginetta prima della storia, a “non trarre facili conclusioni“ dopo aver guardato la copertina del sempre bravissimo Gianluca Pagliarani e aver letto il titolo del racconto firmato dal prode Vietti. Favoriamo qui di seguito la copertina. 



Del resto il buon Barbieri fa il misterioso sull’argomento per tutta la suddetta paginetta, prima ricordandoci che Yannah è stata una donna forte in un mondo di maschi dediti fieramente al calcetto, poi sottolineando che è tra i personaggi comprimari “di più lungo corso“, poi pubblicizzando  la nuova ristampa a colori cartonata commemorativa del n.33, l’avventura di Yannah, poi infilando in basso alla pagina Yannah che dice in una vignetta una frase così “incorniciata e commemorativa“ della sua filosofia di vita che racchiude veramente “tutto”. Potrebbe essere quasi una frase da mettere in futuro sotto una statua dedicata a Yannah, magari a Solian, al centro del futuro “piazzale Yannah”. Casualmente Luca Malisan, uno dei disegnatori di questo numero, ha già realizzato una magnifica statua commemorativa tridimensionale di Yannah, accessibile da questo link, per Istagram e Facebook. Quindi, posto che comunque Elton John sta probabilmente in questo momento lavorando a una cover di Gianna di Rino Gaetano, come andrà a finire la storia dal titolo: “Il sacrificio di Yannah”? Io banalmente fin dal mese scorso mi aspettavo una dipartita eroica e commovente come ai tempi in cui leggevo Fullmetal Alchemist, oppure quando da pischello guardavo la prima serie di Ken in guerriero. Magari qualcosa stile Sean Bean, un uomo che sa davvero come morire eroicamente e  tragicamente in quasi ogni pellicola o telefilm che interpreta. Ma per non fare spoiler di roba bella, che potrebbe piacere a tutti ma non tutti hanno ancora visto, voglio ricordare il personaggio che più di ogni altro mi ha commosso veder “dipartire” mentre guardavo un film spagnolo sugli zombie piuttosto scombinato, e che in genere non si fila nessuno. Addio Sponge John, che gli angeli possano apprezzare il tuo stile e la risata non travolgente 

Ma voglio andare oltre e cercare di interpretare fuori dagli schemi, dalla posizione dei personaggi sulla copertina, le diverse sfumature interpretative possibili del disegno. La prima cosa che mi viene in mente è la morte di Elektra per mano di Bullseye, nel celebre ciclo di Frank Miller.

Ma testa e gambe solo in posizione non corretta, ci sono due corpi ravvicinati ma è fuorviante, c’è una lama che trapassa. Insomma: Yannah non sembra colpita a morte come Elektra e due freccette conficcate magari di striscio non sono indicative. Potrebbe non essere una schiena di morte. Così penso al poster di Via col Vento 

C’è una somiglianza nella presa di Ian, ma l’espressione di Dragonero è diversa da quella di Rhett Butler. Sarà che mancano i baffi. Non credo sia quindi una scena romantica.

Poi penso alla scene “dammi un po’ di zucchero baby” de L’armata delle tenebre 



Ian ha la stessa espressione di Ash del reparto ferramenta in una scena un po’ tragica, i dubbi salgono. 

Infine penso a una figura del tango classica 



Sono più convinto in questo caso che “Yannah possa farcela“, forse stanno evitando le frecce a passo di danza, tipo Matrix, con un paio di ferite di striscio. Anche perché se fosse realmente morta avrebbe la postura di una diversa, più precisa e celebre figura del tango, arrivata a noi da Cianci in una coreografia di Ballando con le stelle 



Quale che sia il significato dell’immagine di copertina, speriamo di essere stati abilmente “trollati”, giusto per tornare alle azioni più tipiche dei nemici dei barbari del numero 33. Come speriamo che in un mondo fantasy certi eventi possano mutare di corso. Magari basta raccogliere le Dragonero Ball (marchio registrato) ed esprimere un desiderio. 

C’è da dire che quando un personaggio importante esce di scena, che sia un libro o un fumetto, spesso ci ricordiamo maggiormente di lui, diventa a volte il cardine stesso della filosofia di vita dei personaggi. Qualche volta andiamo pure a leggere le vecchie storie, un po’ ci commuoviamo e un po’ sappiamo che il suo contributo non è più realizzabile ai fini della trama, soprattutto quando era più importante che ci fosse. Sappiamo che altri dovranno colmare quel vuoto e sarà difficile farlo, così come accade un po’ nella vita reale. Certo, sempre che la storia di Vietti vada in quel verso! Perché potrebbe succedere di tutto, magari pure che la natura di alcuni “particolari avversari“ che emergono in una “particolare sequenza” ci tragga in inganno. 

(Verso il conflitto finale) Il numero 17 parla di come incassare un fallimento e l’ho pure comprato venerdì 13, quindi sfiga più fallimento. Nello specifico descrive il fallimento come quel momento in cui ci si ferma, ci si allontana dal gruppo e si finisce travolti dalla sfiga. Quando magari si pensava di avere ancora delle cartucce, di poter ribaltare il tavolo un’altra volta, di avere moralmente ragione nel campionato della vita. Ian si imbarca in una missione che sa da subito essere fallimentare, Gmor cerca un avvicinamento a Sera che comprende da subito poter essere fallimentare, Yannah parte dal suo villaggio in un momento decisamente fallimentare. Persino Roney decide di dedicarsi a una ricerca che potrebbe avere esiti fallimentari. Qualcuno direbbe “mancò la fortuna, non l’onore”, ma la “botta” arriva comunque, la sconfitta è davanti e guarda a come i nostri eroi riusciranno a rialzarsi. Se guardiamo a questo ciclo sulla ribellione come a un’unica storia, siamo ben oltre la prima parte (quella che i tecnici chiamano “tesi“) nella zona tra la seconda (della “Antitesi“) e terza parte (detta “sintesi“). Siamo nel cosiddetto “fondo”, il momento in cui crollano le certezze. Spesso il fallimento guida i peggiori caos cosmici interiori, alimentando il dubbio che a fare gli errori peggiori sia stato il comportamento dell’eroe, più che il “canonico agitarsi” del suo avversario di turno. È il momento in cui ci si sente più soli, si fanno gli sbagli irreparabili, si macina polvere. È il momento in cui persino i più audaci, come il popolo dei barbari, tremano, si defilano o comunque guardano con diffidenza al futuro. Ma è anche il momento in cui ci si lecca le ferite e ci si rialza, sapendo di contare almeno e solo su se stessi. Perfino quando sembra annunciata, manca una vera vittoria. Vietti anzi addensa le nubi nere su Dragonero, rende il nemico più forte, in grado di sovvertire le regole del gioco in modo scorretto (stile Funny Games di Haneke), porta gli eroi a disperarsi, riempirsi di rimorsi e cupezza. Dobbiamo da lettori sentirci tristi e ci riusciamo benissimo, pur consapevoli che la ruota prima o poi girerà. Siamo come quei gattini appesi ad un filo. 



Non sappiamo se nei prossimi numeri suonerà la carica della rimonta o dovremo rimanere ancora un po’ nell’inferno emotivo del fallimento, ma la tensione narrativa è quella giusta e sale una gran voglia di leggere le prossime storie. 

(Disegnare la sconfitta) Vietti, scegliendo una struttura narrativa asciutta e affilata, immerge per bene i nostri eroi in un mondo di disperazione che diventa ancora più vivido grazie ai disegnatori Alex Massacci, Luca Malisan e Fabrizio Galliccia. I gesti e le battute di Gmor per sdrammatizzare la tensione cadono nel vuoto, mentre l’orco guarda Sera con un’espressione incerta. 



L’abilità diplomatica di Ian viene annientata senza poter neanche essere esibita e l’eroe incassa con un sorriso triste il verdetto.



Il coraggio di Yannah la porta da nessuna parte, se non in un luogo dove si trova isolata dal gruppo, sola. 



Anche sul piano dell’azione più concitata, non c’è niente di davvero risolutivo o eroico e quando cadono i soldati nemici sotto le frecce di Sera, quello che vediamo è una ragazza felice dopo aver colpito un nemico al collo, senza cercare alcuna strategia alternativa. 



Le spadate pesanti e scomposte di Ian sono date con rabbia, uno sfogo brutale.



Non mancano belle sequenze di lotta con al centro Yannah che rotea la sua ascia, c’è un lungo flashback carico di mostri e diavoli, immerso in uno scenario quasi metafisico plumbeo  che rimanda al Berserk di Kentaro Miura. Il lavoro visivo gioca continuamente tra tragedia e horror e non è affatto male, ma l’espressività dei volti è la vera carta vincente di questo numero.

(Finale) Il nuovo numero di Dragonero è una bella coltellata per il lettore, da affrontare con cautela solo dopo un evento particolarmente felice, tipo la vincita all’enalotto. La storia di Vietti è forte e anche se sembra spezzarsi, dopo le prime 63 pagine, quando inizia una diversa fase narrativa, di fatto il tema-guida, legato al fallimento, continua fino alla fine dell’albo, offrendoci giusto una alternativa prospettiva “di campo”. La pagina finale ci proietta dritti nelle trame del numero 18 e in una nuova fase. Non è facile affrontare temi come la sconfitta e il fallimento, ma sono argomenti formativi importanti. I disegni di Alex Massacci, Luca Malisan e Fabrizio Galliccia riescono al meglio a fornire la giusta dimensione espressiva emotiva a questi temi, dipingendo i volti dei nostri eroi di una mimica convincente e struggente. Non mancano le classiche sequenze action e gli scenari più orrorifici, da sempre marchio di fabbrica della testata. Un buon numero. 

Talk0

giovedì 25 marzo 2021

L’ultimo dei templari (Season of the Witch) - la retro-recensione di un mega classicone Dark fanatsy con Nicolas Cage

 


(Premessa) Al cinema non esce niente perché i cinema sono chiusi per pandemia ecc. ecc. vi ho già raccontato cosa sono le retro-recensioni e possiamo serenamente tirare avanti. Oggi la “riscoperta”, perché la mia prima visione è stata in lingua originale nel 2011, avviene grazie a una maxi offerta del mio rivenditore di fiducia e lo scotto pagato sono di 2 euro e cinquanta centesimi per un dvd ex noleggio. A corredo del film ci sono anche alcuni extra interessatissimi, che non conoscevo e sono forse il vero motivo per cui vi sto scrivendo, ma partiamo con ordine. Sulla copertina troneggia ovviamente lui, il più grande attore vivente, leggenda indiscussa di noi del blog: il mitologico Nicolas Cage. Forse i più non lo sanno, ma uno dei motivi fondativi del nostro blog è divulgare al mondo la grandezza di Nicolas Cage attraverso una disamina integrale di tutte le sue pellicole e attraverso una serie di mini-film artistici realizzati con i Lego della sua opera omnia. Un obiettivo ambizioso, forse folle, ma che porterà prima o poi Nicolas Cage a realizzare un film su di noi che realizziamo questo obiettivo ambizioso, in 4k. Poi il mondo è andato avanti, siamo tornati sui nostri passi e il progetto è un po’ finito in soffitta, pur con qualche eccezione. È tempo che quindi i lavori accelerino un po’, perché il nostro eroe lavora sempre più freneticamente ed è un casino stargli dietro, anche se fa cose appaganti. Quindi preparatevi per una montagna di nuove recensioni sulle sue avventure recitative più riuscite e meno riuscite: un po’ come la vita. Consultate la parola chiave “Nicolas Cage” alla fine dei nostri post e valutate anche voi come questa voce diventerà poderosa sul nostro blog. Ma stiamo perdendo tempo, procediamo! 



(Sinossi fatta male). Siamo nel 1348, con tanto di date storiche precise e luoghi legati a battaglie realmente accadute, ma di fatto ci troviamo in un vaghissimo “”Medioevo“”, ai tempi “delle crociate e quella roba lì di guerre sante e streghe“, con suggestioni che pescano a caso da almeno 300 anni di storia. I fan di Dark Souls, The Nun o di The last Witch Hunter comunque gradiranno e qui non stiamo a fare gli odiosi precisetti: il film parla di crociati vs streghe come si parla di King Kong contro Godzilla, Alien contro Predator, Cowboy contro Alieni, Pupe contro secchioni. I crociati sono abbastanza suscettibili quando “le cose non funzionano“ e in genere danno la colpa ad infedeli e streghe. Gli infedeli coerentemente vanno combattuti per portare la pace del mondo “perché sono tutti diavoli” e ogni donna può essere una “strega“ se troppo frivola, troppo intelligente, troppo ecc. In particolare se è finito il caffè preparate le torce, è colpa di una strega. Con tutto questo “femminismo represso” capita che qualche volta una donna messa al rogo si incazzi, invochi Satana prima di ardere viva, si trasformi e inizi a squartare i crociati/inquisitori/“quella roba lì”. Questo ci porterebbe sui territori di Le streghe di Salem di Rob Zombie, ma questo è un film con un Nicolas Cage buonissimo e biondissimo e le cose vanno diversamente. Il nostro eroe è nel giusto perché “dubita”. Dubita che il mondo sia pieno di infedeli perché glielo comandano dei preti che sembrano un po’ fanatici quando additano a Belzebu il primo tizio con un turbante. Dubita che dietro ogni donna ci sia una strega, anche perché le donne gli piacciono tanto e se la spassa con due di loro a botta alla sera, con in corpo quanta più birra possibile, quando incassa la diaria del crociato. Di giorno lui e Ron Perlman sono come Legolas e Gimli, cavalieri medioevali storicamente accurati, “classe paladino” per gli amanti dei Giochi di  Ruolo. I due si sfidano a quanti nemici affronteranno in mattinata, con chi ne abbatte meno di 300 che deve pagare da bere, perché la birra è socialmente molto importate. Di pinta in pinta, di gnocca in gnocca, questo si ripete almeno fino a quando, tipo alla decima battaglia narrateci in cinque minuti scarsi attraverso un montaggio sincopato stile Il Gladiatore, arriva la prima “vittima collaterale”. I due eroi non ci stanno più e salpano per casa da disertori, trovando però che il mondo è invaso dalla peste da almeno tre anni. Riconosciuti per via di una spada, il duo, con la sola alternativa possibile di finire in carcere a vita,  viene incaricato a svolgere una missione scientificamente accurata per dare fine alla pandemia, direttamente commissionata da Christopher Lee: scortare la “strega nera” che ha causato la peste in una abbazia che possa “giudicarla” attraverso i rituali scritti su un prezioso libro sacro, mondando il mondo dal morbo. Perché anche la peste, come quando finisce il caffè, è colpa d una donna. Che in questo specifico è una bella morettina adolescente, da cui il titolo di “strega nera”, incarcerata dopo che qualcuno l’ha sentita canticchiare una canzoncina in una lingua strana mentre vagava in stato confusionale per il borgo. Dannate streghe hippy! Poco convinti della missione, Nick e Ron partono lo stesso, nella speranza che l’abbazia che sarà la metà del viaggio abbia come tutte le abbazie anche un fornito reparto birre e liquori. Il viaggio, nello spirito più puro dell’Oktober Fest, riguarderà l’attraversamento di ridenti boschi e collinette del tipico paesaggio etilico verso il nord est. Insieme ai nostri eroi si legheranno al gruppo un soldato, un chierico, un ladro e un giovane apprendista “che non ha ancora scelto una classe”, come nelle classiche avventure di Dungeons & Dragons. Ma le streghe esisteranno poi davvero? Non sarà che il clima pestilenziale, il paesaggio crepuscolare dei boschi notturni, i lupi e un po’ di fanatismo, finiranno per annebbiare la mente a tutti? Oppure sarà davvero crociati contro streghe?



(Inquadramento storico) L’ultimo dei templari è un film del 2011 che nella “Nicolascagegrafia” è girato dopo Il cattivo tenente ed esce in sala dopo Kick-Ass e L’apprendista stregone, cui seguirà Drive Angry e... un periodo di alti e bassi. Ma ai tempi di questo L’ultimo dei templari il nostro eroe era quindi decisamente “on-fire”, e questa pellicola si presenta come un prodotto quasi di serie A, molto “sborone”, dalla messa in scena piuttosto “ricca” nel comparto audio e video, con alcune intuizioni di casting inedite, come la coppia bad-ass costituita da Cage + Ron “Hellboy” Perlman (che ogni tanto ci ricorda, a livello di dinamica nelle scazzottate, quasi Terrence Hill e Bud Spencer) e un clima dark fantasy convincente. Ricordo inoltre che quando uscì nel 2015 Outlast: l’ultimo templare, sempre con Cage, lì in coppia con Hayden “moscio” Christensen, ero stra-convinto che fosse una sorta di “sequel“ e ci rimasi malissimo quando non c’entrava nulla. Anche se nella mia testa un sequel “ideale” a questo L’ultimo templare già esisteva, si chiamava Drive Angry e parlava del paradiso perduto di un uomo chiamato Milton, costretto a lavorare per il diavolo per una specie di contrappasso. Ma sto perdendo tempo in fesserie e personali fan fiction, quindi taglio corto e passo al film.



Per gli amanti dei look di Cage, qui il suo taglio di capelli è biondo boccolato corto, con barbetta leggera. Le location sono per lo più luoghi senza tempo tra la Croazia e l’Austria, tra castelli diroccati, ponti sospesi e rigogliose foreste. Le scenografie, armature e make-Up sono validissime anche se non originalissime, gli effetti speciali by Tippett Studio (che all’epoca gestiva i non dignitosissimi lupetti di Twilight ma anche i goduriosi e splatterosi Pirahna 3d di Aja) sono forse invecchiati malino, ma ancora gradevoli. Il regista è quel Dominic Sena che ha affiancato Cage nel divertente e “sborone” Fuori in 60 secondi e ha reso Halle Berry la donna più desiderata del pianeta nel film “sborone” Codice Swordfish. Nel cast “la strega” è il primo ruolo cinematografico della brava Claire Foy, che nel 2018 vestirà i panni di Lisbet Salander. Il ruolo dell’apprendista da gioco di ruolo è invece svolto con compostezza dal divetto del divertente serial inglese Misfit, Robert Sheehan, che poi non è esploso all’attenzione internazionale come un po’ tutti ci aspettavamo. In una piccola particina gustosa, che voglio assimilare alla piccola particina gustosa che una decina di anni prima aveva ricoperto in I misteri di Sleepy Hollow di Tim Burton, c’è il grande Christopher Lee. Stephen Campbell Moore è grigio e monodimensionale il giusto per interpretare un personaggio grigio e monodimensionale come il chierico, Perlman e Cage si divertono come dei matti e sembrano nati per farsi da spalla a vicenda. Quindi, in sintesi, pur considerando che a me il film è piaciuto all’epoca come mi ha spinto oggi a investirci di nuovo due euro e cinquanta, cosa è andato storto? Perché se fosse andato bene se ne sarebbe parlato di più rispetto che di un Il settimo figlio qualsiasi. 



(Una formula contraddittoria) L’ultimo dei templari è un film “che urla fortissimo”, quando invece dovrebbe sussurrare le cose, raccontarsi quasi sottovoce, tra le sfumature. Questa contraddizione caratterizza, quanto comprime, il potenziale della pellicola. La “strada maestra” di Le streghe di Salem di Rob Zombie è di fatto più volte percorribile, in modi anche naturali, a volte pure sofisticati, sfruttando attori che saprebbero bene raccontare personaggi sostanzialmente validi. Ma è una strada che il film non vuole prendere mai, preferendo buttarsi a pesce in soluzioni magari visivamente fighe anche se poco originali e telefonatissime. Da vero film sborone insomma, pari a quel maledetto The Last Witch Hunter che se avesse “asciugato il brodo” e si fosse concentrato (sulla parte iniziale nel medioevo, con il Vin Diesel a caccia di una strega di Blair per boschi) sarebbe stato una mezza bomba e non una occasione persa. Eppure c’è sotto un sacco di stile, bravi attori e la tanta voglia di non essere banali qui e là che guizza. Ogni tanto il film vuole pure confonderci le carte,  buttarci in “zona Nome della Rosa” offrendo uno sguardo “disincantato“ sulla religione nel periodo storico in cui la fede era il potere più forte, magari superando da destra Le crociate (in originale Kingdom of Heaven) di Ridley Scott insieme al suo paternalismo stucchevole. Potevano anticipare The VVitch di Eggers al punto da renderlo meno dirompente. E invece no, piombiamo senza se e senza ma nei territori più canonici del fantasy, consolandoci comunque per l’ottima cornice, un ritmo divertente, qualche bella trovata in computer grafica, delle scene di combattimento all’arma bianca abbastanza riuscite e Cage al centro di tutto, pronto a esibirsi nelle sue facce da pazzo mentre affronta “la qualunque”, siano robe reali che metafisiche. Come spesso quando il progetto è nelle sue corde, il nostro eroe si mangia la scena e fa il compito così bene da prendersi la lode. Impara a combattere con la spada in modo figo, veste con eleganza armature pesantissime, dona al suo crociato un’aria regale decaduta, ne fa l’underdog dei templari e il gioco funziona. La Foy è perfetta tra le mille sfaccettature con cui riesce a raccontarci l’anima tormentata della sua strega. Una volta è una ragazzina indifesa, poi diventa una seduttrice, poi una specie di proto-femminista, poi una figlia da proteggere, poi un nemico da combattere. Perlman crea un personaggio silenzioso ed eroico, lontanissimo dai “cattivoni” sopra le righe che predilige, e funziona ugualmente bene. La sceneggiatura intoppa qua e là in modo apparentemente strano, ma ora so perché. Gli extra dell’ex noleggio che ho visto oggi hanno fatto luce sui principali dubbi che negli anni avevo maturato, a cui ora posso dare una risposta, offrendo una visione della pellicola per me più appagante. Una visione che, se fosse stata seguita fino al final Cut, poteva cambiare forse la sorte del film per la critica e botteghino. 



(L’altro film, quello meno “sborone”). Scene tagliate e making of, presenti sul disco ex noleggio che ho appena visionato, riportano a galla un film dai toni diversi, che è stato messo un po’ da parte per il volere dei produttori di creare scene di “maggiore impatto visivo”. Quanto segue è sotto SPOILER 

Ci sono tra gli extra varie scene tagliate interessanti e che avrei personalmente “non tagliato” del tutto, ma quello che ci interessa di più sono almeno i tre “snodi principali” (le cui dinamiche sono ben trattate tra scene tagliate e making of “esplicativi” ) che fanno differire maggiormente il primo trattamento dal risultato finale. Snodi che sono divisi equamente tra l’inizio, la metà e la parte finale della pellicola. Incredibile a dirsi, tutta la scena iniziale con Cage e Perlman che affrontano le crociate, battaglia dopo battaglia in montaggio sincopato stile Gladiatore, erano originariamente assenti. Il film, dopo essere stato introdotto dal riuscitissimo “mini-film” sulla tripla decapitazione (molto riuscito, che potrebbe benissimo essere un segmento dell’antologia ABC of the death),  partiva (come da scena tagliata estesa che si può visionare) quando il duo arrivava sulla costa con una barca ormai distrutta, dopo aver disertato dalle crociate. Il loro primo incontro era con la “realtà misteriosa“ della peste e di fatto si legava meglio a livello temporale con il mini-film iniziale, dove la pestilenza poteva legarsi al fatto di aver buttato in un corso d’acqua delle “streghe” che lo hanno reso con i loro cadaveri “venefico”. Invece partono i flashback e la linea temporale/emotiva si spezza, per essere difficoltosamente ripristinata solo in seguito. Sono stati assunti per “le crociate” 30 stunt-men, un maestro d’armi, 30 giorni di riprese. Viene impiegata la moltiplicazione digitale dell’esercito, sono usati giochi di fumo, neve artificiale, mascherini vari. È stato studiato ad hoc un modo di combattere peculiare per entrambi i nostri eroi, che espande quanto si vede già durante la pellicola. Cage diventa esperto nel combattimento a corta distanza, con la  spada che viene usata come un pungolo o, capovolta, come un machete. Lo stile di Perlman è da “storditore” a impatto ravvicinatissimo, usa molto lo scudo per dare spallate e manipola il nemico con prese articolari. Sono insieme uno spettacolo, sanno completarsi, le scene di combattimento “alle crociate” sono bellissime. Ma saranno poche le scene di combattimento da lì fino all’epilogo del film, perché “il centro narrativo” non è quello di un film d’azione puro. Un altro difetto delle scene iniziali aggiunte è che rendono inutilmente esagerati i due protagonisti, quanto inutilmente crudeli i preti che sovrintendono alle crociate, facendo sembrare molto forzata e parecchio didascalica (in altri tempi avremmo detto “fumettistica”) la “conversione pacifista” del personaggio di Cage. L’eroe scopre di punto in bianco che nella guerra che combatte da anni ci possono essere anche vittime civili e la cosa davvero non ha senso, come non stava scritta nella sceneggiatura iniziale, anche se esiste una scena di  rimando, che però alla luce della “scena delle crociate” risulta ora un po’ forzata. Un brutto impoverimento del personaggio cui segue, con il secondo snodo, l’impoverimento di un altro, nello specifico il cardinale di Christopher Lee. Abbiamo già detto di come i prelati di questo film appaiano “inutilmente fanatici“, pur in vista di un finale che ribalterà il concetto. Christopher Lee ha un bellissimo monologo sui dubbi della fede che possono legittimamente insorgere in un periodo violento come le crociate, se chi combatte si trova ad affrontare situazioni moralmente inaccettabili. È un discorso pieno di autocritica e umanità, che non per questo avrebbe minato il “colpo di scena” e anzi sarebbe stato utile a infondere un po’ di pragmatismo alla vicenda. Ovviamente nel dubbio di “svilire il colpo di scena” questa scena, presente integralmente negli extra, è stata tagliata. Come è stato pesantemente rimaneggiato il terzo snodo, il finale originale, pur accessibile integralmente negli extra, reiterando la formula “più spettacolare anche se più stupido”. Siamo qui al top della sboronaggine. Originariamente la strega palesa narrativamente il suo gioco: non poteva accedere direttamente nel luogo sacro se non fosse stata “invitata in loco” dai sacerdoti. Si vuole vendicare dei preti per tutte le donne innocenti uccise perché accusate di stregoneria, privandoli “dell’arma di intolleranza”: un libro sacro che immaginiamo vicino idealmente al Malleus Maleficarum, che i monaci amanuensi stanno creando in sempre maggiori copie per diffonderlo. La nostra strega non è ancora detto che sia “il male”, quanto una persona con poteri soprannaturali non specificati, stile gli X-Men di Singer o la Carrie di De Palma/King. Poteri che vengono confusi come diabolici, spesso nel cinema usati come metafora delle persecuzioni religiose verso chi “è diverso”. Poteri in mano a un personaggio  che viene evidentemente durante il film perseguitato, flagellato, rinchiuso in una gabbia, ma che nonostante tutta la rabbia mantiene compostezza e in sprazzi di umanità “frena il colpo”. Il combattimento contro di lei non sottrae mai la protagonista dalla scena, è secco, intenso, crudele e disincantato. Finisce male perché le cose devono finire male, la peste si ferma perché era stata colpa sua e non perché la pandemia si è ormai consumata “naturalmente” dopo aver sterminato 3/4 della popolazione dopo i tre anni da cui si è diffusa. L’esatto opposto di quanto accade nel combattimento finale definitivo del cut cinematografico, sia visivamente che moralmente. La strega qui non si rivela essere una vera strega, ma invece una donna posseduta da un demone, che si rivela trasformandola in un mostro grigio in computer grafica con corna e ali di pipistrello. Un nemico “definitivo” che ora affronta Cage e Perlman in uno scenario che sembra uscito da un livello del videogame Diablo. Anche questa scena è stata aggiunta in seguito, come i combattimenti alle crociate di cui pure riprende alcune delle coreografie all’arma bianca più evocative. Il demone è interessante sul piano estetico: vecchio e dal corpo femminile, in grado di richiamare l’iconografia presente nel libro sacro. Anche se con gli effetti grafici di oggi forse non appare incredibile, ha personalità, ma il combattimento finale è figo solo fino a un certo punto, almeno rispetto al combattimento con la strega originario. Il ruolo della Foy ne esce “” un po’ “”devastato. Se la nostra streghetta si era sobbarcata secoli di maltrattamenti verso le donne ingiustificati, aveva combattuto ed era quasi riuscita a cancellare una religione che ancora aveva tra le mani il sangue delle crociate, al suo posto abbiamo ora poco più di una damigella in pericolo a tutti gli effetti. E a dispetto di un precedente dialogo con Cage in cui la Fay gli dice con chiarezza: “Guarda che ti sbagli di grosso, a considerami una damigella in pericolo!!”. Invece qui la ragazza viene sostituita da un effetto speciale che le ruba la scena e quando il mostro è sconfitto la ragazza dice palesemente di “non ricordare nulla di tutto ciò che è avvenuto”. Al punto che chiede all’apprendista superstite di raccontagli chi cavolo erano gli eroi che la hanno salvata, pur avendo condiviso con gli stessi tutta la storia. Così viene azzerato ogni dubbio sulla legittimità morale della religione nel cacciare le streghe con le torture, facendo quasi passare per legittima la terribile scena di tripla impiccagione di inizio pellicola. Così, quando “il male viene debellato”, la fanciulla “non contestante” si risveglia, nuda e immacolata, sorridente. Stiamo parlando a ogni modo di scene spettacolari, piene di fiamme e lapilli, con il diavolo alato che si muove su un affresco sacro in un modo che sovrascrive l’immagine sacra sottostante, con i buoni che si sacrificano e la musica pomposa in sottofondo. Anche su questo ultimo aspetto legato “alla battaglia” ci viene dal making of svelata una ulteriore impresa. Ora che c’era il demone in post produzione hanno pensato di fargli cavare digitalmente, a graffi almeno un occhio di Nicholas Cage, giusto per fare più scena. Senza neanche richiamare sul set Cage, come fosse un videogame alla Mortal Kombat. Insomma, attraverso gli extra del dvd si palesa che tutti i cambiamenti alla pellicola originale  sono frutto di scelte che i produttori si intestano, consapevoli, attraverso le interviste. Scelte spesso un po’ maldestre e  che sono giustificate perché “beh, era un film non così spettacolare, andava aiutato un po’”. Trovo però davvero ammirevole che la produzione ci abbia permesso, tramite l’home video, di apprezzare anche la forma originale del film, che in lingua originale era Season of the Witch e non Season of the Devil, con tutta la Symphaty che possiamo provare per quest’ultimo. 

FINE SPOILER 



(il penultimo dei templarI) Come la storia insegna, Cage, dopo due film sul Mistero dei templari (in originale National Teasure) e dopo questo L’ultimo dei templari, rimarrà in fissa con i templari anche con il successivo Outcast - l’ultimo templare, come è ancora prontissimo a girare Il mistero dei templari 3, se sarà possibile già domani (e qualcosa in tal senso si sta muovendo). Season of the Witch, pur nei piccoli mal di pancia che suscita la visione finale, è un film divertente, spettacolare, crepuscolare quanto basta e ben recitato. Non un capolavoro ma un film che scorre via gradevolmente, perfetto per una double-feature con Drive Angry, magari per una triple-feature con Drive Angry seguito da Mandy. Rivederlo oggi nel 2021, a dieci anni dall’uscita in sala, è stato stimolante e mi ha regalato le sorprese che sopra vi ho raccontato. Se riuscire a recuperarlo anche voi con gli extra, cosa oggi non difficile né cara, ve lo consiglio caldamente. 

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sabato 20 marzo 2021

The mangler di Tobe Hooper: la nostra retro-recensione!



(Premessa) In tempi di covid i servizi on-demand ci permettono di spulciare in ricchi cataloghi, ripescando anche autentiche perle del passato. Oggi con Amazon Prime torniamo a vedere un gustoso b-movie horror, fumoso e fumettoso, diretto da un Tobe Hooper forse non al top ma con la vena giusta per farci divertire, portando sulla giostra anche il mitico Robert Englund.  

(Breve sinossi) America, anni ‘90. In un caldo paesino del Maine tutto il mondo gira intorno alla Blue Ribbon, una lavanderia industriale polverosa, angusta e avvolta da infernali nubi di vapore, al cui interno come anime dannate trascinano la propria esistenza delle operaie sottopagate sul costante orlo dell’infarto. Il proprietario (Robert Englund) è un vecchio e viscido aguzzino che guarda solo al profitto e alla cura del mangano, una enorme stiratrice piena di bulloni e ingranaggi che non deve mai fermarsi, cascasse il mondo, cascassero le operaie. Tuttavia i lavori devono fermarsi quando il mangano, in modo inspiegabile, trita tra le sue fauci una addetta alla catena, guarda caso sul punto di svenire per il superlavoro, attirando sull’azienda l‘attenzione indesiderata di un detective (Ted Levine) e di un esperto di occultismo (Daniel Matmor). Le indagini porteranno a considerare il mangano posseduto da qualche entità infernale. Come il frigorifero dei Ghostbusters. Ma del resto in quel posto del sud degli Stati Uniti ci sono anche altri oggetti che sembrano posseduti. 



(Dal libro ai “vari“ film) Chi ha letto l’antologia A volte ritornano di Stephen King ne può parlare a ragione  come dell’album Thriller di Michael Jackson: una miniera d’oro in ogni sua parte. Come i brani di Thriller sono diventati quasi tutti singoli di successo da cui è stato tratto un video musicale, i racconti di A volte ritornano hanno generato un numero smodato di film. Secondo turno di notte è diventato il film a base di topi Night Shift (da noi La creatura del cimitero). Camion,  sulle macchine-zombie, è diventato la pellicola Maximum Overdrive (da noi Brivido), peraltro primo film diretto da King stesso. I racconti Il cornicione e Quitter inc. sono confluiti nel film a episodi Gli occhi del gatto, I figli del grano è diventato il film a base di bambini inquietanti Grano rosso sangue, La falciatrice è diventato con ampio riadattamento il film sulla realtà virtuale ante-litteram The Lawnmower Man ( da noi Il tagliaerbe). Anche il racconto che dà nome all’antologia è diventato il film a base di adolescenti non-morti A volte ritornano e stessa sorte è toccata anche a Il compressore, che un bel giorno ha preso corpo con questo The Mangler per la regia di Tobe Hooper. Ma se guardiamo anche ad altri racconti come Il babau o L’uomo che amava i fiori si trovano mille adattamenti in rete, spesso provenienti da corsi di regia, e quando ho visto per la prima volta i soldatini di plastica di Toy Story o di Small Soldiers, io sono tornato con la mente al racconto Campo di Battaglia, che avevo letto nel 1990, negli stessi tempi in cui avevo scoperto in edicola Dylan Dog. E c’è da dire che in The Mangler c’è pure un pizzico di Dylan Dog, su cui ci soffermeremo più avanti. Insomma, A volte ritornano è da leggere, anche se poi il cinema ha interpretato i singoli racconto in modi più o meno fedele, alla maniera delle molte trasposizioni “liberamente tratte” da Philip Dick. Ma se ci voleva un po’ di fantasia a trovare ne La falciatrice tutto quello che ci sarebbe stato in Lawnmower ManThe Mangler è abbastanza fedele al racconto originario e al netto di un paio di cambiamenti, tra cui un personaggio rimosso, c’è tutto, pure il finale da kaiju movie steampunk che tutti volevamo “sognare di vedere”.



(Quando le cose fanno paura). C’era il water maligno negli incubi del bambino di Senti chi parla, c’era la mefistofelica caldaia della cantina di Mamma ho perso l’aereo. C’è  naturalmente Christine, la macchina infernale, ma anche The stuff- il gelato che uccide, L’ascensore ma anche la lozione per capelli del segmento Hair di Body Bags di Carpenter. Hanno provato negli anni a farci paura con ogni cosa inanimata, pure quelle più assurde e apparentemente innocue. 

Il regista di Non Aprite quella Porta e Poltergeist dirige un film su una stiratrice aziendale assassina, pur “griffato Stephen King”. Il che ha perfettamente senso in quanto la fabbrica dove l’oggetto infernale risiede ha tutto l’allure dello scannatoio della amabile famiglia di Leatherface, con tutto il fantasma del mondo post-industriale che viene evocato. Come ha senso che Hooper si possa preoccupare di nuovo di oggetti con anima propria dopo che ci ha già deliziati con piatti e coltelli volanti nel suo celebre film prodotto da Spielberg. Ma come riesca Hooper a rendere attraente e letale un oggetto tanto “innocuo” non è per nulla scontato e qui sta tutta la forza dell’operazione. Il mangano ha una linea pesante ma dalle forme affusolate, quasi eleganti. È scuro, rugginoso, ingrippato ma vitale in tutti i suoi mille ingranaggi e sbuffi di vapore. Ha fauci affilate come ghigliottine e rulli mobili che possono trascinare dentro una persona nell’ingranaggio, come in una versione horror di una celebre sequenza di Tempi Moderni di Chaplin. E se poi si muovesse, sviluppando un corpo e zampe, assumendo quasi un volto, come una sorta di mastino infernale steam-punk? Potrebbe succedere e potrebbe essere figo, quanto può essere buffo provare a mettere i nostri eroi a esorcizzare una stiratrice “ferma e immobile”. Come si potrebbe, sempre a uso ridere, far indossare al detective un enorme spolverino che consenta  alla stiratrice “ferma e immobile” di trascinarselo dentro con un colpo d’aria fortuito che aggancia il cappottone a qualche suo ingranaggio. Il mangano vive di questa doppia natura buffo-inquietante, che lo accomuna all’altro “Grande” oggetto maledetto della pellicola: una ghiacciaia. La ghiacciaia, retrò ma satanicamente insanguinata su una delle sue bianchissime superfici, ha uno strano potere, probabilmente “mentale” che spinge un bambino ad entrarci dentro per morire assiderato. Ma possiede anche un curiosissimo potere “d’attacco di natura fisica”, che  si basa in pratica sul cadere addosso ai nostri eroi di sorpresa, sfuggendo dalle mani di due facchini che la spostano, e saltuariamente emettere delle scosse elettriche. L’effetto finale è ugualmente spiazzante e dona alla ghiacciaia una simpatica personalità. Insomma, con il giusto appeal anche un tostapane può fare la sua porca figura in uno slasher-movie e Tobe Hooper si diverte un mondo a giocare con i mobili.



(L’atmosfera giusta) The Mangler vive di incredibili scenografie ultra-dettagliate, opere dello stesso Tobe Hooper, che non sfigurerebbero in un film di Tim Burton o Guillermo Del Toro. Il piatto forte è ovviamente la fabbrica, la Blue Ribbon. Un piccolo inferno in terra di valori e ingranaggi ai piani bassi, un eccentrico ufficio carico di teste di alce sui muri, armi da taglio e libri misteriosi nella parte alta. Spazi che confluiscono su una terrazza interna in ferro, dove ogni passo rimbomba nel locale e indica che il proprietario si sta muovendo come un avvoltoio, sta sorvegliando le sue operaie e le sta maledicendo perché sono troppo lente. Come la magione di Crimson Peek, la Blue Ribbon non ha nulla di realistico, è un quadro astratto sul tramonto dell’immaginario classico delle catena di montaggio all’interno del cui perimetro si muovono moderne schiave, mentre al di sotto, nelle sue fondamenta, c’è forse una struttura più antica, come il Titty Twister di Dal Tramonto all’Alba. Meno scontato è che tutto il paesino del Maine goda di scorci scenografici ugualmente eccentrici. L’austera villa dei Gartley è piena di gargoiles, l’obitorio cittadino sembra la cripta in marmo di una chiesa, alla casa del sensitivo si accede attraverso un ponte “metafisico” circondato da alberi carichi di simboli magici e l’interno è sovraccarico di statue e oggetti curiosi quanto l’appartamento londinese di Dylan Dog. Tutto questo rende sospesa e onirica l’atmosfera di The Mangler, alimentando la sensazione che qualcosa di magico possa effettivamente accadere da un momento all’altro. Permettendoci di credere ancora di più in una stira-camicie assassina venuta dall’inferno.



(chi sta intorno alla stiratrice) La storia di The Mangler non potrebbe reggersi comunque così bene senza un mattatore assoluto come Robert Englund, intento qui nel creare un personaggio se possibile ripugnante quanto il suo celebre Freddy Krueger. William Gartly, il proprietario del Blue Ribbon, è un corpo in putrefazione in eleganti abiti “quasi steam-punk“, sorretto ostinatamente più dalla fame di potere che dalle protesi metalliche che gli permettono di muoversi. È lui stesso una parte degli ingranaggi della fabbrica, fuor di metafora. Di indole vigliacca, libidinoso, grottesco nelle relazioni umane e dal fisico “lombrosianamente martoriato”, Gartly catalizza tutte le scene in cui è presente con cosi tanta fierezza e foga di “essere il cattivo”, da trasformarsi quasi nella versione in carne ed ossa del Mad Doctor in stop motion di Nightmare before Christmas di Tim Burton. Anche in questo aspetto il film insegue la favola nera più che il realismo, trovando la prospettiva giusta per sospendere la nostra incredibilità verso l’infinito e oltre. Ugualmente vincenti in questi contesto sono i personaggi del detective e dell’esperto di occultismo, specie se siete fan di Dylan Dog. Di fatto presentano un mix delle caratteristiche peculiari di Bloch e Dylan, oltre a sviluppare tra loro un legame simile. Il detective abusa di antiacidi quando deve arrivare sulla scena di un crimine particolarmente cruento, cerca di essere sempre razionale “fino a prova contraria”, è vedovo (e nel racconto di King ha un figlio morto anche lui), i suoi superiori non credono particolarmente in lui. L’occultista vive nella sua casa piena di mostri scolpiti, ha un legame con il detective di tipo quasi familiare, ha senso dell’umorismo, possiede un “quinto senso e mezzo” e qualche volta “sbaglia il tiro”. Molto interessante anche il fotografo/detective interpretato da Jeremy Crutchley, un piccolo ruolo indossato benissimo. Meno a fuoco risultano le due figure femminili della pellicola, che in un paio di casi quasi si confondono, ma possiamo dire che questo accada anche per precise esigenze di trama. 

(Non aprire quel tavolo da stiro ikea) Fare un film su una stiratrice satanica può essere bizzarro, ma il film di Hooper è così bizzarro da essere amabilmente scombinato, “fare il giro” e essere gradevole anche a distanza di 26 anni dalla sua uscita al cinema. Trattasi di b-Movie fatto con classe, un horrorino anche abbastanza sanguinolento ma dall’anima principalmente sarcastica, favolistica. Gli oggetti sono buffamente inquietanti, Englund furoreggia e tutto il cast è appropriato al ruolo. Non sempre tutto funziona, non è assolutamente un capolavoro, ma è un film davvero carino, da riscoprire, dove non è troppo strano esorcizzare seriamente un frigorifero, ragionando trasversalmente sulle catene di montaggio aziendali e su quanto “rubino la vita” a chi le frequenta ancora oggi. Seppur in modi diversi e meno “Steam punk”. 

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mercoledì 17 marzo 2021

Dylan Dog n. 414 : Giochi innocenti - la nostra recensione



Cosa non ti combinano i bambini! Un attimo di distrazione e la piccola Allie sottrae alla “zia detective “ Ranja il cellulare e invia un videomessaggio di soccorso all’acchiappamostri Dylan Dog, illustrando una attività paranormale che avviene direttamente nella sua cameretta. Il nostro eroe, non appena riesce a vincere la sua tecnofobia, vede il video ed è subito pronto a investigare sulla infestata casa delle bambole della bambina. Solo che Allie è misteriosamente sparita nelle ultime ore e a quanto pare non è l’unica scomparsa a Londra negli ultimi tempi. Le vittime sono tutti bambini apparentemente sereni e ricchi di una creatività sorprendente, quanto poco utile, al di là dell’aspetto ludico, per affrontare il  mondo reale. L’oscuro rapitore è forse una vecchia conoscenza di Rania, il babau che l’ha perseguitata durante l’infanzia.



Giochi innocenti è una storia che parla di bambini e demoni, i misteri dell’infanzia e le strategie più idonee messe in campo dai genitori per affrontarli. Nel gustoso mix narrativo scelto da Paola Barbato c’è un po’ di Peter Pan e un po’ di Chatulu. Un po’ di psicologia dell’infanzia e un po’ di cosmic horror. Si respira quindi l’aria pesante e le scelte psicologiche più logoranti delle migliori pellicole sul rapporto genitori-figli di Scott Derrickson. Diventare grandi non è mai stato uno scherzo e spesso si procede nella realtà “a tentoni e gattoni” tra le dinamiche di assimilazione e accomodamento di Jean Piaget. Districarsi con un bagaglio valoriale che divide il mondo solo tra buoni e cattivi, spesso confondendo bene e male, non aiuta di certo la capacità decisionale di un bambino. Specie quando deve rispettare delle regole che non si comprendono. Fuggire “dal reale“ attraverso “il gioco” apre agli infiniti mondi della fantasia quanto dell’orrore, dove farsi inghiottire nei colorati e accondiscendenti mondi di Fortnite può essere rischioso, se non bene accompagnati, quanto valicare una dimensione oscura lovcraftiana. L’approccio interessante che usa la Barbato per sviluppare e risolvere la storia, specie sul piano dello sviluppo psicologico di bambini e “adulti”, risulta per questo particolarmente interessante, apparentemente contro-intuitivo, frutto di un'ottima intuizione sulle meccaniche educative. Il racconto parte lento, ma già dopo una ventina di pagine accelera, ci tira dentro e poi ci scaglia in zone sempre più oscure. Mostri tentacolari e spaventosi sono lì pronti a spiazzarci per quanto appaiano “docili” ma al contempo crudelissimi, assolutamente spietati; piacerebbero anche a Guillermo Del Toro. Il personaggio di Ranja ha un ruolo centrale nella vicenda e sarebbe interessante se la trama trovasse la possibilità di espandersi in numeri successivi della testata, perché ha delle belle potenzialità. Molto bella la copertina di Gigi Cavenago, in grado di sintetizzare al meglio la materia magica quanto sinistra del racconto. Molto interessanti i disegni di Paolo Martinello, validi nella descrizione del contesto realistico-urbano della parte investigativa, sorprendenti nelle tavole più oniriche e grottesche. Ci sono molti flashback e queste scene vengono gestite con una colorazione a matita intrigante, volta a caricarle di una atmosfera rarefatta, immergendo i personaggi, per lo più bambini e mostri, all’interno di un immaginario quasi favolistico. 



Giochi innocenti è un bel numero della testata, carico di atmosfera, che parte lento ma poi riesce ad accelerare e sorprendere. La storia nell’ultima parte prende dei contorni “infernali“ che gli appassionati dello splatter e dei mostri alla Clive Barker troveranno interessanti. Qualche genitore potrebbe forse trovare interessante dedicare qualche momento in più a stare insieme con i suoi bimbi, dopo la lettura. Un aspetto decisamente meritorio della narrativa della Barbato. Avanti così. 

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domenica 14 marzo 2021

Dylan Dog Color Fest 36 : Mister Punch - la nostra recensione

 


(Sinossi) Una multa non pagata, particolarmente salata, che avrebbe dovuto pagare l’amico Groucho, fa arrabbiare particolarmente il nostro eroe Dylan Dog. Per una strana serie di eventi i due si trovano a uno spettacolo di marionette di “Punch e Judy”, che si tiene sotto un tendone fuori città. Mister Punch è l’indiscusso mattatore dello show e ama randellare tutti gli altri personaggi mentre il pubblico muore dalle risate. Al termine dello spettacolo Dylan è ancora arrabbiato con Groucho e accetta una curiosa proposta della ragazza che raccoglie le mance: se vuole può liberarsi per sempre della persona che lo ha fatto infuriare, attraverso un rito, facendola sparire per sempre dal “palcoscenico della vita”. Per rabbia e con la convinzione che si tratti solo di una specie di rito scaramantico, Dylan segue la strana procedura e dal giorno dopo Groucho sparisce. Nessuno si ricorda di lui, Groucho non è mai esistito e di conseguenza la vita di Dylan è cambiata. Ma in negativo e solo il nostro eroe si ricorda ancora dell’amico. Tornato sotto il tendone di Mister Punch, Dylan scopre che Groucho ha ora una nuova vita e un nuovo corpo. È diventato una delle marionette di Mister Punch, che in realtà è un demone e da anni imprigiona gli esseri umani nei corpi di burattini, per arricchire il suo show. Se oscurerà le luci della ribalta al capocomico, Groucho potrebbe però  finire a pezzi. 



(l’uomo è come una marionetta i cui fili sono appesi alle stelle - Carlos S. Weise cit.) Lo sceneggiatore Giovanni De Feo scrive una storia che ha radici nella tradizione del teatro dei burattini e strizza l’occhio alle favole. Mister Punch è un personaggio che esiste davvero e sorprendentemente è proprio il “nostro” Pulcinella che, partito per fare fortuna all’estero, come molti illustri italiani, è approdato prima in Francia e poi in Inghilterra, barattando la mascherina nera e il vestito immacolato per un completo rosso sangue e diventando il protagonista principale negli spettacoli di Punch e Judy. Lei vittima e lui irritabilissimo carnefice, con bastone “d’ordinanza” che era già nelle mani dai tempi del Pulcinella “tradizionale”. Le marionette di fatto, fin dai primi pupari, hanno sempre avuto una passione per spade e mazzate, usate per fare epica quanto satira. L’aspetto per cui De Feo “fa bingo”, nel creare una delle storie di Dylan Dog più incisive e “orrorifiche” degli ultimi tempi, è considerare proprio in questa doppia lettura psicologica gli spettacoli di marionette: il fatto di essere attrattivi tanto per i personaggi e le vicende buffe, quanto per una specifica carica “violenta”. Una “violenza” parossistica, edulcorata, “innocua”, che accomuna gli spettacoli dei burattini ai pagliacci del circo, come alle comiche di Stanlio e Olio come di Chaplin, dove i poliziotti “brandiscono i manganelli” e i “calci nel sedere” sono una forma di comunicazione. Ma perché fa ridere il pubblico, più o meno da sempre, “mimare le contusioni”? Forse perché “ridiamo serenamente” delle sventure, come dei soprusi, quando sappiamo che sono palesemente finte, non ci toccano. Le commedie quanto gli horror moderni e i film di arti marziali, ma anche moltissimi videogame, vivono “anche” di questo: fornire alla nostra fantasia un carico di “violenza escapista” che possiamo impiegare per sfogarci/consolarci virtualmente, magari sognando di menare una persona che ci sta antipatica senza passare ai fatti, come fosse un sogno. È un po’ la sintesi di quanto accade quando una mamma dice al figlio discolo “come ti ho fatto, vorrei smontarti” (senza ovviamente passare alle vie di fatto e conseguenze penali),  pensando al figlio, pur inconsciamente, come a un bambolotto che può accendere e spegnere. “Oggettificandolo”, come di fatto è un oggetto, moralmente neutro, né buono né cattivo, né vittima né carnefice, una marionetta che “non è Pinocchio”. È sempre meglio che applaudire ai giochi gladiatorii dell’antica Roma perché il pupazzo non può soffrire, ma è comunque una meccanica comportamentale interessante, forse un retaggio medioevale, quando la “mimesi” del pubblico ricade su un carnefice, un po’ bullo e un po’ buffo, come le marionette armate di clava dei burattini, di cui Mister Punch è un esempio classico.

Marionetta stile Mister Punch dal Gobbo di Notre Dame della Disney


Una marionetta che ci porta a ridere quando saccagna di botte qualcuno sulla scena. Certo, potremmo pensare, magari Mister Punch “potesse davvero“ picchiare, con il sorriso sulle labbra, qualcuno che ci ha fatto un torto! Ma se lo facesse “sul serio”, “nel mondo del reale”? La soluzione dei problemi può consistere nell’abbatterli a randellate? De Feo “ribalta i burattini per vedere cosa hanno dentro” e in questa metafora ogni suggestione a quanto accade in una scena topica di Society di Brian Yuzna è puramente voluta. Forse c’è dentro della salsiccia, per accrescere l’effetto splatter più grandguignolesco, ma forse c’è dell’altro, qualcosa di più lovecraftianamente (uso spesso questa espressione di recente, sto vivendo un momento molto lovecraftiano) metafisico: la mano di un'entità superiore. Quella che guida la marionetta. È scoprire il trucco, svelare la mano del marionettista/burattinaio. La mano di un attore che può rappresentare con dei pupazzi, “interpreti”/strumento di scena, un racconto di fantasia. Un racconto che può diventare anche “interiore e personale”, quando i pupazzi sono utilizzati non per una rappresentazione teatrale ma per una terapia psicologica, per far esprimere a chi li muove, in questo caso non un attore, uno stato d’animo difficile da “intestarsi”. In questo caso i pupazzi si dice vengano usati come “oggetti transizionali” (consiglio un paio di film su questo uso dei pupazzi, sia implicito che esplicito: The Boy di William Ball e Mister Beaver di Jodie Foster. Ma potremmo estendere il concetto anche a Frank di Lenny Abrahamson. Ne riparleremo prima o poi). Questo porta a una riflessione ulteriore, che De Feo affronta con un ingegnoso ribaltamento di prospettive, su chi è il reale narratore che può “intestarsi la storia“, attraverso uno smascheramento del processo di oggettificazione nascosto dietro a ogni bambola o marionetta. Ma De Feo non si limita a questa suggestione. A volte, al di fuori dei casi sopra discussi, “trasformare le persone in oggetti“ è di fatto una pratica che molte persone fanno, qualche volta anche senza usare i bambolotti, sulla base di un disinvestimento emotivo. Come ci sono persone al mondo che accettano supinamente di essere trattate come oggetti, felici di assolvere ad almeno alcune funzioni per le quali sono momentaneamente investite dell’attenzione altrui. C’è insomma chi per davvero si sente ogni tanto un “pupazzo senza glorie”. Un bel magma per costruire una ottima trama horror. 





(un disegnatore di favole nere) Giulio Rincione possiede uno straordinario talento visivo, il migliore possibile per mettere in scena una storia come Mister Punch. Dalla trilogia dei Paperi dove ai testi era accompagnato dal fratello Simone, il disegnatore ha dimostrato una sempre più particolare propensione nella raffigurazione, spesso iper-realistica se non addirittura horror, di creature fantastiche proprie dell’immaginario dell’infanzia più noto, in primis quello sviluppato da Disney. Pupazzi, paperi e folletti si riempiono di rughe, occhi quasi umani, denti marci. Il pelo è arruffato e sporco, la “pelle di legno” scalfita e scheggiata, i costumi logori. È come vedere il figurante di una parata di Gardaland che si sta struccando dopo lo spettacolo: si toglie il sorriso che sfoggia per lavoro sotto una testa di polistirolo, svela un corpo anziano e acciaccato sotto il panciotto a cuscino che lo fa immaginare un eterno bambino, inizia a fumarsi una sigaretta (cosa che oggi per un pupazzo è peggio di ogni altra cosa). Queste creature “fantasticamente tragiche“ vengono rese da Rincione quasi tridimensionali, anche attraverso un uso spiccatamente pittorico del colore, per certi versi vicino ai lavori di Dave McKean, ma con una forte originalità nella composizione.  



Le tavole, ricche di dettagli e un uso peculiare dell’illuminazione, quando servono per descrivere azioni e sentimenti di quotidiana tristezza divengono grigie, realistiche, i colori si raffreddano. Quando si apre al mondo della gioia i disegni divengono stilizzati, caldi, avvolgenti. Quando si entra nelle zone più horror cala i nero, le luci divengono fuochi fatui, tutto assume contorni distorti e un “occhio di bue” illumina i volti più deformati e spaventosi. Tavole “umorali” letteralmente pazzesche, profonde e piene di sfumature, che quando in scena agiscono le componenti più fantasy mutano anche in un lettering che si sdoppia e rende sottile, si carica di colori aggressivi. Mister Punch appare a tutti gli effetti come una favola illustrata degli orrori, dove i burattini possiedono occhi umani, denti da demone e sotto il vestito budella e sangue. Ma Rincione con i suoi disegni ci trasmette che non c’è solo questo, perché dietro ai pupazzi più terrificanti può nascondersi anche una insperata umanità e gentilezza, rendendoceli così non solo più gradevoli, ma anche umani. Così una delle sue tavole più belle arriva quando uno dei mostri sulla scena irrompe in un pianto disperato che ne muta i tratti, svelandone la dolcezza interiore. Una piccola grande magia grafica.





(Giù il sipario). Il nuovo numero del Color Fest non è l’esordio di Rincione su Dylan Dog, ma di sicuro una delle sue prove più riuscite, viscerali. Il talento di questo disegnatore è straordinario e adattissimo alle atmosfere horror della testata. De Feo scrive una agrodolce favola horror, carica di spunti e ben ritmata, in grado di fare breccia anche tra gli storici lettori “della vecchia guardia” che ho il piacere di conoscere e mi hanno consigliato di parlarne qui. Davvero un buon numero. 

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