(Sinossi) Una multa non pagata,
particolarmente salata, che avrebbe dovuto pagare l’amico Groucho, fa
arrabbiare particolarmente il nostro eroe Dylan Dog. Per una strana serie di
eventi i due si trovano a uno spettacolo di marionette di “Punch e Judy”, che
si tiene sotto un tendone fuori città. Mister Punch è l’indiscusso mattatore
dello show e ama randellare tutti gli altri personaggi mentre il pubblico muore
dalle risate. Al termine dello spettacolo Dylan è ancora arrabbiato con Groucho
e accetta una curiosa proposta della ragazza che raccoglie le mance: se vuole
può liberarsi per sempre della persona che lo ha fatto infuriare, attraverso un
rito, facendola sparire per sempre dal “palcoscenico della vita”. Per rabbia e
con la convinzione che si tratti solo di una specie di rito scaramantico, Dylan
segue la strana procedura e dal giorno dopo Groucho sparisce. Nessuno si
ricorda di lui, Groucho non è mai esistito e di conseguenza la vita di Dylan è
cambiata. Ma in negativo e solo il nostro eroe si ricorda ancora dell’amico.
Tornato sotto il tendone di Mister Punch, Dylan scopre che Groucho ha ora una
nuova vita e un nuovo corpo. È diventato una delle marionette di Mister Punch,
che in realtà è un demone e da anni imprigiona gli esseri umani nei corpi di
burattini, per arricchire il suo show. Se oscurerà le luci della ribalta al
capocomico, Groucho potrebbe però finire a pezzi.
(l’uomo è come una marionetta i cui fili sono appesi alle stelle - Carlos S. Weise cit.) Lo sceneggiatore Giovanni De Feo scrive una storia che ha radici nella tradizione del teatro dei burattini e strizza l’occhio alle favole. Mister Punch è un personaggio che esiste davvero e sorprendentemente è proprio il “nostro” Pulcinella che, partito per fare fortuna all’estero, come molti illustri italiani, è approdato prima in Francia e poi in Inghilterra, barattando la mascherina nera e il vestito immacolato per un completo rosso sangue e diventando il protagonista principale negli spettacoli di Punch e Judy. Lei vittima e lui irritabilissimo carnefice, con bastone “d’ordinanza” che era già nelle mani dai tempi del Pulcinella “tradizionale”. Le marionette di fatto, fin dai primi pupari, hanno sempre avuto una passione per spade e mazzate, usate per fare epica quanto satira. L’aspetto per cui De Feo “fa bingo”, nel creare una delle storie di Dylan Dog più incisive e “orrorifiche” degli ultimi tempi, è considerare proprio in questa doppia lettura psicologica gli spettacoli di marionette: il fatto di essere attrattivi tanto per i personaggi e le vicende buffe, quanto per una specifica carica “violenta”. Una “violenza” parossistica, edulcorata, “innocua”, che accomuna gli spettacoli dei burattini ai pagliacci del circo, come alle comiche di Stanlio e Olio come di Chaplin, dove i poliziotti “brandiscono i manganelli” e i “calci nel sedere” sono una forma di comunicazione. Ma perché fa ridere il pubblico, più o meno da sempre, “mimare le contusioni”? Forse perché “ridiamo serenamente” delle sventure, come dei soprusi, quando sappiamo che sono palesemente finte, non ci toccano. Le commedie quanto gli horror moderni e i film di arti marziali, ma anche moltissimi videogame, vivono “anche” di questo: fornire alla nostra fantasia un carico di “violenza escapista” che possiamo impiegare per sfogarci/consolarci virtualmente, magari sognando di menare una persona che ci sta antipatica senza passare ai fatti, come fosse un sogno. È un po’ la sintesi di quanto accade quando una mamma dice al figlio discolo “come ti ho fatto, vorrei smontarti” (senza ovviamente passare alle vie di fatto e conseguenze penali), pensando al figlio, pur inconsciamente, come a un bambolotto che può accendere e spegnere. “Oggettificandolo”, come di fatto è un oggetto, moralmente neutro, né buono né cattivo, né vittima né carnefice, una marionetta che “non è Pinocchio”. È sempre meglio che applaudire ai giochi gladiatorii dell’antica Roma perché il pupazzo non può soffrire, ma è comunque una meccanica comportamentale interessante, forse un retaggio medioevale, quando la “mimesi” del pubblico ricade su un carnefice, un po’ bullo e un po’ buffo, come le marionette armate di clava dei burattini, di cui Mister Punch è un esempio classico.
Marionetta stile Mister Punch dal Gobbo di Notre Dame della Disney |
Una
marionetta che ci porta a ridere quando saccagna di botte qualcuno sulla scena.
Certo, potremmo pensare, magari Mister Punch “potesse davvero“ picchiare, con
il sorriso sulle labbra, qualcuno che ci ha fatto un torto! Ma se lo facesse
“sul serio”, “nel mondo del reale”? La soluzione dei problemi può consistere
nell’abbatterli a randellate? De Feo “ribalta i burattini per vedere cosa hanno
dentro” e in questa metafora ogni suggestione a quanto accade in una scena
topica di Society di Brian Yuzna è puramente voluta. Forse c’è dentro della
salsiccia, per accrescere l’effetto splatter più grandguignolesco, ma forse
c’è dell’altro, qualcosa di più lovecraftianamente (uso spesso questa
espressione di recente, sto vivendo un momento molto lovecraftiano) metafisico:
la mano di un'entità superiore. Quella che guida la marionetta. È scoprire il
trucco, svelare la mano del marionettista/burattinaio. La mano di un attore che
può rappresentare con dei pupazzi, “interpreti”/strumento di scena,
un racconto di fantasia. Un racconto che può diventare anche “interiore e
personale”, quando i pupazzi sono utilizzati non per una rappresentazione
teatrale ma per una terapia psicologica, per far esprimere a chi li muove, in
questo caso non un attore, uno stato d’animo difficile da “intestarsi”. In
questo caso i pupazzi si dice vengano usati come “oggetti transizionali” (consiglio un paio di film su questo uso dei pupazzi, sia implicito che
esplicito: The Boy di William Ball e Mister Beaver di Jodie Foster. Ma potremmo
estendere il concetto anche a Frank di Lenny Abrahamson. Ne riparleremo prima o
poi). Questo porta a una riflessione ulteriore, che De Feo affronta con un
ingegnoso ribaltamento di prospettive, su chi è il reale narratore che
può “intestarsi la storia“, attraverso uno smascheramento del processo di
oggettificazione nascosto dietro a ogni bambola o marionetta. Ma De Feo non si
limita a questa suggestione. A volte, al di fuori dei casi sopra discussi,
“trasformare le persone in oggetti“ è di fatto una pratica che molte persone
fanno, qualche volta anche senza usare i bambolotti, sulla base di un
disinvestimento emotivo. Come ci sono persone al mondo che accettano
supinamente di essere trattate come oggetti, felici di assolvere ad almeno
alcune funzioni per le quali sono momentaneamente investite dell’attenzione
altrui. C’è insomma chi per davvero si sente ogni tanto un “pupazzo senza
glorie”. Un bel magma per costruire una ottima trama horror.
(un disegnatore di favole nere) Giulio Rincione possiede uno straordinario talento visivo, il migliore possibile per mettere in scena una storia come Mister Punch. Dalla trilogia dei Paperi dove ai testi era accompagnato dal fratello Simone, il disegnatore ha dimostrato una sempre più particolare propensione nella raffigurazione, spesso iper-realistica se non addirittura horror, di creature fantastiche proprie dell’immaginario dell’infanzia più noto, in primis quello sviluppato da Disney. Pupazzi, paperi e folletti si riempiono di rughe, occhi quasi umani, denti marci. Il pelo è arruffato e sporco, la “pelle di legno” scalfita e scheggiata, i costumi logori. È come vedere il figurante di una parata di Gardaland che si sta struccando dopo lo spettacolo: si toglie il sorriso che sfoggia per lavoro sotto una testa di polistirolo, svela un corpo anziano e acciaccato sotto il panciotto a cuscino che lo fa immaginare un eterno bambino, inizia a fumarsi una sigaretta (cosa che oggi per un pupazzo è peggio di ogni altra cosa). Queste creature “fantasticamente tragiche“ vengono rese da Rincione quasi tridimensionali, anche attraverso un uso spiccatamente pittorico del colore, per certi versi vicino ai lavori di Dave McKean, ma con una forte originalità nella composizione.
Le tavole, ricche di dettagli e un uso
peculiare dell’illuminazione, quando servono per descrivere azioni e
sentimenti di quotidiana tristezza divengono grigie, realistiche, i
colori si raffreddano. Quando si apre al mondo della gioia i disegni divengono
stilizzati, caldi, avvolgenti. Quando si entra nelle zone più horror cala i
nero, le luci divengono fuochi fatui, tutto assume contorni distorti e un
“occhio di bue” illumina i volti più deformati e spaventosi. Tavole “umorali”
letteralmente pazzesche, profonde e piene di sfumature, che quando in
scena agiscono le componenti più fantasy mutano anche in un lettering che si
sdoppia e rende sottile, si carica di colori aggressivi. Mister Punch
appare a tutti gli effetti come una favola illustrata degli orrori, dove i
burattini possiedono occhi umani, denti da demone e sotto il vestito budella e
sangue. Ma Rincione con i suoi disegni ci trasmette che non c’è solo questo,
perché dietro ai pupazzi più terrificanti può nascondersi anche una insperata
umanità e gentilezza, rendendoceli così non solo più gradevoli, ma anche umani.
Così una delle sue tavole più belle arriva quando uno dei mostri sulla scena
irrompe in un pianto disperato che ne muta i tratti, svelandone la dolcezza
interiore. Una piccola grande magia grafica.
(Giù il sipario). Il nuovo numero del Color Fest non è l’esordio di Rincione su Dylan Dog, ma di sicuro una delle sue prove più riuscite, viscerali. Il talento di questo disegnatore è straordinario e adattissimo alle atmosfere horror della testata. De Feo scrive una agrodolce favola horror, carica di spunti e ben ritmata, in grado di fare breccia anche tra gli storici lettori “della vecchia guardia” che ho il piacere di conoscere e mi hanno consigliato di parlarne qui. Davvero un buon numero.
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