Reed (Christopher Abbott) è un uomo
medio tra gli uomini medi, sulla quarantina, dall’aria tranquilla e dalla vita
familiare infelice e sottomessa espansione con l’arrivo imminente di un
pargolo. Ma il piccolo e insignificante Reed nasconde un desiderio orribile
quanto orribilmente condiviso con la moglie (Laia Costa): voler uccidere una
prostituita con un punteruolo. Un sogno che pianifica da tempo riempiendo di
appunti un quaderno rosso, studiando i minimi dettagli, dal tipo di prostituta
da coinvolgere al luogo, alle modalità per immobilizzarla, all’alibi e fuga. Ma
oltre a piani e idee non avrebbe la forza di fare niente senza l’ok della
moglie, non sa prendere iniziative come pare sessualmente scarso. Poi,
con il bene placito della moglie che gli raccomanda di non prendere freddo
durante la “missione”, perché i colpi d’aria sono letali in stagione e lui si
dimentica sempre di mettere la sciarpa, Reed si convince, va in un hotel
“particolare” e chiede ad una agenzia “particolare” di fagli arrivare in camera
una esperta di sado-masochismo da “abbattere”. L’idea è chiedere alla
professionista se può legarla, come In uso nelle pratiche sado-maso, per poi
narcotizzarla e quando è priva di sensi pugnalarla. Reed “ordina al telefono”
la ragazza e inizia a fantasticare sulle sue future azioni, mimando nell’aria
tutti i gesti e torture che vorrà infliggere, immaginando i rumori come fosse
la performance di una air band, fino a che arriva Jackie (Mia Wasikowska). È
carico ma subito si intimidisce, quando gli si presenta in stanza questa biondina
scombinata con i capelli a caschetto che sembra in stato allucinatorio e gli
chiede, prima di iniziare, di andare in bagno. Lui acconsente senza pensarci
troppo a farla entrare nel bagno dove ha lascito incautamente punteruolo
e altri giocattoli nascosti in una borsa. Accortosi dell’errore, Reed
viaggia spedito verso la paranoia, mentre sale la concreta paura che la
ragazza, che non esce più dal bagno da troppo tempo, si sia accorta delle sue
intenzioni. Reed prova ad aspettare un po’, tentenna e quando riesce a
trovare la forza di aprile la porta del bagno trova Jackie mezza nuda che si
sta pugnalando una gamba con una forbice. Ora l’omino è nel marasma: Jackie è
una pazza masochista, una “professionista masochista“ che si taglia per lavoro o
una vittima spaventata che ha capito le sue intenzioni e sta escogitato un
impossibile piano per sottrarsi al destino? Sta di fatto che la ragazza, che
appare sempre meno avvenente è sempre più fragile, inizia a intenerire il
cuore dell’uomo, allontanando il momento fatidico del godimento omicida di
Reed. La brava Jackie si sta comportando volontariamente o meno da autentica
Shahrazad ma presto sarà chiaro chi comanda il gioco.
Piercing di Nicholas Pesce è un piccolo
film che ha la struttura di una piece teatrale e il bisticcio di parole è
voluto. Un atto unico con al centro della scena due personaggi per la
maggior parte del tempo, poche scenografie e un confronto più dialettico che
fisico. Ricorda per sommi capi la celebre Venere in pelliccia, che ha trovato
una recente bella trasposizione ad opera di Roman Polanski, ma Piercing ha un
animo più pop e pulp, che riprende a piene mani una narrazione a fitti dialoghi
sarcastico/dissacranti alla Tarantino, adagiati su una colonna sonora
ultra citazionista a base delle soundtrack dei migliori classici
thriller/horror anni settanta, tra cui le musiche dei mitici Goblin. Restando
nell’ambito di Simonetti e soci, Pesce nuota più volte nel “profondo
rosso” del Dario Argento anni ‘70 anche visivamente, dalla costruzione
geometrica della scena al feticismo sensuale per gli oggetti da taglio, come
non disdegna dividere lo schermo in immagini multiple come il Brian De Palma
degli stessi anni, quello di Carrie e del Fantasma del Palcoscenico. Quindi
Piercing è solo raffinato e ammiccante revival pop ‘70 dunque? No, in quanto la
sceneggiatura è tratta da un racconto del 2008 di Ryu Murakami, l’autore di
Tokyo Decadence. Quindi Piercing è un thrillerino tra il nostalgico ‘70 e
l’appassionato di estremo oriente, che trova una quadra perfetta grazie
a un’ottima alchimia tra i personaggi e un semplice ma solido meccanismo da
narrativa noir. Mia Wasikowska è straordinaria nel creare personaggi complessi.
Lo dico da quando l’ho vista in Tv giovanissima con In Treatment, dove teneva
testa e rubava la scena a Gabriel Byrne, e non ho mai cambiato idea.
Riesce a essere tenera, goffa, spaventata quanto attraente in ogni personaggio
che interpreta, conferendo a ogni sua interpretazione qualità umane diverse
quanto uniche. La sua Jackie non è da meno, nuota tra fragilità e sensualità,
in un continuo vagare tra stato allucinatorio e lucida determinazione. Prima ci
ammalia, poi ci fa ubriacare e poi ci travolge, infine ci spaventa. Un vero
enigma indecifrabile per il povero “omino” che è Reed, interpretato da un
Abbott che ne sottolinea tutte le fragilità e insicurezze, la sudditanza
a una moglie-padrona come una latente impotenza psicologica, guarnendo il
tutto di una goccia di umanità che ci permette comunque di avere pena per lui.
Come in Venere in pelliccia, il gioco che coinvolge i personaggi è conquistare
“il ruolo di potere” sull’altro, scompigliando le certezze dello spettatore
facendo leva sul classico equivoco culturale su chi detenga l’effettivo potere
in un rapporto sado-masochista. C’è in più la follia omicida in tutto questo
“gioco”: la necessità del piccolo Reed di penetrare nella carne di una
donna “Adultera” con un oggetto appuntito, per di più con il “salvifico“, a
livello morale, consenso coniugale. Ma seguendo l’amico Freud e l’impostazione
che la pellicola predilige, tutto questo gioco allusivo può ricondursi sempre
a un discorso sulla sessualità e sui “ruoli”.
Peccato duri poco! La pellicola di Pesce scorre via che è un piacere, i personaggi funzionano e hanno un modo molto divertente di relazionarsi, la situazione diventa presto folle e imprevedibile e in qualche caso pure allucinatoria. Come sul set di un film di Godzilla dei primi ‘70 (Perché sempre lì gira e rigira restiamo), la scenografia finto-minimale al di fuori delle “stanze da gioco” è composta da tanti modellini in scale di palazzi e macchinine, come a significare che i due protagonisti sono due Kaiju in lotta sul set plasticoso delle relazioni umane. Come in Colossal di Nacho Vigalondo, ma più sottile. Nei 2020 Pesce ha diretto il reboot/remake di The Grudge/ Ju-oh, che dopo Piercing sono più curioso di vedere di quanto lo fossi prima, di fatto continuando ad adattare sceneggiature di origine orientale. Il suo primo film, del 2016, non è piaciuto, ma voglio essere positivo. Insomma, regista da tenere d’occhio e un filmetto niente male per passare la serata.
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