giovedì 31 ottobre 2019

La famiglia Addams: la nostra recensione



Sono strani, sono eccentrici, sono "spooky" sono "calienti". Vestono di scuro, amano giocare con le armi e gioire nei giorni di pioggia, mangiare cibi rivoltanti e fare feste rumorose. Sono gli Addams, una famigerata famiglia allargata che dopo l'ennesima levata di forconi da parte di cittadini perbene che non li volevano a casa loro si sono trasferiti di nuovo, ora in un lugubre manicomio sulla collina, nel New Jersey. Dopo 13 anni qualcuno vuole però riqualificare il territorio, crearne un bel paesaggio/cartolina di casette nuove e color pastello. Il manicomio sulla collina degli Addams è un pungo nell'occhio di questo sogno cromatico positivo e allora occorre che la gente perbene vada a buttarlo giù e scacciare nuovamente i mostri, con le buone o con le cattive. 
Tornano al cinema gli Addams, umanissimi, sinceri esploratori e ferventi adoratori del grottesco. "Diversi e fieri di esserlo", autentici e irresistibili antieroi, trasgressori in una società che vive di pregiudizi e inneggia all'omologazione come una nota cromatica dark in un campo di finti arcobaleni di cartapesta. 
Il motivetto della sigla con la "mano" che schiocca le dita, interpreti di culto come i grandi John Astin (Gomez), Carolyn Jones (Morticia), Ted Cassidy (Lurch), una scenografia sopra le righe e un umorismo che ancora oggi ha tanto da dire. 
Erano in TV dal 1964. con uno show in amabile bianco e nero per episodi di trenta minuti. Gli Addams hanno dato vita a libri, fumetti, videogiochi, hanno fatto innamorare più generazioni di fan, hanno avuto tanti illustri estimatori e imitatori tra i cineasti. Per chi è nato e cresciuto con i film di Tim Burton, negli episodi classici degli Addams può scoprire da dove provengano molte delle sue suggestioni visive e narrative. Più di recente le tematiche e le atmosfere tipiche degli Addams le abbiamo riviste in animazione, un po' in Cattivissimo Me, un po' in Hotel Transylvania ed era giusto che gli Addams tornassero anche loro al cinema dopo oltre un ventennio dalla loro ultima incarnazione, quella che li ha visti interpretati da Raoul Julia (Gomez), Anjelica Hudson (Morticia), Christopher Lloyd (Fester) e una allora piccola ma già bravissima Cristina Ricci (Mercoledì). Nel 2019 sono protagonisti di questo cartoon e la regia è affidata a esperti animatori con un passato in Dreamworks e un presente sperimentale, nella animazione per adulti fuori di testa targata Seth Rogen. Il cast vocale vede ancora coinvolti grossi nomi come Oscar Isaac (Gomez), Charlize Theron (Morticia), Clohe Graze Moretz (Mercoledì), Bette Midler (la nonna) e addirittura Snoop Dog nella parte di cugino IT. Da noi le voci sono quelle del sempre bravo Pino Insegno (Gomez), di una amabilmente creepy Virginia Raffaele (Morticia), un inedito e spassosissimo Raul Bova nei panni di Zio Fester e una grandiosa Loredana Berté nel ruolo della nonna. 


L'animazione è molto burtoniana, dalle parti di Nightmare before Christmas e La sposa cadavere, la caratterizzazione segue i disegni classici delle illustrazioni dei libri degli Addams ed è molto riuscita, diversa nella resa da Hotel Transylvania. Il colpo d'occhio è più che buono, la computer grafica rende la magione infestata, "viva", con le pareti che si muovono come respirando mentre lo spirito che la custodisce urla di continuo il suo dissenso per l'invasione del suo territorio (per poi rivelarsi in una particolare scena del film pure lui non così aggressivo... anche le case stregate hanno "un cuore"). Rappresentare "mano" non è più una sfida come ai tempi in cui c'era un bravissimo mimo a muoverla nelle parti buie delle inquadrature. Ora c'è veramente un leone domestico che può essere un leone attivo sulla scena e non un semplice gattone seduto come in passato. Ora c'è una pianta animata che pare il platano picchiatore di Harry Potter. La magione sulla collina e tutto lo scenario circostante "pulsano di vita" e, liberi dai limiti fisici dell'uso di attori in carne ed ossa, i personaggi possono esprimersi in azioni fuori di testa, saltare come palle impazzite e improvvisare passi di tango nei momenti più surreali. 
Se sul piano grafico quindi tutto funziona, su quello narrativo non tutto fila liscio. La narrazione è un po' schematica e più che costruire una trama di ampio respiro vive di scatch. I personaggi sono "troppo carichi", oltre-caratterizzati, perfetti per uno show di trenta minuti stile "Tazmania" (non so se lo trasmettono ancora... spero di aver reso l'idea). Ci sono delle deboli evoluzioni caratteriali, che riguardano per lo più Mercoledì e Pugsley, tutti gli altri sono super granitici e si avverte davvero l'assenza di una costruzione caratteriale come quella di Julia, Huston e Lloyd. Per questo il film pur divertendo molto nelle prime battute soffre un po' di pesantezza nella parte centrale e riacquista un po' di interesse solo nella finale. I bambini di sicuro si divertiranno un sacco. Buona visione. 
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lunedì 28 ottobre 2019

Gemini man - la nostra recensione del nuovo film di Ang Lee con due Will Smith, di cui uno digitale





Nel cinema d'azione duro e puro le trame si scrivono in 13 parole. 14 se è una trama action-fantascientifica, e spesso la parola in più è "fantascientifico" questa è quindi la trama: Will Smith, cecchino tradito, si confronta con il suo, fantascientifico, clone più giovane. 
Non serve altro, giusto sottolineare la presenza di un Clive Owen invecchiatissimo, davvero troppo invecchiatissimo, e la figura femminile Mary Elizabeth Winstead, per me una delle attrici più belle della terra (10 Cloverfield lane, Scott Pilgrim, vestita da cheerleader in A prova di morte di Tarantino), che qui è così sottotraccia da sembrare la vostra collega ancora non sposata che ama molto i gatti. Ah, c'è anche Benedict Wong, che non è che faccia molte cose ma quello che fa è solo epico, tipo che lo chiamano "il barone", guida un idrovolante e porta camicie hawaiane. Non serve altro, oltre a montagne di scene d'azione ben realizzate e dirette, in quanto questo è il nuovo film di Ang Lee.
Ang Lee ha fatto un nuovo film ed è una bomba, come tutti i suoi film, anche se è chiaramente un film leggero, da guardare con la mente in "libera uscita". Era un po' sparito dai radar, Vita di Pi era del 2012, Billy Lynn - Un giorno da eroe (molto bello e molto serio, recuperatelo in home video dopo che vi ho detto io che "esiste") del 2016 è stato poco pubblicizzato e alla fine l'hanno visto in sei, ma ora riparte un mega blockbuster, come ai tempi del suo Hulk, del 2003. In Hulk era Ang Lee stesso a interpretare Hulk con la motion capture e con un face editor che rendeva hulkeschi i connotati dell'attore Eric Bana, con esiti discreti ma che rendevano il personaggio Marvel su schermo per espressività e  naturalezza una specie di enorme (e subito da me amatissima, insieme ai "barboncini hulkerschi") big-babol verde. Oggi nel 2019 è Will Smith con la più recente tecnologia di motion capture a interpretare la versione più giovane di se stesso, con esiti non diversi da questo tizio della pubblicità della fresh'n'clean.



O del Vigorsol...
Alla fine sempre di gomma da masticare si parla, sarà un pallino di Ang Lee. 
Ci poteva andare peggio, potevamo avere Jaden Smith...
Se si è disposti a chiudere amorevolmente un occhio, e se capita pure due, su questo tipo di effetti speciali "di carne", che ultimamente stanno prendendo piede nonostante l'impressione è che non si siano fatti troppi passi avanti dal film orientale Final Fantasy del 2001, si può considerare come Gemini Man ricordi per certi versi un altro "grande classico poco noto" del 2001, The Replicant con Jean Claude Van Damme, per la regia di un grande autore orientale come Ringo Lam, nonché, per una particolare scelta di messa in scena di "sequenze specchiate" il capolavoro del 1997 di John Woo, Face Off. Vi dirò di più, Will Smith sembra qui tornato ai tempi di Io,robot, del 2004 (di fatto annullando una fase depressiva dell'attore nel suo rapporto con il pubblico che è un po' terminata solo l'altro ieri con Aladdin della Disney), al punto che se mi dicessero che Gemini man è un film perduto del 2004 ci crederei. Quindi, diranno i miei 19 lettori più affezionati: "Gemini man è il meglio del cinema orientale, anche se di vent'anni fa, ma vent'anni fa il cinema orientale era atomico". Allora del facciotto-bambolotto-cewingommoso dello young Will Smith, che già sogno utilizzato in modo pacchiano in una fantastica puntata reunion de Il principe di Bell Air, alla fine mi frega davvero pochissimo, insieme ai suoi movimenti presi un po' da Daredevil con Ben Affleck (pure lui del 2003 come l'Hulk di Lee, con in Italia una raccolta mensile di fumetti che si chiamava dal 1994 "Devil & Hulk"... ditemi se non c'è un progetto cosmico dietro a tutto questo...), perché questo film, lo dico subito prima di perdere il film del discorso per la sesta volta, è una bomba! È un film stra-divertente come quelli "orientali di una volta", con un sacco di ritmo, il divertimento con un po' di dramma e melodramma (tipica ricetta orientale) e delle scene memorabili nel senso che le ricorderete anche dopo essere usciti dal cinema dopo 6 ore (vi sfido a ricordarvi dopo lo stesso lasso di tempo il 90% dei film action odierni). Una trama lineare e comprensibile (Mission Impossible, mentre parlo ti sto guardando male, non fare l'indifferente), inseguimenti e combattimenti divertenti, un po' di depressione da fantascienza sociale e il piatto è cotto, croccante e gustoso. Forse non è il prodotto più sofisticato, introspettivo e ricercato di Ang Lee, perché chiaramente non lo è e non punta a quello. Ma se vi state "deprimendo al cinema" in questi giorni con i pur interessantissimi Joker e Ad Astra, la sala di Gemini Man è quella in cui entrare, con i pop corn e la coca grande. 
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domenica 27 ottobre 2019

Dylan Dog speciale 33, Il pianeta dei morti - Saluti da Undead - Testi di Bilotta e disegni di Bacilieri




- Riassunto delle puntate precedenti: Siamo nella Londra "futuribile" del Pianeta dei Morti, dove il mondo è mezzo impazzito e invaso da creature simili a zombie chiamate Ritornanti. I ritornanti, feroci ma ingenui, alla perenne ricerca di carne umana servita al sangue per sostenersi, sono lo specchio di una dis/umanità di margine che pare l'involuzione fisica e mentale dalle fasce sempre più povere e dimenticate della popolazione (che vanno dai molto poveri e arriva alla working class fino a chi abita nelle piccole province). L'umanità conseguente ai ritornarti, non mutata ma impazzita si esprime in tre "filoni": immemori, flagellanti e "astenuti". I quieti e schivi Immemori vivono in riserve protette da alte mura, in un perenne stato allucinatorio fornito gratuitamente che nega la realtà e offre l'illusione di stare bene in un finto mondo realizzato con set cinematografici che replicano quello vero. I feroci e distruttivi Flagellanti sono fanatici dall'indole terroristica che compiono continue scorribande e distruzioni. Armati e più o meno organizzati, credono che iniettarsi nel corpo il sangue dei ritornanti, somministrato nelle giuste dosi, non li farebbe impazzire ma anzi conferirebbe la vita eterna. Per ora sembrano pochi, ma stanno aumentando di numero. Gli astenuti si astengono dalla pazzia e vivono più o meno come prima, considerando i ritornanti alla stregua di una classe sociale poco abbiente. 
Il Dylan Dog di questo "futuro" è un uomo distrutto. Dopo che il mondo "gli ha dato ragione" e ha creato sul suo modo di lavorare con i ritornanti la "polizia dell'incubo", una specie di corpo di social worker che si occupa dello studio e possibile reinserimento sociale del ritornanti. Ma il nostro eroe è stato al contempo afflitto da molti lutti, primo fra tutti la scomparsa dell'amico Groucho, rivelatosi di fatto il "paziente zero dei ritornanti", che Dylan non ha avuto cuore di uccidere, dando il via all'epidemia. L'inquilino di Craven Road si è quindi ritirato a vivere in una casa vicino a un cimitero e poi, stanco di sparare ai non-morti, si è ritirato presso gli immemori. Si è scontrato con il vecchio nemico Xabaras, che di lì a poco avrebbe fondato la setta dei flagellanti, le ha prese e dopo una lunga degenza in ospedale, mentre qualcuno di a lui vicino ma non conosciuto (probabilmente suo figlio) ha continuato la guerra al suo posto, è tornato a Londra. 


- Sinossi:  Undead è un paesino di provincia non troppo distante da Londra, qui i ritornanti vivono una non-vita fatta di routine lente e monotone che ha poche differenze da quella precedente. Una vita "felice", non fosse che la carne non sta più al suo posto sulla faccia, non fosse che le case sono distrutte, non fosse per i pericoli insiti nel vicino bosco, dal quale delle strane luci sembrano rapire la popolazione senza lasciare traccia. Dylan con il nuovo commissario capita dalle parti di Undead in cerca dei flagellanti e rimane quasi vittima di un'orda di ritornanti, evitata per un soffio grazie all'intervento dei ritornanti di Undead, che lo traggono in salvo e lo curano. Per nulla violenti, si fanno aiutare da Dylan per scoprire l'origine delle strane luci del bosco. 


- Bacilieri e i suoi zombie dal volto umano. Sono passati 20 anni da quando Paolo Bacilieri esordiva in casa Bonelli, principalmente come disegnatore, sul Napoleone di Ambrosini, ma ha anche una carriera non-bonelliana più lunga e non meno stimolante, anche come autore completo, di cui voglio citarvi le opere più giocosamente erotiche, ristampate di recente da Coconino Press, Zeno Porno e Fun, ma anche cose folli e stralunate come Palla, pubblicate da Hollow Press. Bacilieri possiede un tratto di disegno riconoscibilissimo, che rilegge il classico realismo cinematografico "bonelliano" sotto l'occhio alla Linea Chiara di Herge'. Per certi versi mi ricorda Magnus. Le sue tavole hanno una composizione che se in superficie risultata apparentemente stilizzatata, con figure umane dai tratti quasi caricaturali, nasconde una ricchezza infinita di dettagli ed espressività. I disegni di Bacilieri sono "vividi", hanno una particolare eleganza nella scelta delle inquadrature e perfetti per dare volto alle emozioni anche di personaggi difficilmente "espressivi" come gli zombie. I suoi ritornanti hanno così una cifra emotiva spaventosamente umana, se non quasi burtoniana, rimandando dritto si fantasmi di BeetleJuice. Dovrebbero spaventarci e invece Bacilieri ce li rende teneri. Non per questo l'albo risulta carente di splatter e azione, che arrivano entrambe in dosi copiose, su sequenze di più pagine. Personalmente ammiro lo stile di Bacilieri ma riconosco che non essendo "classico" per molti lettori di Dylan Dog deve essere prima assaporato, compreso, risultando al colpo d'occhio meno "performante" di quanto, nei dettagli, effettivamente sia. Sono disegni da degustare, non da ingurgitare in pochi secondi. Per me è uno stile che a volte sa richiamare un certo tipo di miniature medioevali, a volte riesce ad essere pura street art, mi affascina. 


- Bilotta e il suo "non" walking dead: il pianeta dei morti fin dall'inizio è scritto e ideato da Alessandro Bilotta, una delle penne più interessanti del fumetto italiano moderno. Piango ancora la prematura chiusura di Mercurio Loi, incolpandomi di non aver avuto il tempo di parlarne sul blog. Bilotta è un diamante pazzo, uno che sa giocare con i generi letterari alti e bassi e fare jazz con loro, creando qualcosa di unico e al contempo "suo", riconoscibile. Se fosse nato in Giappone godrebbe di pari fama rispetto a Shinichiro Watanabe, perché l'unica opera che come struttura narrativa trasgressiva, anarchica e malinconica mi ricorda Cowboy Bebop è proprio Mercurio Loi. Ma torniamo al Pianeta dei morti. Con tutta la sana e geniale follia che lo contraddistingue, Bilotta negli ultimi numeri ha ribaltato tutta la storia e poi la ha rimessa in carreggiata. Non voglio farvi "spoiler retroattivo", ma se avete letto gli ultimi due numeri sapete cosa intendo. Questo Benvenuti ad Undead è una ripartenza a tutti gli effetti, al punto da citare direttamente e "aggiornare" il numero 1 di Dylan Dog, cogliendo l'occasione per presentarci tra le fila dei flagellatori qualcuno di davvero inaspettato. Bilotta come sempre non procede per niente dritto, si prende i suoi tempi, mette al centro della narrazione la vita di una piccola famiglia di non-morti che vive "felice" giorno dopo giorno mentre attende di "non esistere più". Il loro timore, quello delle "luci del bosco", alla fine è quanto di più umano e semplice si possa concepire, ma al contempo assume connotazioni nuove, inedite e inaspettate rispetto alla nostra concezione dei ritornanti. Ritornanti che compiono una evoluzione interessante e sotto traccia già spianata dagli ultimi lavori di Romero. Non è una questione di razze, non è una questione di territori. Il mondo del pianeta dei morti affronta il problema di trovare un linguaggio comune perché le diverse "fazioni" possano creare insieme un futuro condiviso. Solo che gli immemori non vogliono parlare con nessuno e negano a se stessi la conoscenza, i flagellanti vogliono dominare secondo una supposta religione che si "giustifica" nell'eliminazione del prossimo, chi rimane "tranquillo" (che siamo "noi") pensa che il mondo non sia cambiato più di tanto dopo l'arrivo dei non morti, spera che lo Stato intervenga facendo quello che già più o meno faceva prima per aiutare le classi più deboli, accetta che qualche strage ad opera di zombie si compia allo stesso modo in cui si accettano gli incidenti stradali. I ritornanti sono invece il futuro. Dopo essere stati ferocemente "bambini", in questo nuovo episodio vediamo i ritornanti forse crescere (come ci aveva fatto intuire l'episodio di Groucho di due numeri fa), diventare adulti. O per lo meno veniamo a sapere che una convivenza è possibile. Solo che il loro linguaggio non è ancora comprensibile a tutti gli umani, come la loro fame non è spesso comprimibile, come il potere che li muove appare "misterioso". Sono un nuovo popolo da scoprire, di cui tutti gli altri popoli presto o tardi, volenti o nolenti, faranno parte. Forse. Bilotta fa anche questa volta della buona fantascienza sociale. Ironizza/fa critica sul fanatismo allo stesso modo in cui l'ultimo Tarantino ironizza sulla setta di Manson. Ironizza/fa critica sull'immobilismo placido ma confortante dei paesi di provincia, accoglie la non banale metafora della fine dell'adolescenza con l'inizio del disfacimento del corpo. 
Finale: Bilotta dietro una trama solida/solita di stampo "investigativo" che si legge in un fiato ci coccola delle mille suggestioni e umori di cui è sempre più pregno il suo mondo narrativo. Bacilieri sa raccogliere la sfida di rappresentare una dis/umanità gentile quanto sofferente e riempie le pagine di azione e sentimento, tra boschi quasi fatati, le immancabile scene di sparatorie e splatter e il calore di piccole case diroccate piene di famiglie "alternative". Un numero davvero buono. 
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mercoledì 23 ottobre 2019

Ad astra : la nostra recensione di un film un po' deprimente



- Sinossi fatta male: Futuro imprecisato. Ci sarà vita su Marte? Su Marte magari no, ma su Nettuno per me di sicuro!! Con questa convinzione e una incontenibile voglia di esplorare lo spazio che ci poteva essere solo trent'anni fa, l'astronauta di Tommy Lee Jones parte con astronave ed equipaggio spaziale in cerca di omini verdi. Trent'anni dopo, con l'incontenibile voglia di esplorare lo spazio del tutto scemata, gli spazianoidi terrestri si sono ridotti alle solite cacatine come aggiustare continuamente la Stazione Spaziale Internazionale, sistemare quel satellite del cellulare di Rovazzi e roba così. Con Tommy Lee Jones che si fa sentire sì e no per l'October Fest o forse è morto, con suo figlio interpretato da Brad Pitt, cresciuto anche lui cosmonauta, che magari vorrebbe chiedere alla NASA di andare a trovarlo per portargli le lasagna di nonna ma niente, la benza spaziale costa e soprattutto l'emotività di un figlio che vuole vedere un padre è oltre il rischio previsto dal piano assicurativo aziendale. In pratica mente Tommy Lee Jones potrebbe fare i suoi incontri ravvicinati e vivere come in Star Trek, Brad Pitt è sottoposto dalla stupidissima filiera burocratica terreste ad una serie infinita di "certificazioni di qualità dell'astro-ganzo", che implicando controlli su battiti al minuto, test psicologici, momenti registrati di auto-analisi del dramma interiore di una vita senza aver conosciuto il padre, videomessaggi archiviati per  mantenere la relazioni con la ex moglie. Non passi i test e niente benza spaziale, torna a riparare il pannello solare inter-atmosferico di Rovazzi (che alla fine è la versione hi-tech di quelli che lavano dall'esterno i palazzi di New York). Poi succede qualcosa, da Nettuno arrivano fino alla terra delle scariche energetiche misteriose che mandano in tilt tutte le astro-fesserie nostrane. Le sparerà un Tommy Lee Jones ammattito? Saranno gli omini verdi? Nel dubbio la Nasa manda il figlio su Marte, il pianeta più vicino dal quale si può inoltrare un messaggio per Nettuno, per comunicare al padre "ti voglio bene, non fare il pazzo". Se le cose andranno male è già pronta una bomba in direzione Tommy Lee Jones. Come andrà la Réunion padre-figlio e possibili alieni?


-Ridatemi il mio lavoro nello spazio!!!: c'è molta negatività sul futuro in questo Ad Astra scritto e diretto da James Grey, talento che Brad Pitt come produttore aveva già scovato e impiegato per l'interessante, e ugualmente deprimete, Lost city of Zeta, da noi arrivato con il vaghissimo e anonimo titolo Civiltà perduta. Del resto non ti aspetti una gara di barzellette quando adatti per l'ennesima e sempre "diversa" volta il celeberrimo Cuore di tenebra di Conrad, già "scheletro narrativo" del leggendario Apocalypse Now di Coppola. Grey dà corpo a un'ambientazione affascinante, una specie di fantascienza di frontiera alla Captain Harlock con i piedi ancora saldamente piantati nella fantascienza reale. Ci sono i Rover visti anche nelle missioni Apollo, ma si possono utilizzare per inseguimenti sulla crosta lunare dal sapore di assalti alla diligenza, ad opera di fantomatici pirati spaziali. Gli spazioporti sono luoghi angusti pieni di corridoi, ma hanno un'anima pop come le architetture marziane, i cartelli colorati e la varia umanità presente di Total Recall - Atto di Forza. Si possono trovare in giro per il cosmo astronavi con a bordo scimmie spaziali per la sperimentazione scientifica, ma chi può dire se sono tranquille o hanno subito una evoluzione/mutazione come gli spazianoidi in Gundam o come i primati sottoposti alla cura per l'alzheimer in Il pianeta delle scimmie? Grey gioca con questi elementi, che devo dire colpiscono molto la mia immaginazione di ragazzino nato nei '70, straconvinto da piccolo che nel 1998, massimo nel 2000 sarei andato a lavorare nello spazio. Dico di più, Ad Astra è tutto il "minimo" che mi aspettavo dal futuro, in un 2019 distopico alternativo al nostro, quando guardavo in TV Spazio 1999, Star Trek, 2001 - Odissea nello spazio. Poi il futuro è andato da un'altra parte, sulla super-iper-comunicazione, la condivisione dei dati, una versione incredibilmente accettata dell'Orwelliano grande fratello, ritenuto "socialmente" impossibile solo pochi mesi nel dibattito scaturito dal Truman Show di Andrew Niccol. Niccol che già riempiva la fantascienza moderna delle ossessioni eugenetiche, in parte riprese anche in questo Ad Astra (con le manie dei controlli diagnostici sulla affidabilità di Brad Pitt), bene illustrate dal suo Gattaca. Abbiamo quindi un futuro ideale, "positivo e immenso", quello che ci vede esploratori spaziali, curiosi e positivi ultra "esterofili diremmo", che si sconta con un futuro concreto, "piccolo e angusto" con l'uomo ultra-piegato su se stesso, senza fuga dal controllo sulla sua vita, dall'inquinamento, dalla sovrappopolazione "percepita" a monte di risorse sempre più esigue. Gray affronta questo scontro di modi di pensare in modo intelligente quanto cinico, raccontando quella che agli occhi di alcuni di noi appare come l'"occasione persa dello spazio". Voglio consigliarvi un piccolo libro a fumetti satirico, edito in Italia da Mondadori Ink, Moon Cop, scritto e disegnato dal simpatico Tom Gauld. Si racconta di come stiamo rinunciando al sogno spaziale, ponendo un enorme interrogativo sul fatto che qualcun altro in futuro possa intraprenderlo, per il fatto che "non conviene perché nello spazio non c'è ancora nulla di utile", "è troppo costoso", "ci siamo già stati sulla Luna nei '60, è pericoloso andarci e lì non c'è più nulla da fare", anche se abbiamo per andare sulla Luna ora tecnologie 50 anni più evolute. 


- Conclusione: Ad Astra ha molte scene davvero spettacolari, un impianto narrativo solido e a tratti di stampo quasi psicoanalitico, una colonna sonora bella pomposa, ottimi interpreti e un paio di trovate narrative interessanti. Qualche volta appare un po' lungo, anche se la lentezza è una delle precise chiavi espressive che sceglie. Dopo un lungo viaggio un questo cuore di tenebra spaziale ci si aspetta Marlon Brando e Tommy Lee Jones non è Marlon Brando, perché "Marlon Brando è sempre lui, solo lui", come canta Luciano Ligabue. Lungi dall'essere un disastro, l'ultima parte della pellicola per questo è al contempo la meno riuscita quanto il manifesto morale della fantascienza di Gray. Può non piacere ma non lascia indifferenti. A fine visione consiglio di vedere qualcosa di particolarmente leggero e positivo prima di chiudere la serata senza volersi suicidare. Ecco, magari non il film del Joker.
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martedì 22 ottobre 2019

Se mi vuoi bene - la nostra recensione



C'è uno strano locale a Torino, si chiama "Chiacchiere". È un posto che non vende niente e si alimenta di offerte libere, sembra a dire il vero più la casa di qualcuno che un negozio, la gente che lo frequenta entra, si siede e "parla". Il gestore di questa strana attività è un ometto brizzolato (Sergio Rubini), molto bravo a sfornare delle lingue di gatto deliziose, molto forte a scacchi ma soprattutto molto bravo nel prendersi cura delle persone, anche se sono degli avventori occasionali. 
Il locale ha da poco attirato l'attenzione di un avvocato di successo ma depresso (Claudio Bisio), nel giorno più strano della sua vita. Dopo l'ennesima crisi e un giro di telefonate alle persone più care andato miseramente a vuoto,  ha deciso di suicidarsi annegando nella vasca da bagno, ma il tappo era rotto e ora, scampato a se stesso, si sente stranamente sollevato, vuole condividere l'esperienza con qualcuno e "Chiacchiere" è il posto giusto. Qui incontra il gestore e uno dei clienti fissi del posto, un aspirante attore perennemente escluso ai provini (Insinna) e molto bravo al calciobalilla. L'avvocato viene convinto a riflettere, dai suoi nuovi amici, sul fatto che forse nessuno ha risposto alle sue richieste di aiuto perché lui non ha fatto abbastanza per le persone che gli sono care. Convinto di questa interpretazione, l'avvocato decide di "risolvere i problemi" dei suoi familiari e amici più stretti. Magari qualcosa come il tappo della vasca che gli ha salvato la vita, una svolta "virtuosa" che li avrebbe resi felici. Così i tre iniziano a collaborare al grande progetto dell'avvocato, cercando di fare il loro meglio o per lo meno provandoci.
Se mi vuoi bene è una commedia romantica che affascina e incuriosisce grazie al misterioso luogo/soggiorno/negozio chiamato "Chiacchiere", un autentico laboratorio relazionale informale dove chi entra si sente magicamente a casa sua e può decidere di condividere con altri i suoi problemi. Ugualmente interessante e misterioso è il personaggio di Rubini, un uomo romantico quanto quanto tormentato, ironico e titanico chiamato "Maestro" dal personaggio buffo e innocente di Claudio Insinna. Ogni scena con loro è riuscita, amabilmente ispirata quanto alcune pagine dei romanzi di Stefano Benni. Fuori da questa zona aurea il film di Brizzi batte piste più convenzionali, affidandosi a un Claudio Bisio abbastanza canonico "uomo per tutte le stagioni", simpatico quanto inaffondabile per via della glassa narrativa che lo sostiene. Fa fatica a un certo punto riconoscerlo nel Bisio delle prime scene, quello che sceglie il suicidio in ragione di una non troppo esplicata depressione. Il regista sembra troppo preso nell'atto di "rassicurare", in un giusto elogio alla "relazionalità" come chiave giusta in cui costruire un mondo, che dimentica di approfondire la "gravitas", il dolore alla base del supposto tormento del personaggio di Bisio. Da spettatore fino a quasi la metà del film avevo l'impressione di trovarmi davanti a una variante di Una pura formalità, film capolavoro di Tornatore del 1994 con Depardieu, Polanski e proprio Sergio Rubini. Ho sognato per più di una volta che il personaggio qui interpretato dal sempre bravissimo Rubini fosse lo stesso personaggio da lui interpretato in Una pura formalità, che questo film ne fosse in una qualche misura un sequel spirituale. Invece a parte questo spirito delle "Chiacchiere", Se mi vuoi bene è una commedia sentimentale di Brizzi di stampo piuttosto classico, dove tutto alla fine andrà per il meglio perché alla base non c'è forse nemmeno troppo da aggiustare, dove con due sorrisi si risolvono le crisi matrimoniali e con due parole dette da uno sconosciuto si riattiva l'autostima perduta. Sono film che servono, non voglio dire il contrario. Film che appena iniziano sai che finiranno bene al netto di un paio di lacrimucce sempre doverose e oneste. Film in cui si ride, e anche in questo ultimo si ride, più volte. È un prodotto rassicurante e ben confezionato, che ogni tanto trova un lirismo sublime. Adatto per una serata disimpegnata, con la piccola nota amara che l'obiettivo di realizzare qualcosa di più particolare del solito era davvero vicino. 
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sabato 19 ottobre 2019

Scary Stories to tell in the dark - La nostra recensione del film e del libro edito da De Agostini




- Sinossi del Film: Siamo ad Halloween, nel più classico paesino tra il verde e i campi di mais della più classica provincia americana dei ruggenti anni '60. La Tv parla dell'elezione di Nixon e il Vietnam alle porte, le radio trasmettono The season of the Witch di Donovan (dal mitico album Sunshine Superman del 1966, di recente già sentita in Paranorman della Laika). Si avverte l'arrivo di una tempesta imminente fin dai primi minuti del film, c'è una tensione opprimente nell'aria, ma l'atmosfera generale  è subito stemperata, cordiale e vintage quando arrivano i nostri piccoli eroi e subito ci sentiamo in un episodio di Stranger Things o dell'ultimo It. Conosciamo i nostri "perdenti" e subito li troviamo carichissimi, pronti, complici i costumi (amabilmente sfigati) e il calare delle tenebre, a farla vedere alla solita compagine locale di bulli. Lo scherzo del giorno è una certosina "cacca flambé", pazientemente collezionata dal perdente più intraprendente, che è stato a raccogliere la sua, per molti giorni immaginiamo, attraverso un retino per i pesci dell'acquario usato nel WC. Ma l'impresa lodevole risulta meno epica delle aspettative, la parte della "fuga" è poco organizzata e i nostri sono sgamati e costretti a ripiegare per le vie della cittadina mentre i cattivi coperto di cacca fumante roteano mazze da baseball. La fuga fa tappa il drive in, con in cartellone un classico horror senza tempo e un mezzo colpo di fulmine per la ragazza del gruppo.Poi la combriccola ancora in fuga arriva alla casa stregata locale, nella speranza che sia una costruzione "bulli-fuga" (cioè non contenere bulli... scusate sono le tre di notte). E come ogni casa stregata, naturalmente anche questa ha la sua bella storia dell'orrore che i locali narravano, davanti ai più tetri falò con marshmallow del campeggio e tra i più raccapriccianti pigiama party di seconda media. Una ragazzina viveva segregata nelle cantine di quel particolare luogo isolato e immenso tra il verde, di proprietà di una facoltosa famiglia locale. Quelli, che in genere nei racconti dell'orrore finiscono male, si erano avvicinati a quella cantina, l'avevano sentita parlare e sembra che lei li avesse intrattenuti con delle storie incredibili, in grado di rivelare le loro vere paure. Di li a poco queste persone erano misteriosamente sparite. Nessuno che aveva ascoltato i racconti della ragazza della cantina era sopravvissuto. Per via di questi strani eventi, forse frutto della magia nera, la ragazza, scoperta, si era infine suicidata ma il suo spirito, pieno di rancore, era certo che ancora aleggiasse nei pressi della magione. In pratica era una specie di storia dell'orrore per ragazzini sul fatto che qualcuno che racconti delle storie dell'orrore per ragazzini riuscisse a spaventarli a morte. Non forse la trovata concettuale più figa del mondo ma, ehi, se la storia  fosse stata vera? Era vero o solo una storia di paura per bambini poco fantasiosa? I nostri protagonisti presto lo avrebbero scoperto. Come presto avrebbero scoperto che quella magione non era bulli-fuga. 


- Da un "libro-gioco" per bambini al film: per comprendere e apprezzare Scary Stories è necessario almeno una volta prendere in mano i racconti di Alvin Schwartz illustrati da Stephen Grammell (disegnatore di cui Del Toro è grande estimatore, avendo diversi suoi lavori nella sua collezione sterminata di menorabilia). Non si tratta di piccoli romanzi come i Piccoli Brividi di R.L.Stine quanto di brevissimi racconti di un paio di pagine che l'autore invita a raccontare a voce davanti a un gruppo di amici. I racconti danno indicazioni precise sul modo di raccontare la storia, dal tono della voce da usare, a quando prendere una pausa nella narrazione per creare suspance, ogni tanto facendo scegliere se seguire un finale o l'altro. Ci sono storie per far spaventare all'improvviso, storie di fantasmi, storie grottesche, perfino storie che fanno ridere, tutte divise ordinatamente per genere dall'autore per far scegliere al lettore e ai suoi ascoltatori quello che preferiscono. A dare ancora più corpo ai "brividi" che la recitazione del narratore dovrebbe fornire, intervengono i mostri "caricaturali ma terribili" disegnati da Grammell, immortalati con un tratto sfumato in bianco e nero, vicino al "nostro" Corrado Roi di Dylan Dog. De Agostini da questo settembre ha ristampato in unico volume le tre raccolte di Schwartz, comprensive di tutti i disegni originali di Grammell. Sono storie da noi magari poco conosciute ma amatissime all'estero, motivo per cui è arrivato questo film, soprattutto dai bambini. Un gioco che ha per base "storie spaventose da recitare al buio" per spaventarsi a vicenda nelle sere del campeggio o ai pigiama party. Le avessi avute da bambino le avrei amate quanto lo zio Tibia, ma anche da adulto ne rimango felicemente colpito per il loro modo leggero quanto "ludico" di presentarsi, non prive di chiavi di lettura a volte sorprendenti. Ve ne consiglio caldamente la lettura. 


- Dei "Piccoli Brividi" in salsa Del Toro: i tre libri originali da cui è tratto Scary Stories, scritti da Alvin Schwartz, sono magnifiche antologie di racconti del brivido, piene di bellissime illustrazioni a cura del bravissimo Stephen Grammell che dà forma ai mostri che mano a mano divengono protagonisti delle singole storie. Gia dal trailer è evidente che i mostri convertiti su schermo sono tutti magnifici, squisitamente grotteschi e pieni di carattere. C'è la "donna enorme", che sembra il malinconico Pinocchio "di carne" disegnato da Ausonia. C'è Harold lo spaventapasseri, interpretato da Mark Steger (il demone di Paranormal Activity, il mostro verde di Stranger Things) che dietro un volto immobile alla Leatherface sembra essere animato di una luce dagli occhi, che poi si rivela essere solo un grottesco movimento di piccoli insetti sottopelle, come il Babau di Nightmare before Christmas. C'è il raccapricciante ma dall'aria sperduta zombie senza alluce, interpretato dal mimo Javier Botet (lo Slenderman, l'uomo delle chiavi di Insidoius, l'hobo di IT). C'è il mio preferito, il Jangly man ("uomo tintinnante", letteralmente) interpretato dal contorsionista Troy James (Baba Jaga nell'ultimo Hellboy, la madre in Mama, una delle presenza di Crimson Peek e indimenticabile demone con martello in Rec) una specie di zombie scomponibile e ricomponibile, che a volte inverte mani, gambe e torso, con ossa e articolazioni che dopo "l'assemblaggio" si contorcono e continuamente schioccano in modo che fa gelare il sangue. Se amate come me le creature fatte con cuore e artigiano talento di make-up, effetti visivi e  attori-mimi questo film è già imperdibile, come è imperdibile l'ultimo IT. La storia di fondo è intrigante, meno scontata del previsto è ontologicamente corretta nel rappresentare il "senso" delle antologia di Schwartz. Come in quei "libri-gioco" il vero "mostro" è creato dalla voce del narratore, anche in Scary Stories c'è un narratore terribile, impersonato dalla ragazza della cantina. C'è da dire che alcune delle piccole storie legate bella sceneggiatura sono più articolate di altre, ma per mia diretta lettura dei testi ci posso assicurare che anche le storie che hanno uno sviluppo più breve sulla pellicola riproducono esattamente tutto quello che accade nel libro. Non c'è una contrazione o citazione come avviene nel film di Piccoli Brividi, quanto si vede in quei casi è esattamente quanto si legge. Compresa la voce sussurrata del lettore per dare la giusta atmosfera. 


- I nuovi mostri cinematografici di Del Toro. Scary Stories un film fatto espressamente per una fascia di pubblico di giovanissimi, che punta a spaventare quanto a divertire, facendo uso di creature amabilmente create artigianalmente sulla scorta dei mostri classici della tradizione horror. Non manca però anche la malinconia, una delle cifre stilistiche che da sempre segue tutte le creature visive di Del Toro. Dopo l'era di Tim Burton, Guillermo Del Toro è indiscutibilmente diventato uno dei più importanti creatori di nostalgici e crudeli mostri moderni cinematografici. Nei suoi Mimic, Hellboy, Il Labirinto del Fauno, Crimson Peek, La forma dell'acqua ha definito un preciso stile visivo e narrativo, che si riscontra anche nel lavori da lui solo produttori come Mama, Non avere paura del buio e anche questo ultimo Scary Stories to tell in the dark. Pur ricordando per molti aspetti It, Stranger Things e Piccoli Brividi, il film di Del Toro che sorprendentemente più si avvicina a Scary Stories credo sia Il labirinto nel Fauno. C'è un'America che sta rubando i figli di una piccola cittadina per portarli nel Vietnam, mentre una specie di fantasma in qualche modo sta facendo la stessa cosa. Come ne Il labirinto del fauno, il mondo del "fantastico" non è meno crudele del mondo reale e ad esso strettamente interconnesso, anche se spesso i legami sono da cercarsi nei dettagli.  È interessante come la mitologia fantastica sia qui radicata nella cultura americana, quando il film di fatto è prodotto dallo spagnolo Del Toro e diretto dal bravissimo e da me ugualmente adorato regista norvegese di Trollhunter, Andre Ovredal. Sono entrambi autori molto amanti dei mostri, folletti et similia, come ben "trapiantati" in America. Ovredal ha peraltro di recente diretto il bellissimo e americanissimo (da noi recensito) Autopsy e ha già in canna La lunga marcia, adattamento del "mio" primo libro di King, una delle mie letture più amate di sempre. Ci stanno bene, questo spagnolo e questo norvegese, nel fantasy a Stelle e Strisce, lo centrano a livello narrativo quanto visivo. Per questo in Scary Stories ci si affeziona velocemente a tutti i personaggi, soffrendo per loro quando la sorte avversa, che nelle storie di paura non può mai mancare, cala su di loro come una mannaia quanto la "Storia". La stessa lezione del Fauno. Il bullo Tommy (Austin Abrams) si iscrive volontario per andare in Vietnam ed è chiaro che lo faccia per fuggire dal campo di pannocchie infinito (simile a quello di Kevin Costner de L'uomo dei sogni ma più tetro, più notturno) che lo relegherebbe a stare per sempre lì nel paesino, impalato come uno spaventapasseri, a raccogliere uova da consegnare ai vicini per non fare arrabbiare mamma/padrona. La storia di Tommy ha una parabola ben congegnata e speculare alla vicenda del ragazzo ispanico Ramon (Miguel Garzia), che vuole invece scappare dalla leva alla quale è costretto ad aderire, perché non vuole morire. Un altro scorcio dell'America provinciale ci è fornito dal personaggio bello, tragico ma combattivo, di Stella (Zoe Colletti), relegata nel piccolo paesino, come la ragazza della cantina, per via dei problemi di salute del padre (Dean Norris), stanco e depresso, incapace di reagire all'assenza della moglie. Una situazione e relazione che la vede adultizzata, accudente, molto lontana dalla felicità della sua età. È una America orfana di figure paterne, quasi un presagio dell'eccidio in termini di vite umane dell'imminente Vietnam. Sono le donne a tenere insieme le famiglie, sacrificando i loro sogni e ambizioni, con una realtà locale che pare regredita al Far West. Sono irresistibili nel gruppo dei ragazzini protagonisti Auggie (Gabriel Rush) e Chuck (Austin Zajur). Sono una coppia di nerd, ai tempi in cui non era così figo, che ad Halloween finiscono con dei costumi sfigatissimi da non-supereroi, un uomo-ragno che è effettivamente un vestito da ragno con tanti piedini e antenne, e un pagliaccio che non è il Joker ma uno Pierrot da opera teatrale tradizionale XIX sec. Auggie è il precisino e pulitino del gruppo e gli capiterà per contrappasso il mostro più schifoso e putrido possibile. A Chuck, bassino, riccioluto e in piena esplosione ormonale, capiterà un incontro ravvicinato con una terribile donnona orribile che gli si parerà come "unica alternativa della vita" per avere un rapporto ravvicinato. Avrei voluto stare più tempo con Auggie e Chuck, ma mi hanno divertito un sacco, danno le giuste occasioni alla pellicola di alleggerirsi, stemperare. Molto interessante la scelta degli sceneggiatori, già autori di Lego Movie, di ibridare la struttura narrativa tra gli slasher anni '80 americani e i Japan Horror stile The Ring. I J-horror hanno storie che al loro centro mettono l'importanza della Storia, del "ricordare la storia di una persona dimenticata". Il mostro è spesso una vittima che agisce per non essere dimenticata ed è "conoscere il mostro, più che sconfiggerlo", il viaggio narrativo che intraprendono i personaggi. Non è il classico viaggio iniziatico dell'eroe "puro" contro il male per uscirne vincitore/adulto, il sottotesto-tipo degli horror occidentali. In Scary Stories c'è quindi una "zona d'ombra" della Storia Americana che fa eco, in un riuscito gioco di specchi, a un'ulteriore piccola storia umana, che riguarda il mostro. Ma non voglio rivelarvi troppo. Devo però dire che ogni tanto la narrazione diviene labirintica più del necessario e che forse servirebbe un seguito per far luce su alcuni dettagli che non sono riusciti a prendere il giusto posto nella vicenda.


- Conclusioni: Un film con magnifici mostri in una cornice molto curata, anche se a volte contorta, derivativa del J-horror. Poteva essere tranquillamente e senza casini uno spettacolo non lontano dalle opere di Michael Dougherty come Trick'n'Treat o Krampus o per lo meno nuotare placido in zona Piccoli Brividi, ma Scary Stories si complica un po' la vita e ci chiede di stare attenti, leggere tra i dettagli. Senza aver letto e capito i racconti da cui è tratto, può essere fuorviante e generare con il trailer aspettative errate, far immaginare sviluppi di trama che non ci possono essere. Certo qualche volta i tizi sceneggiatori di Lego Movie potevano incastrare meglio le cose, ma c'è in un certo momento illuminante una  in cui si riesce a  dare al tutto un giusto senso...

SPOILER  
la "scena del letto" sul finale, che è girata esattamente come la scena del letto dello zombie senza alluce, quando si può collegare tutti i mostri che incontrano i ragazzini ai veri parenti/aguzzini della ragazzina della cantina, in un parallelo stile Wizard of Oz (dove gli attori che impersonano il leone, l'uomo di latta e gli altri personaggi fatati compaiono sul finale senza trucco come i veri parenti e amici di Doroty) che mi ha portato all'orgasmo intellettivo. Da questo e dal "finale dello spaventapasseri" pure si potrebbe argomentare come chi "finisce dall'altra parte del libro" possa uscirne solo come mostro, attraverso una successiva narrazione aggiunta a penna sul libro. Ma questo potrebbe essere sviluppato meglio in un seguito 
FINE SPOILER 

Scary Stories to tell in the dark è un film che ho apprezzato da subito sul piano visivo, ma che sono riuscito ad apprezzare anche per i suoi altri aspetti  solo dopo aver compreso la vera natura dei libri di riferimento. Mi aspettavo erroneamente che ogni mosto avesse una sua storia articolata come un piccolo romanzo e questo ha influenzato in negativo il mio giudizio iniziale. Vi consiglio di leggere il film come una storia unica e magari di tornarlo a vedere più volte per apprezzare i dettagli. Potreste seriamente innamorarvi di questa pellicola se considerate l'idea di fruirla insieme alla lettura. Rigorosamente da recitare ad alta voce o sussurrata, seguendo le indicazioni dell'autore. 
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giovedì 17 ottobre 2019

Malefica: signora del male - la nostra recensione




- Sinossi: Gli anni passano e la strana relazione madre e figlia tra la giovane principessa Aurora (Elle Fanning, che dopo essere stata femme fatale in Neon Demon di Refn è tornata qui una paffuta e tenera ragazzina) e la protettrice della Brughiera Malefica (una Angelina Jolie che proprio con il primo Maleficent tornava finalmente sexy e "aliena" come in Beowolf, e in questo secondo capitolo risulta anche molto autoironica) sta sempre più mutando gli animi di entrambe. Aurora si dedica alla gestione degli affari della Brughiera dirimendo i problemi burocratici e legali tra gnomi e fate. Malefica si sforza teneramente più che può nell'imitare il modo di esprimersi e ragionare delle persone umane, anche se come movenze e appeal appare più simile a un drago sputafuoco. Ci sono in vista grandi cambiamenti da quando il principino del regno confinante, un ragazzotto di nome Filippo (Harris Dickinson, "ragazzotto standard", ma senza le sopracciglia rifatte stile calciatore del precedente principe azzurro),  ha iniziato a gironzolare intorno ad Aurora e le nostre due eroine, con al seguito il fedele e maldestro uomo/corvo Fosco (Sam Riley, più "ciccio" che tenebroso di un tempo) si preparano ad andare a un incontro ufficiale con i genitori consorti. Se re John (Robert Lindsay) è entusiasta, positivo e felice di formare una alleanza con il popolo di fate e folletti, questo non vale per la regina Ingrid (Michelle Pfeiffer, purtroppo sepolta in abiti e personaggio troppo austeri per confrontarsi sul piano del fascino femminile con la Jolie, ed è un peccato). Ingrid ama le balestre, pasticcia con fiori mortali, ha un intero sotterraneo segreto pieno di ampolle, creaturine imprigionate e servitori dalla dubbia identità umana, ha delle probabili ruggini nei confronti della Brughiera ed è in possesso di un certo artefatto magico che potrebbe da solo far scatenare una guerra. Dopo un primo "incontro con i genitori" in cui una Malefica forse diventata "troppo umana" viene ignominiosamente impallinata e affondata nel corso d'acqua a confine dei due regni, arriva un soccorso inaspettato da parte di creature alate e con le corna come lei. Forse Malefica ha un suo popolo e la guerra che incombe non potrà che ripercuotersi su una scala più vasta del previsto. Come si schiereranno Aurora e il principe in merito al nuovo conflitto? Ci sarà davvero un nuovo conflitto?


- Una bella ancora addormentata: il primo film dedicato a Malefica prendeva la storia originale de La bella addormentata e la ribaltava in un modo del tutto inaspettato, seguendo strade diverse e creando un intreccio narrativo sui temi dell'ecologia, sull'accettazione delle diversità e sui miracoli della genitorialità (laddove, altra rivoluzione, il vero amore è più quello di una madre, rispetto a quello elargito dal primo principe di passaggio). Così una delle streghe Disney più temute, pur trovando nei contorni "taglienti" di Angelina Jolie la perfetta incarnazione, si scopriva avesse un cuore oltre alle corna, le ali e quella capacità di trasformarsi in un enorme drago sputafuoco. Si scopriva inoltre che era la custode della Brughiera, una specie di riserva naturale sempre più invasa e calpestata dall'uomo che ne voleva depredare le ricchezze come in Avatar. Si scopriva che Malefica, di fatto una creatura fatata dal temperamento feroce ma non cattivo, diabolicamente "umana" come Tim Curry in Legend, fosse vittima e non carnefice in quella enorme "fake news" che era diventata la favola della Bella addormentata. Anche l'aguzzino della vicenda, interpretato da un  bravo Sharlto Copley, aveva uno sviluppo non banale, un afflato quasi tragico e una evoluzione meno scontata del solito. Visivamente lo spettacolo era sontuoso e pervaso da un brulicante mondo di fate e folletti, tra il simpatico e l'inquietante come in Labyrinth di Jim Henson e George Lucas, che invadeva continuamente e gioiosamente la scena. Vi voglio consigliare di rivedere il primo film in lingua originale, perché l'interpretazione della Jolie è qualcosa di davvero unico. Una parole cortissime (tipiche della lingua inglese) come se fossero dei versi di uccello, sembra che ringhi come tigre quando cerca di sorridere, quando articola frasi più lunghe sembra una valchiria crucca. È un vero spettacolo e si ripete anche in questo secondo capitolo. Capitolo che è arrivato dopo l'enorme successo del primo film e cerca un po' di ampliare il mondo fantasy dove si svolgono gli eventi, offrendo anche una storia che parla della possibile razza a cui appartiene Malefica. Questo apre un processo di "riconoscimento" del ruolo del personaggio all'interno del gruppo e della sua nuova "casa", con echi narrativi che sembrano rimandare direttamente ad Avatar. La Jolie appare in questo nuovo ambiente indifesa, fragile, permettendo al suo personaggio di compiere una nuova e felice evoluzione. I personaggi di Chiwethel Ejiofor e di Ed Skrein contribuiscono entrambi a questo processo e hanno un peso importante nella economia del racconto. Parallelamente la Pfeiffer dà corpo a un personaggio da cattiva autentica, da "ammazza-streghe". Mossa da rancori ancestrali che ne obnubilano la mente e rendono violenta ogni sua interazione, perennemente agghindata in corazze da lady di ferro stile elisabettiano, con gli occhi traboccanti di lacrime a monte di un modo di fare da tiranno senza cuore, è una villain (ruolo piuttosto inedito per lei e pertanto sorprendente nella resa) che è piacere odiare, insieme al suo terribile braccio destro interpretato da Jenn Murray. Jenn veste i panni di una letale, sgradevolissima e perversa ancella che ama elargire sofferenza estrema alle creature fatate. Occhi di ghiaccio, vestiti in pelle e tacchi da dominatrice, un ghigno di vero godimento quando imbraccia armi di distruzione di massa, Jenn ci mette l'anima per risultare una perfetta fanatica come lo era stata anche in Animali Fantastici, dove era una delle aguzzine della chiesa di Nuova Salam, al punto che quello che sembra all'apparenza un personaggio muto e senza nome riesce più volte a rubare la scena al resto del cast. Il corvo-uomo di Riley abbandona l'aria tetra per diventare più buffo, ma il personaggio funziona ancora, diverte e continua a dimostrare dei tratti eroici. Purtroppo rimangono un po' in ombra il nuovo principe azzurro e Aurora. I due "qualcosa pur fanno" in quanto danno la giusta direzione agli eventi, spesso sono cruciali e non sono nemmeno banali nella scrittura. Solo che il film preferisce battere strade diverse e ci fa stare poco con loro.


Il regista Joachim Ronning, già per Disney al timone del quinto Pirati dei Caraibi, si (ri)conferma con un buon talento nella gestione delle scene d'azione con alto tasso di effetti speciali, come si (ri)conferma un narratore efficace anche se non incredibile. Nei momenti in cui nessuno vola o le piante non si animano o qualcuno non imbraccia un congegno mortale, la pellicola non riesce bene a decollare seguendo una semplice narrazione. Gli attori sono molto bravi, ma vengono coinvolti in eventi "standard" che non hanno la stessa cura di quelli "action", risultando spesso un po' superficiali o solo abbozzati. È un peccato, perché la favola diviene così poco omogenea e quando dovrebbe arrivare una morale o uno sviluppo/evoluzione dei personaggi, questa non colpisce sempre come dovrebbe.
In conclusione Malefica è un buon film, sa intrattenere, ha un buon ritmo ma poteva essere gestito un po' meglio sul piano narrativo. Di sicuro piacerà ai più piccoli e confesso che è piaciuto anche a me per il modo in cui ha coniugato la favola con un certo tipo di fantasy, quello degli anni '80. Storie come Lady Hawk, Labyrinth, Legend, Taron o anche il "terribile" Ritorno a Oz. Storie in cui l'elemento fantastico era spesso grottesco, qualche volta spaventoso ma pur sempre alla portata dei bambini. Oggi si fa troppo fantasy "per adulti", che diventa alla fine una continua allegoria di conflitti bellici, finalizzata a vendere giochi di ruolo con pupazzetti da colorare da nerd over30 o romanzi in cui si contano più giochi di palazzo e con dame di corte che draghi. Malefica rimane una favola, dalla morale semplice e dalla costruzione narrativa semplice, che usa le creature fatate "per fare le creature fatate", al massimo per considerarle una metafora del mondo naturale da preservare come, toh, il "motivo stesso per cui esistono storie sulle creature fatate". Una favola che alla fine un bambino può raccontare dopo la visione, con tanti personaggi fantasy. E va benissimo così . 
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martedì 15 ottobre 2019

Joker: la nostra recensione del film di Todd Phillips con Joaquin Phoenix



- Sinossi fatta male: Arthur (Joaquin Phoenix) è un ragazzo non più giovane che ogni giorno ingoia la sua vita di "pagliaccio a pagamento", un calcio dopo l'altro. Probabilmente nella scalcinata ed iniqua Gotham degli anni '70, non diversamente dalla New York del grande blackout del 1977, c'è davvero poco da ridere, c'è tensione nell'aria. Qualcuno che "ride per lavoro" può forse irritare e irrita ancora di più se non sembra "trattenersi", se sembra che derida il prossimo. Arthur fa il pagliaccio e inoltre ha una malattia mentale che, oltre a riempirlo di farmaci per non impazzire, lo fa ridere senza volerlo. Per colpa di questa "doppia condizione" Arthur prende i calci. Da adulti, da bambini, dalla burocrazia, colleghi, tutti! Un sacco di calci. Più calci prende, più ride. Anche se la risata esce con un rantolo di vomito, anche se è accompagnata dal sudore e dagli occhi persi di Arthur nel temere costantemente il peggio, nel prepararsi al prossimo calcio. Arthur ride e il suo corpo segaligno, quasi già piegato su se stesso per problemi alla schiena, è una carta geografica di ecchimosi. Un amico pagliaccio gli offre una pistola per difendersi mentre lavora. Ad Arthur piace, tutto di un colpo, avere quel potere, se la porta dietro come una coperta di Linus, anche dove non dovrebbe. Arthur usa quell'arma mentre sta di nuovo a terra a prendere calci, dopo aver difeso una ragazza da tre bulli della elite di Gotham. Qualcosa allora si rompe in lui. Quelle risate che si facevano strada dalle viscere contuse del suo corpo e della sua anima hanno conquistato del tutto la testa, dando forma a una nuova identità dentro ad Arthur. Nasce così Joker e la sua risata trova forma, e non paura, nella violenza. Presto arriva il tempo che Joker si imponga come il nuovo comico numero uno di Gotham, magari scalzando il precedente re della risata (Robert De Niro) che ogni sera dalla TV riscalda le case della tartassata Gotham.


- Arthur e le sue prime lezioni di danza con il diavolo nel pallido plenilunio: Chi conosce i fumetti di Batman saprà bene come questa pellicola potrà andar a finire e probabilmente si esalterà nel constatare quanto questo Joker peschi dalle opere di Alan Moore, tra Killing Joke del 1988 e (inaspettatamente) V per Vendetta del 1982. Chi non conosce i fumetti si stupirà magari del fatto di aver assistito a un'opera tratta da un fumetto, perché questa ultima, dolorosa e bellissima, pellicola di Todd Phillips è un dramma metropolitano che può stare senza troppi problemi dalle parti del cinema di Martin Scorsese, dato il modo in cui pesca ad ampie mani (e con intelligenza) da Taxi Driver e Re per una notte. Un film che parla del passato, rievocando quel terribile blackout del 1977, ma che rimane terribilmente attualissimo, affrontando di petto temi scomodi ancora oggi, primo tra tutti il tanto vituperato "sociale". Arthur ha tanti problemi, ma si muove tra servizi sociali e ospedali psichiatrici con i fondi tagliati, personale impotente e zero prospettive per il futuro. Joker è figlio di quel sistema e della cattiveria che nasce dentro tutto coloro che avrebbero bisogno di un aiuto, ma che lo Stato non può (o non vuole?) aiutare. Se Batman per Gotham è il babbo natale della giustizia, in questo film Batman sta colpevolmente assente. Batman non esiste come non esistono le favole, anche se i più attenti ai fumetti (a cui sono dedicate alcune scene chiave intelligentemente sussurrate) magari possono sognare che è solo una condizione transitoria: "Batman non esiste (ancora)". Sta di fatto che per la pellicola il Joker esiste e può essere chiunque. Forse per fermarlo dallo "scoppiare" basterebbero piccolo gesti di umanità, ma sembra che il mondo non sia disposto a fare nemmeno questo. Del resto il noto ospedale psichiatrico Arkham di questa pellicola non fa distinzione per i suoi degenti, che siano folli, che siano pericolosi, che siano soli. La follia è solo la conseguenza di non credere più a niente di quello che il mondo propone e l'Arthur di Phoenix è un vero titano nel non accettare fino all'ultimo il suo destino. Il suo Joker all'opposto è quasi uno zombie che aggredisce per esprimersi, balla per camminare, espone i suoi primi piccoli monologhi da "cattivo dei fumetti" con aria assente e incerta. È un comico alle prime armi, umanamente goffo anche se assolutamente pericoloso. È un Joker che guarda da vicino il cosiddetto "proto-Joker",  il malinconico protagonista di L'uomo che ride del 1928 (Bob Kane creerà il Joker visivamente mutuandolo a L'uomo che Ride nel 1940), tratto da Victor Hugo. Deve ancora comprendere il suo posto nel mondo, imparando ad accettare il mondo con il sorriso (anche se sappiamo che per il personaggio ridere non è da intendersi in modo ortodosso). Vi consiglio la visione e la lettura. 


- Un Joker da Leoni: Todd Phillips continua con Joker la sua personale e satirica indagine sui "confini morali dell'uomo moderno", su quanto poco basti perché una brava persona regredisca in un "uomo lupo". A volte per Phillips la trasformazione riguarda l'uso di sostanze che abbassano i freni inibitori (la trilogia de Una notte da leoni), a volte l'avidità che consegue a una rapida e sfrenata ricchezza (I trafficanti), a volte il desiderio di fuggire con tutte le forze dal diventare adulti (Project X). Per Joker il fattore scatenante è l'ingiustizia morale, che parte dagli uffici più sbrindellati del welfare sociale e arriva alla punta delle scarpe che colpiscono la schiena ingobbita di un Phoenix mai così disperato, mai così vicino all'animo dello spettatore, che prima "soffre con lui" e poi magari ritrae lo sguardo quando risulta evidente che Arthur e il suo mondo fatto di poche illusioni positive "non c'è più". È geniale come la scrittura di Phillips si adatti alla perfezione tanto a chi cerca un buon film drammatico come a chi vuole il personaggio esagerato dei fumetti. Così qualcuno tra il pubblico, magari che si è appassionato ad Arthur nella prima parte della pellicola, anche dopo la trasformazione "inevitabile" in Joker probabilmente non crederà a questo cambiamento e cercherà tra le (intelligenti) vie di fuga narrative del film di darsi un'interpretazione differente dei fatti. Per chi invece guarda alla follia che bene incarna il personaggio del Joker a fumetti, arriverà nella seconda parte del film tutto ciò probabilmente mancava ai fan dai tempi in cui Heath Ledger ha indossato per l'ultima volta i panni del principe del crimine di Gotham. Anche l'azione però segue le regole di un film thriller / drammatico classico, non essendo previste particolari esagerazioni visive sullo stile dei fumetti. Per un film che parla di pazzia, Phillips si scopre incredibilmente equilibrato e appassionato nella scrittura, dando corpo al suo lavoro migliore. Un film autorale quanto visivamente ricercato, che al contempo non cede il passo al ritmo, sa prendere lo spettatore dall'inizio alla fine e si appoggia ad una colonna sonora da urlo. Soprattutto un film che gode di uno straordinario interprete in stato di grazia.


- Joaquin Phoenix, il nuovo Joker: ne Il Gladiatore voleva sono essere amato dal padre, l'imperatore Marco Aurelio che aveva però già deciso che non sarebbe succeduto a lui, che ci sarebbe stata la Repubblica. In Da morire sognava solo di stare al fianco di una donna bellissima che diceva di amarlo (La Kidman) e e veniva da lei manipolato. In Her si innamorava di un computer (pur con la voce sexy si Scarlett Johannson), in The Master sognava di trovare un padre nel capo di una setta. In A beautyful day era un veterano che aveva subito abusi da giovane e violenze da adulto alla continua ricerca di qualcuno da salvare. In Io sono qui ha scherzato sul fatto di essere lui stesso un artista fallito. Se togliamo un paio di film da cassetta, Phoenix è uno che soffre su pellicola spesso e questo fa di lui un bravissimo attore drammatico. Joker era nelle sue corde e lui se lo è indossato con eleganza, lo ha fatto suo a partire dall'aspetto segaligno che spesso faceva capolino sui fumetti. Per entrare nella parte Phoenix si è sottoposto a una trasformazione fisica spaventosa e distruttiva, paragonabile a quella di Christian Bale per L'uomo senza sonno. L'attore è diventato poco più che uno scheletro, al punto che il ghigno da pagliaccio si potrebbe attribuire alla mancanza di pelle sulla faccia. Sto esagerando, ma forse nemmeno troppo. Phoenix regala al suo Arthur uno sguardo innocente di bambino, un sorriso a bocca stretta e una "risata cattiva" che nasce come una imbarazzante manifestazione isterica. È molto tenero e molto "vero" che Arthur porti con sé dei bigliettini sui quali è scritto che è malato e non intende deridere o spaventare le persone quando ha un attacco in atto. Spezza il cuore che si prenda dei calci mentre cerca di estrarre quei biglietti, perché l'attore ha fatto sua quella patologia, con onestà e misura. Frances Conroy interpreta l'anziana e allettata madre di Arthur. I due personaggi hanno un rapporto molto stretto, apprensivo, su cui è interessante soffermarsi. Zazie Beetz interpreta una energica e gentile giovane madre. vicina di casa di Arthur nello stesso fatiscente palazzo di periferia. Arthur vive una realtà urbana caratterizzata da forte marginalità e violenza, la cui unica via di fuga è il mondo dentro un piccolo televisore in bianco e nero, specie nell'ora in cui il personaggio di De Niro si esibisce in una sua versione del Letterman Show. De Niro sembra quasi il suo personaggio "invecchiato" di Re per una notte (c'è un'allusione al fatto che abbia vissuto a lungo con la madre, come il personaggio di Arthur), ma più cinico, indifferente. A tutti gli effetti rappresenta un motore dell'azione e le sue scene sono sempre forti, precise nel contribuire all'evoluzione del personaggio di Phoenix. Peccato si veda troppo poco De Niro sulla pellicola, non basterebbe mai. 


-Finale: Joker è una pellicola che a ragione sta raccogliendo moltissimi riscontri di critica e pubblico. Un'ottima regia supporta un interprete in stato di grazia in un mondo affascinante quanto dolente, molto vicino però ai temi della quotidianità. Non essendo presenti particolari situazioni che ne forniscano un chiaro "etichettamento", (come la presenza di persone in calzamaglia o una rappresentazione esagerata dell'azione) il film può essere visto come un cinecomic allo stesso modo in cui può essere visto come una pellicola strettamente thriller/drammatica. A livello di ritmo ho trovato la prima parte più lineare e la seconda un poco più frammentata. Avrei forse apprezzato un cambiamento nel personaggio più graduato. Non credo di aver riscontrato altri problemi e per lo più le opinioni qui espresse hanno a che fare con il mio gusto personale e non con reali difetti di una pellicola che, senza troppi giri di parole, sta dalle parti del capolavoro. 
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