giovedì 25 giugno 2020

Dragonero - il ribelle numero 8 - I segreti degli Ubiqui: la nostra recensione!


Esistono nel mondo di Dragonero delle dimensioni parallele psichedeliche quanto le copertine degli album dei Supertramp.


Sembra che siano delle autostrade vagamente psicotrope che legano luoghi lontani, seguendo i principi del teletrasporto trekker  quanto di una sceneggiatura standard di Christopher Nolan. Un giorno, durante gli eventi trattati nel numero 12 della serie regolare di Dragonero,  un buffo “mappatore” era finito in una di queste dimensioni. Sulla faida tra I “cartografi“ (categoria cui appartiene il nostro Dragonero), dipinti  tutti come uomini liberi, palestrati, indipendenti, bellissimi, sessualmente attivi, con occhi azzurri e codino, contrapposti a quei brutti, magrolini, depressi, zozzi, nerdosi burocrati imperiali dei “mappatori” erondariani, vi lascio all’indispensabile approfondimento critico ad opera di Barbieri di pagina 4. Ma sappiate già da ora che scoprirete un dramma socio-politico-economico di cui presto Leario dovrà farsi carico, altro che cassa integrazione in deroga! Il nostro mappatore del cuore, Radah’El, magrolino, con i suoi baffoni e occhialoni vagamente Lynyrd Skynyrd era finito dentro a questa dimensione, nessuno si era più curato di lui e poi... "sorpresa", oggi scopriremo finalmente che fine ha fatto, come il teletrasporto nolaniano funzioni e relativi utilizzi bellici o ludici possibili, ma soprattutto scopriremo quanto ancora è vasto e inesplorato, in positivo, il mondo di Dragonero. Al punto che ora sappiamo che chiunque, anche i più sfigati, possono trovare alla fine di queste buche del bianconiglio psichedeliche una bella gnocca, se non più “gnocche” disposte “ad harem personale”, pronte ad amarli alla follia. Magari si parla di femmine con un paio di occhi in più sulla faccia, ma se sono occhi disposti armoniosamente sul viso, tipo D’vorah in Mortal Kombat X (Meno in Mortal Kombat 11) si può davvero stare a guardare al capello? Cioè, all’occhio extra? Se quindi il mondo di Dragonero permette sesso assicurato a chi si teletrasporta, a patto di accettare piccoli dettagli anatomici insettiformi che dopo la seconda birra di Solian scompaiono, era chiaro che questa features non piacesse agli imperiali adepti di Radio Maria/Bendata. Questi bacchettoni imperiali, con la scusa di evitare teletrasporti da zone piene di draghi sputafuoco, in aggiunta alla constatazione pratica di non riuscire a usare bene questi passaggi, preferiscono distruggerli, come i vecchietti che tirano il telecomando al televisore quando non gli riesce di cambiare canale. La corsa contro il tempo di Ian e soci consiste quindi nel nascondere e preservare, perché i ribelli sono più smart, smanettoni, vedono nei portali una opportunità tattica e più o meno li sanno usare. Hanno capito che questi passaggi funzionano attraverso un “telepass fantasy” realizzato dagli antichi Ubiqui, costituito da delle pietre sonore che ne gestiscono i percorsi e ne registrano il transito. Ma qual è la pietra e la strada giusta? Ovviamente se becchi la strada sbagliata finisci come in Lombardia sulla Pedemontana e ti arriva a casa da pagare la multa, e giù bestemmie ai Khame. Mentre c’è chi si pone il problema di non finire di nuovo sulla Pedemontana, la maga vampira Aura giocherella con le pietre, utilizzandole per realizzare scherzi buffissimi ai danni dj Ian e Gmor, teletrasportandoli in mondi alla Rick e Morty. Così i nostri eroi, come chiunque si sia trovato controvoglia sulla Pedemontana,  si trovano presto a imprecare un Gharn e due Ozghur, finendo chissà dove sulla world Map. Prima in una zona dell'Erondar boschivo/pluviale piena di mega-insetti, blatte e uomini-insetto alla Mortal Kombat, poi in un luogo sabbioso carico di mostri tentacolari e dune che sembrano facce enormi realizzare dal tizio di Art Attack (non Muciaccia, l’altro). Pur tra latitudini diverse i nostri eroi si imbattono comunque in donne di razze strane ma sempre sexy e in bikini, in un caso tanto arrapate alla visione dell'orco Gmor, che prontamente il nostro viene spogliato per farne il modello di una statua gigante in posa adamitica. L'Erondar quindi è pieno di località turistiche nuove e carico di donne arrapate, a pochi passi dal primo teletrasporto. Quindi riuscirà la coppia uomo-orco a sopravvivere e a foraggiare la ribellione aprendo magari un'agenzia turistica sfruttando il teletrasporto verso mete di intrattenimento? 


Come in tutti i giochi di ruolo fantasy, anche per Dragonero i teletrasporti a un certo punto della narrazione arrivano. Perché è bello girare a piedi come Tex Willer e Carson per infinite praterie, ma dopo che abbiamo passato dieci milioni di pagine per far arrivare i personaggi dal punto A al punto B della World Map, se non si ama troppo la magia eterna del trekking, tra campeggio, caffè sul fuoco e tramonti, e si deve raggiungere per esigenze di trama luoghi tra loro sideralmente lontani... ci si rompe un po’ le palle. Così arrivano i teletrasporti, anche solo per accedere a nuove aree della World Map, anche giusto per esplorarle a piedi, diranno i lettori di Tex come gli appassionati di AD&D che vogliono giusto vedere scenari nuovi anche dopo 16 anni passati appresso al loro "elfo caotico" che hanno downgradato 76 volte per evitare che abbatta Chathulu con un peto tirando un dado da sei. È un po' che Dragonero ci parla delle possibilità di "viaggio veloce", ma con questo numero potrebbe nascere quasi un permanente e utile servizio taxi interdimensionale, che sarebbe utilissimo per permettere il distanziamento sociale inibito dall'uso dei mezzi pubblici come i grifoni e mongolfiere nell'era Covid19 (forza ragazzi! Teniamo ancora duro!), ma che è una procedura che personalmente mi farebbe, se fattibile, una paura fottuta. Il teletrasporto mi fa paura fin dal primo episodio di Star Trek che ho visto in vita mia. Anche perché chi ci garantisce che la persona teletrasportata sia la stessa prima del passaggio? Se fosse solo una copia e l’originale fosse morto? Se succedessero robe tipo La Mosca di Cronenberg? Non se ne esce! Fortuna che è tutto così psichedelico, per lo meno! Fesserie a parte, il numero 8 di Dragonero Il Ribelle, scritto da un Luca Enoch che punta a intrattenerci in modo leggero quanto spettacolare,  è un divertente overture visivo in cui Ian e Gmor vengono sbalzati da una parte all’altra dell’Erondar tra crepacci, insetti giganti, mostri sabbiosi, fortini pieni di scale di legno e carrucole, mentre Aura si dimostra sempre più un personaggio ambiguo, pericoloso e non pienamente con il controllo della sua natura vampirica. Le tavole, particolarmente dinamiche e ricche di splash-page, sono ripartite tra Alessandro Bignamini, Alex Massacci e Luca Bonessi. Il trio di disegnatori, tutti molto bravi nella descrizione dei luoghi e caratterizzazione dei personaggi, non si occupa di una ambientazione o fase della storia  “esclusiva” e il loro stile tende ad amalgamarsi, con dovute peculiarità descrittive. Di Bignamini apprezzo per esempio la capacità enciclopedica, sfoggiata nelle prime pagine, di descrivere con minuzia di dettagli scene di massa di bacarozzi di ogni forma e dimensione. Su qualche tavola ho spruzzato del DDT per sicurezza, da tanto realismo descrittivo.


I bacarozzi di Massacci sono meno angoscianti e più pucciosi (anche in riferimento alla trama che si evolve) ci si può montare sopra o appendersi a loro come fossero le aquile di Tolkien, fanno molto Nausicaa della Valle del Vento di Miyazaki.


Bonessi non ha da disegnare blatte, scorpioncini e forbicine varie, ma si impegna al massimo, per la gioia di grandi e piccini, nel disegnare la bellissima, gigantesca, tentacolosa, viscidosa e pluri-occhiuta piovra delle sabbie. Un mostro panciuto che si erge sostenendosi avviluppato tra le colonne di qualche tempio abbattuto di una civiltà perduta, con il suo corpaccione, lunghissimi arti poliposi e pure per gradire articolazioni insettoidi con aculei vari. Roba che “Sarlacc spostati” la semi-splash page di pag. 89, dove la piovrona si cimenta in un GROOOUURRR a tutta riga che passerebbe facile le selezioni di X-Factor. 


Insomma, gli amanti dei mostrazzi saranno felicissimi di questa nuova uscita mensile di Dragonero, ambientata in un mondo carico di sabbie e strutture a carrucole che a molti gamers ricorderà dei livelli di God of War. La storia è divertente e leggera, riesce tanto a espandere l’universo narrativo quanto a introdurre sfiziose innovazioni “tecnologiche” come le pietre sonore, che si aggiungono a cose già sfiziose in tal senso come il “vortice della luce che devia” (di fatto la versione di Dragonero della Fog of war degli strategici alla Warcraft). Enoch in questa folle corsa riesce a trovare il tempo di parlarci un po’ di Aura e lo fa come suo solito in modo non banale e carico di sensibilità, confermando che il personaggio ha ancora tantissimo da raccontarci, nella sua continua ricerca di una “forma in cui riconoscersi”, tanto emotiva quanto fisica. Ma quello che ci portiamo a casa con più entusiasmo è il fatto che ogni mappatore nerd da oggi può trovare nell’Erondar il suo personale harem dietro l’angolo. Basta imbroccare il passaggio e le giuste pietre sonore. Si rischia di finire sulla Pedemontana o trovare una compagna che feconda uova, ma il gioco vale la candela. 
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mercoledì 24 giugno 2020

Ci ha lasciato a 80 anni Joel Schumacher



È stato il regista di istant-cult generazionali come Ragazzi perduti, Linea Mortale, Un giorno di ordinaria follia. Ha tradotto in video alcune delle più belle canzoni di Lenny Kraviz, INXS, Seal. Rischiava e scommetteva nello sperimentare linguaggi visivi, coraggiosi come pure amabilmente scombinati, come In linea con l’assassino, Number 23, 8mm. Sapeva tradurre con equilibrio i legal di John Grisham, amava i musical di Andrew Lloyd Webber e se è riuscito infine a portare in sala Il fantasma dell’opera, pur con alterne fortune, la sua esperienza con il franchise di Batman aveva lo stesso impianto visivo eccentrico, i colori, paiettes e le musiche curate (da Seal agli U2, passando per Michael Hutchence, Smashing Pumpkins, Massive Attack, PJ Harvey, Metod Man, Nick Cave, R.E.M., Go go dolls... trovatemi pellicole con pari qualità e vastità di soundtrack, non sono molte) di una rappresentazione di Broadway. Chissà cosa sarebbe successo se Warner Bros e DC Comics gli avessero permesso di fare come voleva, ossia una versione cupa di Batman Year One con lo sceneggiatore di Ragazzi perduti. 
Non piaceva a tutti. Ci sono film pazzi come il nazi-horror Blood Creek dimenticati dai distributori, c’è un Tresspass con Nicholas Cage che come sua ultima pellicola, del 2011, non è il migliore dei canti del cigno (ha diretto poi un paio di puntate di House of cards e poco altro). Ma gli si voleva bene e i suoi film migliori non sono invecchiati di un giorno, quando trovava un attore in stato di grazia come Keifer Sutherland, Colin Farrell o Michael Douglas sapeva girarci il film intorno, irradiare una performance.
Ci mancheranno molto i suoi vampiri teenagers, i suoi uomini sull’orlo di una crisi di nervi, i suoi esploratori dell’aldilà. E sì, ci mancheranno pure i capezzoli sul costume di Batman da lui voluti e pretesi dopo un sogno Acido Gothic kitch a base di simbologia della raffigurazione eroica nella scultura greca. Me lo vedo a ridere di noi, tra le nuvole, ascoltando buona musica. Buon viaggio. 
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martedì 23 giugno 2020

Skiptrace - la nostra recensione della commedia con protagonisti Jackie Chan e Johnny Knoxville



- Sinossi fatta male: Benny Chan (Jackie Chan), un poliziotto anziano e depresso di Hong Kong, che ormai combina solo disastri, risponde alla domanda di aiuto di Samantha (Fan Bingbing), figlia del suo ex partner ucciso alcuni anni prima dall'organizzazione criminale gestita dal fantomatico "Matador". Samantha sta operando sotto copertura in un casinò di Macao che sembra gestito proprio dal Matador, ma per uno scherzo del destino ha incrociato il truffatore americano Connor (Johnny Knoxville), che è riuscito a farla mettere in cattiva luce con i suoi capi facendola passare per sua complice di un qualche furto, per poi essere scappato in Russia. Benny dovrà trovare Connor e riportarlo a Macao per salvarla, ma le cose si dimostrano più complicate del previsto e i due, rimasti senza soldi e documenti, nonché inseguiti da criminali cinesi e russi (tra cui svetta la bellissima e bravissima wrestler Eve Marie Torres, già "Maxima" nella serie TV Supergirl, che ha anche ottimi tempi comici) dovranno per lo più fare il viaggio di ritorno a piedi o con mezzi di fortuna, passando attraverso il deserto dei Gobi e la Mongolia Interna. Un viaggio che presto prenderà la forma di un curioso ibrido tra un action Movie e una puntata di robe tipo Turisti per Caso o Overland e un goccio di Mai dire Banzai, con i nostri eroi immersi tra paesaggi, cultura, cucina e tradizioni locali che diventeranno curiose prove da superare per loro quanto per gli inseguitori. Perché, tipo, chi vuole superare un valico di montagna presidiato da delle ragazzine in abiti tradizionali colorati che lo bloccano con bastoni di giunco, deve prima avere la loro approvazione cantando una canzone. 


- Renny Harlin, chi era costui?: Un film del finlandese Renny Harlin in genere lo guardo sempre, magari per scuotere alla fine la testa  ma lo guardo, giusto per trovarci una scintilla action degna di Die-Hard 2: 58 minuti per morire o Cleaner, quel tamarro mascherato da "stile" alla Blu Profondo o quella epica esagerata ma gasante degli "stalloniani" Cliffhangher o Driven. Anche se poi ha fatto robe tremende come Hercules: l'inizio (inclassificabile) o robe per lo più  moscette come L'esorcista: la genesi (occasione buttata), Corsari e Spy (coppia di filmetti carini e nulla più girati per volere della moglie dell'epoca, Geena Davis), 12 Round (saga con "wrestlattori" discutibile, che non sono ancora riuscito ad affrontare nel modo giusto) o Devil Pass (bravi i personaggi, stupenda la fotografia e i mostri ma dove è il secondo tempo? Perché quando iniziano davvero "le cose" la pellicola finisce?), Renny è anche il tizio dei carucci Nightmare 4 e Nella mente del serial killer insomma, un artigiano abbastanza onesto che un prodotto medio e digeribile te lo incarta sempre e qualche volta fa di più. Ora il nostro Renny sembra essere migrato in oriente a fare fortuna, in tre anni di fila esce con Skiptrace con Jackie Chan, Legend of ancient sword con la idol Victoria Song e Bodies al rest con il nostro amico Nick Cheung e programma nel 2021 un ritorno all'occidente con The Misfits con Pierce Brosnam, ma non usciamo dal seminato: parliamo di Skiptrace.
Prima della visione ci ricordiamo che tra i punti di forza di Renny ci sono buona capacità nel costruire il thriller, belle scene d'azione, lunghe, complesse e spesso "vertiginose", un sense of humor in grado di alleggerire l'impasto generale. Soprattutto, Renny è un grande esperto nel fondere bene un scenario realistico con le dinamiche dell'action movie. Vedere Cliffhanger ti fa venire voglia di fare trekking su quelle montagne da tanto sono inquadrate bene, l'aeroporto di Die Hard 2 è dettagliatissimo, perfino il set alla Indiana Jones de L'Esorcista: la genesi è così curato e fotografato da essere il vero aspetto convincente della pellicola. 


- Un classico "Buddy Chan movie" (marchio registrato): Skiptrace è l'esponente di una nota (forse troppo), ma cospicua "serie" di di film Jackie Chan, che io accomuno sotto il termine"Buddy Chan Movie". Abbiamo trattato sul blog i Police Story, la trilogia dell'Armour of God, abbiamo accennato ai "cappa e spada" con The Last Blade, abbiamo accennato alla sua linea di lavori "doppiaggio e poco più for kids" tra Lego Ninjago, Kung Fu Panda e Karate Kid (mi pare), parleremo presto di Little Big Soldier e The Foreigner che forse sono i "pezzi più pregiati e rari a livello recitativo", parleremo magari anche dei "classici Kung - Fu movie" alla Drunken Master (mentre dovrete pagarmi per farmi avvicinare incautamente alla sua produzione "alla bombolo" espressa in robe tipo La gang degli svitati, Project A et simila perché so di non potercela fare neanche io e quel tipo di commedia anni '70, per di più senza una scena in cui c'è la Fenech o Nadia Cassini che si spogliano per fare la doccia, non la riesco ad avvicinare) ecc. ecc. Jackie Chan ci piace, ha fatto più di 100 film, ma alla fine non abbiamo mai parlato qui dei "Buddy Chan Movie", che potrei descrivere in sintesi come film "Buddy Movie con Jackie Chan". I buddy Movie sono quel genere classico in cui ci sono 2 protagonisti di diversa ernia o estrazione sociale impegnati in trame per lo più poliziesche o nel percorso di un viaggio comune, che hanno per idea di sviluppo narrativo, oltre a varie scene action, proporre una "integrazione- popcorn" tra due diversi modi di vivere la vita e il lavoro. Danko! Ecco, prendete Danko per esempio, o Alien Nation ma pure Un biglietto per due, Una poltrona per due, Arma letale... ma stiamo ancora un po' su Danko. Danko parla di saune russe e pranzi con Hot Dog americani, di "etica del lavoro" russa vs "improvvisazione" americana, di situazioni di fraintendimento, perché oggettivamente non si capisce una lingua e il film è parlato in due lingue, ma anche perché certi gesti, come lo scambiarsi doni per riconoscenza, hanno valori culturali diversi. È questo il bello, trovare armonia nelle differenze e arrivare a fine film sapendone qualcosa di più senza essersi sparati in endovena un documentario su, tipo, "usi e costumi dei russi". Nei "Buddy Chan Movie" c'è a fare questo viaggio/missione-multiculturale un attore occidentale, mentre l'altro è sempre Jackie Chan. Nei film di Jackie Chan standard c'è spesso un co-protagonista orientale, ma carattere ulteriore e fondante dei "Buddy Chan Movie" per come li ho concepiti (devo depositarlo in Siae...) è il fatto di essere film espressamente e spintamente pensati per il mercato occidentale, al punto che il buon Jackie si trova a volte a recitare, come spesso ha ammesso nelle interviste, con un copione così culturalmente "altro" da non avere la minima idea se certe situazioni possano far ridere o appassionare uno spettatore occidentale per i tempi comici. E ha una ragione maledetta, soprattutto quando si trova invischiato nell'umorismo di gente come Chris Tucker, che risulta poco divertente anche per molto pubblico italiano, a fronte del classico umorismo alla Jackie Chan che, quando ripercorre la strada di Buster Keaton e delle gag fisiche esprime invece davvero una comicità universale, limpida e adatta a colpire tutto il pubblico. Sono però  "prodotti di esportazione del marchio Jackie Chan" che hanno il loro fascino anche per la sfida di combinare sense of humour di culture diverse, ibridandola con l'action Movie di Hong Kong di cui Chan è bandiera. C'è da dire che spesso l'attore co-protagonista occidentale scelto è un attore comico, quindi la sfida di renderlo "anche" un attore "action" è doppiamente interessante. 
Quanti ce ne sono di film di questo tipo? A dire il vero non tantissimi come si penserebbe. Tra i più belli per me c'è la serie di Pallottole cinesi (Shangai Noon) in cui il nostro è affiancato da uno strepitoso Owen Wilson con cui è in totale sintonia per azione e tempi comici. Molto carino anche Il giro del mondo in 80 giorni con spalla il "poco action" Steve Coogan, riuscita solo a tratti, con divertimento per mio gusto decrescente, la saga di Rush Hour, anche se è evidente l'impegno di Chris Tucker nelle arti marziali.
E quindi Knoxville che partner è? Il fatto che ci fosse Johnny "Jack Ass" Knoxville, un grande stunt-man prima che un comico, ad affiancare Jackie Chan prometteva sulla carta delle scene action degne di questo nome, magari mattissime. Se Knoxville si era poi trovato benissimo con Schwarzenegger ne L'ultima Sfida, cosa poteva andare storto con Chan, con cui credevo di base potesse "parlare la stessa lingua", di action-commedia e costruire il perfetto "Buddy Chan Movie"? 


- Stare "sulle tracce"(lett: "Skiptrace") della tradizione culturale: nei capitoletti qui sopra ho scritto di come il genere "Buddy Movie" offra una ghiotta opportunità per parlare di multiculturalità, dando voce al diverso punto di vista nell'affrontare vita, lavoro e aspirazioni di personaggi di estrazione geografica, sociale ed etnica diverse. Ho altresì parlato della capacità del buon Renny di inquadrare ottimamente tanto paesaggi naturali (montagne in Cliffhanger) che strutture realistiche (aeroporti in Die Hard 2). Combiniamo alle due cose almeno un paio di "dati oggettivi inquietanti" che vengono dritti dalla produzione e giustificherebbero in questo specifico caso una resa non stratosferica delle scene d'azione. Jackie Chan non ce la fa più a muoversi come un ventenne e si è fatto parecchio male in una scena d'azione, che ne ha compromesso la mobilità di una gamba per molto tempo. Johnny Knoxville è di fatto entrato in corsa nel progetto, a 3 mesi scarsi dalle riprese, sostituendo Sean "Stifler" William Scott con degli stunt che potrebbero essere stati creati per quest'ultimo (che era sul progetto da oltre un anno) e non per lo stunt-man di Jackass, che dovendo quindi per lo più "recitare senza fare il matto", prova a diventare (e gli riconosco comunque impegno) una sorta di cosplayer di Jim Carrey. Non c'era nell'aria "troppa voglia" di scene d'azione, considerata pure la tragica morte sul set di uno storico operatore di Hong Kong, un cameraman/action come Chan Kwok-hung attivo da Tokyo Raiders di Jingle Ma. Il risultato di questa nefasta combinazione è che l'azione in Skiptrace è un po' "tirata via", con Jackie che nella sequenza iniziale sulle palafitte sembra muoversi al rallentatore per via della gamba e non migliora poi tanto lungo il film (credo che al massimo sbatta la porta in faccia a un russo e poco più), con Knoxville/Carrey 2.0 che fa praticamente solo faccette e stunt in cui è ingessato o viene usato come sacco di patate umano (se vogliamo nella scena più carina, che ricorda la sequenza delle valigie di Die Hard 2), con sequenze pericolose classiche del Jackie Chan Team meno presenti del solito e che sembrano palesemente poco rifinite, "buona la prima e ciao". Non potendo contare sull'action in quello che dovrebbe essere un film action, ecco la trovata geniale di girare gran parte della pellicola (la migliore) come una brochure delle tradizioni mongole "culturalmente accurata". È l'uovo di Colombo, perché in genere non ci si sofferma mai sulle peculiarità culturali in un film action, ed è pure originale. Così veniamo a sapere che i testicoli di caprone sono un piatto prelibato, che il personaggio di Chan sogna di diventare allevatore di "alpaca", che per sostenere le zattere che guadano i fiumi si possono usare tradizionalmente pelli di cinghiale gonfiate ad aria con la tecnica del bocca a bocca, che per ringraziare del raccolto i contadini mongoli lottano nel fango per giorni, che gli agricoltori di montagna si muovono su carrucole a picco sul vuoto, che nel deserto dei Gobi esistono i pelle rossa con occhi a mandorla e amano cantare in coro "Rolling in the deep" di Adele e improvvisare tornei a uso e consumo dei turisti. Il bello è che non sono informazioni pre-confezionate. Cosa sia un "alpaca" lo si può capire solo a fine film e guardandolo una seconda volta constatare che dei pupazzetti di quello strano animale si trovano sul comodino di Jackie. Allo stesso modo gonfiare pelli di maiale per farne galleggianti non è una trovata buffa, o introdotta in modo buffo o surreale stile "cosa cacchio stiamo facendo?", ma è una cosa che vedi dalle immagini essere fatta "normalmente" dalla popolazione locale. Le palle di montone sono buone e Knoxville, senza fare facce strane o cercare di vomitare quando gli dicono cosa sta effettivamente mangiando, dice che gli piacciono e ne vuole ancora. E ci sono altre mille amenità di questo tipo, una miniera di informazioni culturalmente strane, ma trattate con rispetto, che trovano in questo film di Jackie Chan la stessa funzione del noto combattimento tra i Lego di New Police Story: idee originali per portare avanti la narrazione. Il film, attraverso riti culinari e conviviali, diventa in questa luce un originalissimo road movie in cui a volte la sola partecipazione dei due protagonisti a una delle varie tradizioni popolari mongole ha un senso. Come la festa delle lanterne, evento che senza costruire dialoghi e limitandosi al "volo delle lanterne",  riesce a scalfire la profonda malinconia del personaggio di Chan come a mitigare le intolleranze del ribelle personaggio di Knoxville. 

- Finale: Skiptrace è un film curioso, zeppo di difetti ma molto carino. La coppia Chan-Knoxville funziona e due sembrano a un certo punto divertirsi come ragazzini a farsi gli scherzi e rincorrersi. Molto simpatica anche la wrestler Eve Marie e i vari "sgherri" russi e cinesi, dei cattivi spesso comici e buffi. I paesaggi della Mongolia sono da infarto e per chi non li ha mai visti è un'occasione per scoprire una possibile meta turistica. Ogni tanto il motore si ingolfa, ma chiudendo un occhio ci si più comunque divertire per le mille stranezze che la pellicola, intelligentemente, mette in campo. 
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giovedì 18 giugno 2020

Train to Busan 2, primo trailer



Uno dei film horror a tema Zombie più sorprendenti degli ultimi tempi è di sicuro Train to Busan del regista coreano Yeon Sang-ho. Dopo una carriera dedicata all'animazione, con pellicole pregiate e molto forti come The king of pigs, Sang-ho con Train to Busan, da noi nel catalogo Midnight Factory dopo il grande successo in patria e al Far East Festival di Udine, passa a dirigere attori in carne ed ossa, non prima di regalarci un film prequel animato di 90 minuti (un mega contenuto extra della versione home video anche da noi). È uno zombie Movie dai toni fortemente sociali, dove i "contagiati" nascono tra le fasce più povere e dimenticate della popolazione coreana, ma possiede anche una forte cifra action oltre a saper infondere la giusta paura. Ci aspettavano un sequel ed eccolo finalmente arrivare con questo trailer




L'atmosfera è ancora più romeriana e la testa vaga ovviamente verso il masterpiece La terra dei morti viventi. Incrociamo le dita e speriamo che le promesse del trailer si realizzino. 
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P.S.Presto arriverà anche la nostra recensione di Train to Busan, un recupero doveroso a cui, in tempi di cinema chiusi, non possiamo più sottrarci. Se c'è un mondo cinematografico che in questa quarantena ci sentiamo di esplorare, è proprio quello orientale, forte dell'alta reperibilità in streaming di molte perle di cui non abbiamo ancora trattato nel blog.

lunedì 15 giugno 2020

La rivincita: la nostra recensione del nuovo film in esclusiva sul canale RaiPlay dal 4 giugno



"Non possiamo permettercelo", "è meglio rinunciarci adesso, quando ancora non siamo affezionati a lui". Con queste parole dure come pietra un agricoltore, Vincenzo (Michele Cipriani), chiede alla moglie di interrompere la gravidanza. Mancano i soldi. Il campo presso cui lavorava è sequestrato dal comune per diventare parte della nuova autostrada, per cui sono stati messi sul lastrico la maggioranza dei contadini della zona. Il fratello dell'agricoltore, il fioraio Sabino (Michele Venitucci), gli ha chiesto di firmare un assegno scoperto per salvare il suo esercizio commerciale, oramai disertato dai clienti, dai creditori non pagati. Le cose non sono finite bene, c'è una spirarle negativa a segnare i sogni di una vita "normale" dei due fratelli. Non ci sono altre vie, i figli "costano". Il figlio di Sabino è una spesa unica e presto diventa la tomba del suo matrimonio. La moglie Angela (Sara Putignano) odia il bambino con rabbia e minaccia di volere andar via di casa pur di non averci più a che fare. La moglie dell'agricoltore, Maia (Deniz Ozdogan), si darà pace, lui pensa, ma quel "tarlo" di diventare padre inizia a pesargli, al punto che l'uomo dopo qualche tempo di lavoretti sottopagato e sacrifici, riducendosi agli incarichi più ingrati e pericolosi, decide che è giusto riprovare ad avere un bambino. A tutti i costi. Magari arrivando pure a fare brutti affari con uno strozzino, pur di permettersi un medicinale che curi un'impotenza dovuta proprio al suo nuovo lavoro nei campi con fertilizzanti illegali. 


La rivincita è una storia amarissima, pervasa di humor nero, che potrebbe benissimo essere stata scritta da De Filippo per il suo teatro, ancora oggi moderno e in grado di "rinascere a cinema" come dimostra un'altra e sorprendente opera, di recente arrivata nel catalogo di RaiPlay, Il sindaco del rione Sanità di Mario Martone, interpretato da uno straordinario Francesco di Leva. Anche nel caso de La Rivincita la base è una storia per il teatro, ad opera dello stesso Muscato, diventata poi un romanzo di successo scritto da Michele Santeremo e ora opera prima cinematografica di Muscato in collaborazione con lo scrittore. Forse in futuro sarà anche una graphic novel, suggeriscono gli autori. Il film ha i colori caldi e l'accento morbido della persone della Puglia, ma racconta benissimo una delle più diffuse, terribili e forse irrazionali "paure" del nostro Paese, quella di avere dei figli senza possedere una casa di proprietà, un lavoro sicuro con stipendio adeguato, una macchina, una moglie fedele e dei soldi, tanti, in banca. Se "dall'interno" del Paese-Italia la paura di avere figli è quasi uno stigma sociale, questo non accade in paesi che "se la passano peggio" di noi, dove si vedono ancora i figli, in un'ottica che i sociologi e psicologi sociali definiscono come "generazionale", sempre e comunque come risorsa, come necessario slancio naturale verso il futuro e stampella per il passato. Questa paura generalizzata discende dai media, che spesso a fini politici dipingono l'Italia come un paese allo sbando popolato da irresponsabili che vivono al di sopra delle loro capacità. Discende dai troppi esperti di psicologia e di questioni legali, che legano a infiniti manuali d'uso, spesso """introvabili sul mercato"""",  l'essere "buoni genitori". Questa paura discende dalla fiducia verso l'amministrazione pubblica, che soprattutto  oggi, in un momento di pandemia da Covid19, non sembra riuscire ad ascoltare i bisogni del Paese. Come risposta a questa paura, se la natura ci dice, come Italiani, che è corretto anche per l'umano "germogliare", produrre frutti e futuro, è emblematico che già alla prima scena della pellicola Vincenzo utilizzi dei veleni agricoli sotto la protezione di una maschera antigas. Quello di Vincenzo è un lavorare di sterilizzanti che, potenzialmente, rende per sua natura gli operatori sterili, anche se la paranoia di avere figli ha già fatto più danni del veleno, ha già "sterilizzato" quel sogno. Anche il fratello fioraio, che vive di fiori recisi, sta a suo modo "morendo", allontanandosi dalla serenità familiare, da quando nel pieno disinteresse dello Stato al suo esercizio commerciale in crisi è costretto per sopravvivere a mettersi in affari con dei malintenzionati, interpretati dai buffi ma letali Domenico Fortunato e Francesco Devito. Traffici loschi dove anche in questo caso fanno capolino veleni agricoli. Se i fratelli vivono un personale conflitto con una natura (per loro e colpa loro) matrigna (per dirla con Rousseau e Leopardi) che lega inesorabilmente il loro destino, tra campi sottratti dallo Stato e fiori che non compra più nessuno (sempre la stessa metafora sociale su un piano diverso, più generalizzato, se vogliamo) al punto da chiedere aiuto agli strozzini, anche le loro mogli affrontano un uguale conflitto, con la loro natura interiore di (poter) essere madri (matrigne). Il personaggio di Angela è madre, di un bimbo cicciotto e buffo che ama i balli latino americani, ma essendo stata allevata da orfana dalle suore vive un conflitto con la madre mai conosciuta. Questo la spinge a non riconoscersi in quel ruolo, la fa agire con crudeltà pensando che quelli sia il modo giusto di fare, si sente lei stessa un "fiore reciso" e per questo improduttivo, si sente incapace di allevare dei figli. Maia dal canto suo è di origine straniera, un "fiore innestato" in terra italica, pervaso da una solare positività ma condannato a non avere frutti, a non avere figli,  per via del "campo" sfortunato dove è capitata. Se i personaggi patiscono tutti una natura immutabile delle cose, il film parla però di rivincita e non di condanna, acquista valenze positive nella ricerca di un cambiamento. Le nostre due coppie affronteranno la loro "natura" cercando dolorosamente e disperatamente di ribaltarla, per ottenere quanto si percepisce come "una vita normale". Le modalità di agire sono pericolose quanto titaniche, spesso divertenti ma mai al di sopra di un piano di concretezza. 


Come Il sindaco del rione Sanità, i personaggi de La Rivincita sono espressione della quotidianità meno enfatica, che si esprime cinematograficamente nel ricercare un "nuovo cinema neo realista". I dialoghi sono costruiti a partire dei piccoli problemi di tutti i giorni, seppur tale realismo venga addolcito da una struttura teatrale che sa trovarne tra le voci sottili ironie. La messa in scena ha poche concessioni ai voli pindarici, i non-luoghi di scena sono recinti-gabbie in cui si può osservare più che partecipare emotivamente a quanto sperimenta chi vi è confinato. Risulterà interessante per chi si appassionerà alla pellicola rivolgersi in seguito al romanzo, in grado di esplorare un tema ulteriore, l'azzardo, in grado di scombinare ulteriormente le meccaniche relazionali tra le parti. Muscato usa una buona lente di osservazione per farci provare empatia per i suoi personaggi. L'universalità delle situazioni che mette in gioco è in grado di colpire molti spettatori, che non faranno fatica a riconoscersi o riconoscere situazioni a loro note, dietro la storia di Vincenzo e Sabino.
Ottimi gli attori, molto suggestiva la fotografia, di impianto parzialmente teatrale i dialoghi e un impianto sonoro di stampo naturalista, con poche ma mirate concessioni alle musiche. Il ritmo ogni tanto subisce delle inflessioni, soprattutto in una prima parte che all'inizio può apparire sfilacciata, ma nel complesso su arriva a fine visione senza problemi. 
Il film di Muscato ci è piaciuto e forse oggi è la pellicola più appropriata, quella di cui "abbiamo bisogno" per riflettere su quello che davvero conta in ragione a ciò che stiamo vivendo nel post lock-down, tra poche certezze sul futuro e bonus monopattini. È bello che un film del genere, che avrebbe meritato la sala, sia oggi disponibile sulla piattaforma RaiPlay come segnale di un cinema "diverso", lontanissimo dagli sceneggiati televisivi della nostra emittente nazionale, anche perché in grado per la sua natura "streaming" di essere fruito non solo dopo le canoniche 21.50, orario oramai "standard" e forse già viziato dai primi sintomi di sonnolenza per lo spettatore-tipo dei classici canali televisivi. 
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sabato 13 giugno 2020

Chinese Zodiac - la nostra recensione dell'Indiana Jones di Jackie Chan





J.C. (Jackie Chan), conosciuto anche come  "Condor" o "Asian Hawk" (un po' come lo Hudson Hawk di Bruce Willis, che infatti diceva ispirarsi a Jackie Chan) è il super ladro mercenario per eccellenza del team di "cacciatori di tesori" al soldo di una losca organizzazione criminale che, sotto una facciata istituzionale onesta, recupera tesori e ruba opere d'arte per poi replicarle e vendere i falsi alle case d'asta per miliardi. L'affare del momento sono le statue del cosiddetto Zodiaco Cinese del Palazzo d'Estate di Pechino, rubate a metà dell'800 dagli occidentali e finora rimaste nascoste nelle collezioni private. Nello specifico, 12 teste in bronzo che facevano parte di una fontana, per i cinesi rubate dagli occidentali franco/inglesi in modo vigliacco e deliberato e per gli occidentali legittimo bottino di una guerra in cui erano stati trascinati dentro, che ora si vuole scovare per il mondo e rivendere alla Cina. Più teste di bronzo si recuperano, più soldi finiscono nelle tasche dei ladri/cacciatori di tesori. Dal palazzo francese di alcuni nobili decaduti al relitto di una nave europea nascosta su un'isola misteriosa, fino alle pendici di un vulcano, l'Asian Hawk e il suo team si cacceranno nelle situazioni più assurde ed estreme. La presenza nel gruppo di una esperta d'arte che vuole davvero che il tesoro torni in Cina, per una questione culturale e non per profitto, metterà però in crisi il modo di pensare dei ladri. 
Chinese Zodiac è conosciuto anche come Armour of God 3, con il personaggio di Asian Hawk che fin dal doppiaggio italiano viene chiamato con un semplice "J.C". I capitoli 1 e 2 sono inediti in Italia ma non ci sono per questo problemi di comprensione di trama, che è un po' sempre la stessa: Jackie Chan è un super ladro alla Lupin, che utilizza un sacco di tute, rampini e trucchi elusivi per impossessarsi di un bottino che spesso lo porta alla James Bond a girare per il mondo e conoscere persone di altri paese. Non mancano tanti giocattoli alla Bond, macchine "speciali" comprese. Sono film dall'animo internazionale quindi, spesso figli di una buffa visione degli occidentali da parte dei cinesi. Ok... ho capito che ve ne parli almeno un po'..



Nel primo Armour of God, del 1986, coproduzione di Hong Kong con la Jugoslavia, Asian Hawk cercava appunto una "Armatura di Dio" nelle mani di una setta di fanatici religiosi tra i boschi e castelli iugoslavi, piena di monaci psicopatici vestiti come nel medioevo, ma che tra le loro fila avevano anche delle Killer di colore da pura blackspoitation. Era molto fumettistico ma anche divertente, nel 1986, ossia 34 anni fa, Jackie aveva appena girato il capolavoro Police Story, quello con lo stunt folle in cui cadeva indenne da un palazzo, al massimo della forma fisica e delle arti marziali. Armour of God 2 - Operation Condor è del 1991, e ricordo che in Italia è stato "sdoganato" per lo più dal 1995, anno di Terremoto nel Bronx.



Il capitolo 2 alza il tiro, con una caccia al tesoro che incontra scenari che passano dalla Spagna, il deserto del Sahara e una surreale "Volcano Island", alla ricerca di un tesoro trafugato della seconda guerra mondiale. J.C. più che Indiana Jones  è a tutti gli effetti un precursore di Lara Croft e Nahan Drake, diremmo un ipotetico compagno di merende del Jack T. Colton di Michael Douglas, ma alla fine combatte pure lui i nazisti, anche se moderni, con pure un epigono di Hitler come boss finale. Il nostro eroe si divide tra inseguimenti in auto a Madrid, strani percorsi di scivoli e tizi buffi finto-aborigeni nella cartoonesca Volcano Island, ruzzolate tra le due e corse sui dromedari in Marocco. Il tutto sfoggiando oltre che un fisico da paura anche degli occhialoni da sole giganteschi, tipici anni '80, che il Tom Cruise di Top Gun ancora gli invidia. 
Ed eccoci al terzo film, del 2012, un anno dopo il remake di Karate Kid con protagonista il deprimente figlio di Will Smith, che grazie a Dio sembra ora aver messo in soffitta la carriera di attore. Jackie ha però girato nello stesso periodo Little big soldier, uno dei suoi film più belli e maturi, è diventato ulteriormente più famoso "interpretando" Scimmia in Kung Fu Panda e soprattutto è arrivato al film numero 100, proprio questo Chinese Zodiac, che sceglie anche di dirigere personalmente. È un ritorno ai film più ingenui del passato, tanti colori, roba buffa e Amarcord. Anche qui c'è una visione degli occidentali che è tutta matta, ci sono pirati asiatici che paiono usciti da One Piece (con tanto di cosplayer di Jack Sparrow), scene assurde su scivoli alla Goonies (c'è pure un effetto grottesco che di un tratto rende i pirati di cui sopra come Sloth dei Goonies), inseguimenti e giri del mondo. Ma è se vogliamo anche qualcosa di diverso per approccio


Qualcuno si ricorderà certamente di The Tuxtedo, del 2002, arrivato da noi come Lo smoking. Jackie Chan impersona un tizio che per qualche motivo si trova tra le mani un tuxtedo da 007 ultra hi-tech, che permette a chi lo indossa di muoversi come un abilissimo campione di arti marziali... come Jackie Chan. In pratica la pellicola è tutta una gag con Jackie Chan che fa facce buffe mentre il suo corpo avvolto dal tuxtedo si esibisce in complicatissime e precise tecniche marziali. 
In Chinese Zodiac ci troviamo 10 anni dopo The Tuxtedo, ma è sempre il vestito o "the suit", se preferite, a fare la differenza. Non potendo più muoversi veloce come 10 anni prima e limitando quindi le arti marziali a poche centellinate scene con sparring partner esperti, Jackie Chan rimane al centro della scena, oscurando il suo solito team di ladri acrobati a comparse e poco più, "indossando" ciclicamente, come un G.I. Joe, delle tute hi-tech che gli permettono di compiere azioni quasi supereroistiche. A inizio film c'è l'armatura a rotelle, che permette a Chan di sfrecciare sull'infinita discesa di una montagna dopo aver compiuto un colpo, in una scena così lunga, articolata e spettacolare che Vin Diesel Levati. Poi Chan usa una tuta che con un certo slancio gli permette di planare usando un paracadute retrattile, che una in una divertente scena in cui deve fuggire da alcuni cani mentre si trova in un labirinto verde, cercando le zone del tracciato che gli permettono più a lungo di planare. Poi c'è la "suit" finale, una specie di tuta che si gonfia per evitare l'impatto di una caduta da altezza folle, usata in una sequenza alla Point-Break. Sono queste scene "con tuta" il piatto forte, anche se faranno un po' storcere il naso a chi pensava che nel 2012 Chan potesse muoversi ancora come ai tempi di Terremoto nel Bronx. È un Jackie Chan che va incontro ai suoi limiti ma che nonostante tutto non riesce ancora bene a dividere la scena con stunt-man più giovani, seppure ci siano dei buoni tentativi, forse anche perché questo è il film numero 100. È un Chan, questo del 2012, che si farà aiutare per le scene action sempre più da effetti visivi che "spostano il Focus" dell'azione lontano dalle arti marziali  (anche solo una sparatoria è più facile di un combattimento corpo a corpo, se ci sono pure mostri colorati come in Bleeding Steel è meglio) o si concentrerà sempre più maniacalmente in poche scene marziali perfette, in film supportati da un cast che non lo mette più al centro dell'azione (come in Dragon Blade e in The Foreigner). In Chinese Zodiac c'è un Jackie Chan che se diventa "meno artista marziale", e che si scoprirà nel futuro (più) bravo anche sul lato drammatico (per quanto a livello drammatico abbia sempre avuto le sue cartucce), sa comunque mantenersi il buffo mattatore di sempre, con tempi comici perfetti e la mimica di Buster Keaton.
Insomma, gli vogliano bene a Jackie anche in questo Chinese Zodiac spensierato e per famiglie, pieno di colori, scene buffe e tanta matta azione, un po' alla Bond e un po' alla Heist Movie. 
Ne avevo sentito parlare come uno sfacelo, è in realtà un film più che discreto e carico di trovate visive, con al centro un artista marziale leggendario che, anche se un po' appannato, non ha ancora smesso di farci divertire e divertire anche le nuove generazioni. 
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martedì 9 giugno 2020

Le voci dell'acqua: la graphic Novel di Tiziano Scavi con i disegni di Werther Dell'Edera per la Feltrinelli Comics



Stravos sogna di volare, come il protagonista di 8 e 1/2, ma le sue sono ali finte, ali di Icaro, il suo destino è cadere al suolo, come la pioggia incessante del mondo in cui abita. Stravos è "acqua che cade", esattamente (in quanto ciclicamente capita a ogni uomo di cadere e morire) e biologicamente (in quanto gli uomini sono fatti per larga percentuale d'acqua), moralmente (in quanto la conoscenza di dover morire uccide il vivere) e inesorabilmente (perché a prescindere dai nostri sogni e aspirazioni siamo legati a un destino già scritto per noi). Nel battito d'ali che spinge Stravos al suolo, il nostro eroe può forse sentirsi comunque libero. Libero di interpretare la società di uomini formiche intercambiabili in uffici formicai. Libero di rimpiangere un amore mai compreso, di puntare il dito sui cattivi genitori che ne hanno minato il futuro, libero di immaginare la sorte degli altri e della storia, laddove anche se esistesse un futuro di immortalità qualcuno ce ne priverebbe per loschi scopi. Mentre cammina tra le vie di una città deformata e resa quasi intangibile, giusto tratteggiata, dall'acqua, sostanza maligna che lo "spinge inesorabilmente  verso il suolo", Stravos abbandona La protezione parziale di un ombrello (reale o "fantasioso") e la affronta sulla sua pelle, inizia ad ascoltare così le mille voci delle gocce e forse si immerge sempre di più nel "panta rei", consapevole di essere anche lui stesso "fluido".  Quale sarà la fine del viaggio del nostro eroe?


Tiziano Sclavi gioca con i suoi topoi più amati, non dimentica il suo caustico e nerissimo umorismo e ci travolge, come nel suo recente Dopo un lungo silenzio, in un incubo infinito, esistenzialista e senza uscita. Il papà di Dylan Dog ci parla di schizofrenia e malinconia, di una ricerca personale e sofferta della natura umana senza risposte né alibi, dove la gioia e la pace sono fugaci e legate alle "piccole cose" del mondo che ci circonda. Si sogna e si piange in una costruzione a flussi di coscienza che se da principio stordisce, una volta che viene addomesticata avvince, rapisce.  Dell'Edera crea tavole fugaci e frammentate a perfetta immagine del racconto. Nascono quadri visivi quasi impressionisti, in cui una incessante pioggia composta da piccoli tratti in bianco e nero svela appena il mondo del racconto, lasciandoci quasi il gusto enigmistico di "riempire i puntini" per rendere le immagini più leggibili, meno aliene. È un lavoro affascinante quanto misterioso, "primordiale", privo di campiture e gabbie, frutto di una continua sottrazione del dettaglio suggestivo dell'arte del non-finito alla Auguste Rodin. Nel micro-verso piovoso di Stravos, il nostro uomo in cammino verso l'amalgama liquido tra il destino, il mondo e se stesso, non mancano, come estetica kantiana e dylandoghiana impone, ai bordi delle strade gli amati freak sclaviani, i genitori-mostri, gli uffici geometricamente e disumanamente fantozziani, le persone che a parole si credono dall'esterno felici e realizzate che di colpo si sparano un colpo. Chi è avvezzo delle opere di Sclavi si può sentire in possesso di un codice interpretativo già ricco in cui destreggiarsi, ma Le voci dell'acqua non è opera che fa pagare un biglietto di ingresso ai nuovi lettori, si avvale di metafore universali e riesce a colpire ogni tipo di lettore.
Le voci dell'acqua è un'opera francamente imperdibile e indispensabile per tutti gli amanti (e non) degli universi di orrore e magia creati negli anni da Sclavi. Visivamente il lavoro di Dell'Edera è complesso e affascinate, graffiante ma anche sorprendentemente lirico. Sfogliatelo e per una mezz'ora fatevi trascinare nel suo mondo. Ne vale la pena. 
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lunedì 8 giugno 2020

The white storm - la nostra recensione di un classico action di Hong Kong del grande Benny Chan



C'è un momento molto specifico in cui si può essere sicuri di avere un buon amico. Quando ti trovi in una foresta Thailandese, sul ciglio di un salto da 200 metri che porta tra le acque paludose piene di coccodrilli affamati, con un narcotrafficante che ti punta la pistola alla tempia circondato da quaranta suoi sgherri armati e due elicotteri in volo con mitragliatrici min-gun puntate ai tuoi coglioni. Accanto a te, nella situazione di merda, due tuoi amici. Il mega trafficante con esercito ed elicotteri ti dice, indicando i tuoi amici: "Chi ammazzo? Magari il secondo lo risparmio, devi scegliere tu". E allora la brocca ti parte del tutto, inizi a razionalizzare l'irrazionalizzabile, pesi il "valore della vita" di entrambi, chi ha più da perderci a livello famigliare e di comunità, al netto dei torti che sicuramente hai fatto alla vita di uno o dell'altro e che vuoi espiare qui, ora, tra le fauci di un coccodrillo, il piombo di un bastardo e il fango dal cazzo di set naturalistico della tua decisione, la Thai-fottuta-landia, che si mischia al tuo piscio nel giorno più dimmerda della tua esistenza terrena. "Chi ammazzo? Se non scegli sparo a entrambi", ti dice calmo, quasi ridendo, ma con tutta la serietà di andare in fondo. Allora scegli e sbagli. Sbagli perché non c'è modo di fare la cosa giusta in quel momento, ma credi comunque di aver premuto tu il grilletto, qualcosa di quello che eri muore in quel momento e inizia il lato B della audiocassetta della tua vita, dove sai che arriveranno solo i pezzi più merdosi e che nessuno chiederà mai ai concerti. Il bastardo ride, spara, un tuo amico cade nel vuoto spinto dal piombo nelle fauci dei coccodrilli. Il bastardo mantiene la promessa, libera tutti gli altri, scompare con i suoi elicotteri e ti lascia lì a riflettere sull'esistenzialismo. 
Ci sono tre amici, amici veri che amano come tutti gli asiatici il karaoke e una serie TV di cappa e spada di cui ricordano a memoria la sigla. Uno è diventato un pezzo grosso in polizia (Sean Lau), uno è un piccolo poliziotto sottopagato (Nicholas Cheung, attore feticcio di Dante Lam, da The Best Stalker a Undeatable), uno fa parte del team ma è infiltrato (Louis Koo), da 6 anni, nel mondo della droga di Hong Kong e non ne può più, il "pezzo grosso" non vuole far finire mai la sua infiltrazione, sta diventando anche lui un criminale come le persone con cui passa tutta la sua giornata. Poi arriviamo alla scena del burrone in Thailandia, al centro di un'operazione andata alle ortiche che presupponeva la cattura del drug-lord conosciuto come il Buddha a 8 facce. Usciti da questa brutta situazione uno di loro diventerà un pezzo grosso della polizia, uno sarà un poliziotto sottopagato, uno vivrà con dei criminali fino forse a diventarlo anche lui. Tutti i ruoli si sono mischiati e l'amicizia sembra essere finita. 


So però che vi è rimasta una domanda in sospeso. Chi è davvero morto tra le fauci dei coccodrilli? 
Cecchi Gori HV e la Tuckerfilm, etichetta principale che distribuisce i film che hanno reso grande il Far East Festival di Udine, portano in home video un intricato e spettacolare thriller di Benny Chan. Un autentico congegno ad orologeria in cui action e dramma si mischiano in un appagante e spietato balletto tra micro e macro cosmo, confezionato nel migliore dei modi possibili e con un ritmo che una volta che ti prende non molla, ti rapisce.  
Benny Chan è un regista che si è fatto le ossa alla corte del leggendario Johnnie To (PTU, Election, A Hero never die) dirigendo alla sua prima pellicola, Moment of romance, il super-divo Andy Lau (Infernal affair, Detective Dee, Firestorm). Che la classe non è acqua lo ha dimostrato poi nei molti lavori per altri divi di Hong Kong come Jackie Chan (lo ha diretto in cosette leggere quanto in un capitolo della sua serie "seria" New Police Story) e Nicholas Cheung, che è riuscito pure a dirigere tutti e tre insieme nel 2011 in  Shaolin - la leggenda dei monaci guerrieri (arrivato anche da noi per gli amici di Minerva). Dopo Shaolin dirige con questo The White Storm, un film con protagonisti un altro tris di divi, il già citato Nicholas Tse, accompagnato da una coppia di grandi attori che ha fatto sfaceli, tra gli altri, con la saga di Overheard (di cui troverete qualcosa sul blog) Louis Koo (visto anche in Bullet over Summer di Wiston "Ip-Man" Yip) e Sean Lau (sempre A Hero never dies). Oggi The White Storm ha generato un sequel che è stato nominato agli Oscar come miglior film straniero, ma anche il capitolo numero 1 ha macinato i suoi premi, tra cui 5 nomination agli Hong Kong Film Festival del 2013.
Ci si affeziona in fretta al trio di protagonisti. Il burbero ispettore di Sean Lau è un omone rude ma dallo sguardo buono che ricorda Bud Spencer. Il piccolo poliziotto, sfigato e con madre malata, un generoso e con poche ambizioni interpretato da Cheung è la parte più gentile del gruppo. L'infiltrato di Koo è dolente, combattuto, costantemente in bilico verso la follia. Il materiale umano che i personaggi esprimono è denso, stratificato, complicato, al punto che nel film arriva quella che per me è LA "scena madre per antonomasia" ed è qualcosa di grandioso, inaspettato, così pazzesco che se ve ne parlo ci devo dedicare un pezzo a parte. Per me LA Scena madre è quasi meglio della scena con elicotteri e coccodrilli, a tutti gli effetti uno dei più roboanti selling point di una pellicola di sempre. Se amate i film drammatici troverete quindi in The White Storm tutta la profondità che cercare. Se amate gli action, troverete in The White Storm tutte le scene action che potete desiderare, dalle fughe sui tetti agli inseguimenti tra le paludi, passando per infiniti e viscerali scontri a fuoco sullo stile di A better tomorrow. Anche le auto "combattono" e diventano "oggetti di sviluppo drammatico", in una stranissima e originale scena ambientata in un porto, dove i nostri tre amici letteralmente si "prendono a botte, incidentandosi a vicenda", guidando ognuno una macchina diversa, in una sequenza che piacerebbe come spunto  a David Cronenberg per un ipotetico Crash 2 che dopo "l'amore sessuale" tratta di "amicizia virile". 
The White Storm ha molte facce diverse, è un riuscito e armonico mix di generi come solo l'Oriente riesce a confezionare. Migliora molto a una seconda visione, dove tutti i pezzi narrativi diventano noti e la "trasformazione dei personaggi" assume una luce ancora più netta. Una pellicola da non perdere. 
Talk0

giovedì 4 giugno 2020

Addio a Roberto Gervaso



L'ozio è padre di quei vizi che ce lo fanno amare.
L'ozio non ci fa fare quelle cose che non avremmo comunque fatto.

Talk0 & Gianluca


mercoledì 3 giugno 2020

Act of valor - un film di guerra che...No!



Un giorno qualcuno (voglio tacere misericordiosamente sui nomi, che tanto li trovate facilmente in rete) ha probabilmente detto qualcosa tipo: "Ma perché per fare un film che parla di super-soldati-americani dobbiamo chiamare a recitare degli attori? Non sono più assolutamente fichissimi, nonché reali e quindi "spontanei nell'interpretare loro stessi", i super-soldati-americani veri, rispetto ai bietoloni di Hollywood? Anche perché se poi vuoi vedere un film super-realistico che stringi stringi è una raccolta di super-vere sequenze di tattiche-militari-super-fighe, chettifrega se i super-soldati-americani non sanno recitare in quelle due-tre scene di raccordo tra una sparatoria notturna a infrarossi e un inseguimento con motoscafi con mitragliatrice? Potranno mai essere peggio di impresentabili incapaci come Scott Eastwood, Ed Skrien o Liam Hemsworth? Facciamo che quando devono "recitare" diamo al tutto un taglio documentaristico con loro che parlano di patria, lavoro e famiglia davanti a un barbecue ed abbiamo svoltato".
Credo la massima sintesi di come questa premessa si sia tradotta nel prodotto finale possa essere offerta da questa emblematica immagine di Act of Valor. 


Fanno "la boccuccia", imitano Adriano Celentano nella ricerca di un mood indifferente ma sborone, ma soprattutto sono sputati all'idraulico che incontrate al bar, che vi fa la stessa faccia quando vi parla della campagna acquisti dell'Inter. 
Ora, per l'epica cinematografica militarista in genere quando penso a un super-soldato-americano penso a Casper Van Dien (e vedete che non prendono per forza Martin Sheen) che incoraggia degli space-marine ad andare all'assalto di insetti giganti alieni sventagliando smitragliate sotto la colonna sonora marziale di Basil Poledouris. 


È un bello shock, lo ammetto, fa riflettere a più livelli, mi urla forte in testa che "là fuori non c'è gente che parla come Shakespeare" o per lo meno che io preferisco i fumetti al mondo reale. Amo vedere eroi-modelli vestiti di Gucci-Wachowski che si muovono in mondi assolati e patinatissimi alla Michael Bay, dove tutti "più che saltare" volano con i cavi di Yuen Wo Ping, dove l'eroe tipo del decalogo McTiernan / De Souza si mette di spalle per non vedere la mega esplosione che distrugge la base dei cattivi, dove i combattimenti sono danze raffinate coreografate da Sammo Hung che celebrano lo Yin e lo Yang e dove i corpi dei nemici abbattuti sono disposti a terra formando delle parole con i corpi come nei film di Kitano. Il "Realismo militare cinematografico" che mi appassiona è quello dei movimenti coordinati di truppe Delta Force e Marines di Ridley Scott in Black Hawk Down, le accurate procedure e strumenti di disinnesco e protezione dai detriti di The Hurt Locker della Bigelow, la ricostruzione storico-dantesca delle trincee dello sbarco in Normandia di Spielberg in Salvate il soldato Ryan. Act of valor è come assistere alle esercitazioni dei pompieri e in questo è una interessante brochure che illustra quanto siamo bravi, veloci ed efficaci i super-soldati-americani in tutte le loro mansioni. È azione reale, compiuta da professionisti reali, ti dice che "Call of duty è una storia vera", ma è poco poetica, è un elaborato percorso a ostacoli i cui elementi sono sempre evidenti, "scoperti", affrontati "da manuale". Poi arriva la "parte recitativa" e i nostri eroi diventano amabili e un po' pesanti bietoloni della porta accanto, i vostri vicini di casa con meno verve di cui dopo 40 anni di frequentazione assidua e giornaliera sapete solo che sabato vanno a pescare al lago, sono preoccupati per le piogge estive che rovinano i pomodori e valutano che il cancello comune non si chiude più bene come una volta. Non perché "parlate poco" con loro, ma perché loro per ore e ore non parlando davvero di altro e sanno annoiare fino al suicidio! Due battute "di story telling" tratte da Act of Valor e sentirete l'esigenza di interrompere per andare a far pisciare il cane. E magari il cane manco lo avete!! Aridatece Van Damme che fa le spaccate, aridatece Seagal con il codino che corre roteando il braccio senza un perché. Vi prego non fate che alla prossima scena con esplosione di Bourne Identity Matt Damon esibisca con ossequio all'Actor Studios queste espressioni 



Concludendo, Act of Valor è una raccolta di scene di esercitazioni militari di una ottantina di minuti, condita da momenti cringe in cui i veri soldati parlano per lo più di come amino la patria e soprattutto l'esercito, che li ha tolti da una vita senza prospettive da commessi di Wallmart, al netto di una certa pericolosità ineluttabile ma che comunque accettano. Avessero detto le stesse cose in un documentario, senza fare queste facce per cercare di imitare maldestramente Bruce Willis davanti ad una esplosione, e Act of Valor sarebbe stato più commovente, onesto e vero. Così come è, la pellicola è un prodotto destinato ai soli cultori dell'esercizio bellico-ginnico delle scene d'azione, dove i muscoli riescono comunque a sopperire alla scarsa costruzione dell'insieme. 
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