lunedì 25 maggio 2020

Mortal Kombat 11: Aftermath - il ritorno del mitico Robocop in un videogame



Amo Ed Boon e la sua NetherRealm, principalmente perché ho quarant'anni, ho una cultura e fisico degni dell'uomo dei fumetti dei Simpsons e quest'uomo conosce tutti i miei punti deboli in ambito videoludico e cinematigrafico. Già ti crea Mortal Kombat, un picchiaduro che fonde idealmente i film di Van Damme e Michael Dudikoff con I tre dell'operazione drago e Grosso Guaio a Chinatown. Poi ti mette nel gioco dei combattenti Guest Star provenienti da altri film come Freddy Kruger, Leatherface, Jason, Predator, Alien, Terminator rispettandone mitologia (o finemente incrociandola come nel caso dell'Alien-Baraka), frasi ad effetto, costumi (c'è pure il Leatherface con la faccia di pelle di donna e il Jason con il sacco in testa del secondo film) e armi. Per Mortal Kombat X il buon Boon chiama addirittura a ri-confrontarsi virtualmente con il Predator, oltre all'Alien delle pellicole "Versus", anche il maggiore interpretato da Carl "Apollo" Weathers, fornendogli le protesi meccaniche di Jax in luogo delle braccia del personaggio rimaste mutilate dall'alieno nella pellicola di McTiernan. In Mortal Kombat 11 Ed Boon, con pari amore e cura, inserisce tra i combattenti un Terminator virtuale che ha effettivamente il volto di Schwarzenegger e ne riprende citazioni non solo dalla pellicola di Cameron, ma da tutta la filmografia di Arnold, da Commando a Last Action Hero passando per The Running Man. La migliore celebrazione videoludica di Arnold Schwarzenegger di sempre. Non ho quindi letteralmente alcuna speranza di ribellione, quando il buon Ed tira fuori questa nuova espansione di Mortal Kombat 11, dal titolo Aftermath, anche se il costo è francamente folle, 39,90, anche se i contenuti sembrano succosissimi ma nemmeno molti. A ben guardare è presente un interessantissimo story mode cinematografo aggiuntivo e successivo agli eventi della campagna di gioco, ci sono le friendship e gli stage classici, ci sono i costumini nuovi per i lottatori, ma quello che è "il succo", i personaggi nuovi, è davvero risicato. Sono solo tre. Il tizio del vento che si ricordano per lo più i fan di un gioco sfigato come Mortal Kombat mythologies Subzero. Goro con le tette. Ma c'è poi Robocop, con voce originale e movenze di Peter Weller. 



Roba per me da andare fuori di testa. C'è Robocop e un po' "tutto il suo mondo", specie la prima pellicola di Paul Verhoeven del 1987. Dal Cobra Assault Cannon alla Beretta 93R modificata. Dalla lama da polso che fungeva da versione "Detroit anni '80 distopica" di una chiavetta USB alla fondina del cannone integrata nella gamba. Dalla visione in prima persona in verde CGA con reticolo olografico al "Vivo o morto, tu verrai con me". Ci sono le fatality ovviamente, perché siamo in Mortal Kombat. Una replica con ferocia la scena dell'omicidio dello stesso Murphy, una mette in campo l'ED209 che "non sente" quando il bersaglio è disarmato. Non ho visto la fatality di Robocop che investe il nemico con l'auto dopo che questo è caduto nell'acido, ma credo che sia possibile esista, a questo punto. Si potrà customizzare l'armatura e non vedo l'ora di godere della variante blu scura o magari della versione del Remake di Padilha del 2014, forse l'unica cosa passabile del remake. Avrei voluto vedere la nuova armatura del prossimo film di Robocop, ma il progetto di Neill Blomkamp con al centro un attempato Weller, che vegetava da anni in semi-coma come tutti i lavori di Blomkamp, ormai è naufragato del tutto, con una nuova versione del brand, per ora accreditata ad Abe Forsythe, di nuovo all'inizio dello sviluppo. Ma sono contento comunque, perché con questa espansione di Mortal Kombat si avvera anche il mio sogno bagnato di sempre, rivedere confrontarsi Robocop contro il Terminator T-800 dopo il Robocop vs Terminator per Megadrive del 1993 ad opera di Virgin Games e diretto da John Botti. In quel gioco c'era tanto sangue quanto un Mortal Kombat e pure lo stile grafico fotorealistico era su quella linea. 



Era il titolo per cui mi mangiavo di più le mani per aver barattato per due lenticchie un Megadrive per un SuperNintendo. Anche perché Robocop è stato il primo film che ho noleggiato in videoteca, con mio padre che ha dovuto garantire al commesso che avrei visto la pellicola in sua presenza. È stato da subito il mio film preferito di sempre, per le sue scene d'azione esagerate, la musica malinconica di Basil Poliduris, le pubblicità satiriche inserire nella narrazione, la struggente interpretazione di Weller e Nancy Allen, i mille giocattoli e robot animatronici hi-tech, lo skyline della OCP in contrasto alle macchine della polizia scassate che facevano le scintille solo per uscire da un parcheggio interrato e pieno di buche, Murphy che roteava la pistola come TJ Laser per far colpo sul figlio, l'ammazza sbirri Clarence Boddicker, la direttiva 4, l'omogeneizzato, la scena di Dick Jones che irrompe nel bagno dei dirigenti con tutti che si pisciano addosso pur di sfuggire in fretta, le torte a forma di tette. A distanza di anni è un film che non ha perso un grammo del suo smalto, ma quando ero bambino era per me reale materia oscura e affascinante. Così per MSX arrivai a prendere questa "cosa", per lo più attratto dalle scene del cabinato da bar Data East che vigliaccamente erano usate come "rappresentative della grafica"


Poi arrivò a casa mia l'amiga e una delle conversioni migliori da sala giochi di sempre. Ci ho giocato una vita.  
Sono seguiti film (meno belli) e trasposizioni ludiche collegate (pure loro "altalenanti"), fino appunto a quel Robocop vs Terminator per Megadrive, che assomigliava tanto a Mortal Kombat nel suo essere un oggetto per "giocatori adulti", e quindi irresistibile per ogni minorenne. Oggi fiducioso preventivamente della cura consueta di NetherRealm, con l'espansione Aftermath di Mortal Kombat un po' chiudo idealmente questo Amarcord. Anche perché dopo avermi fatto rivivere Alien contro Predator e Robocop contro Terminator non so cosa potrebbe inventarsi di più Ed Boon per farmi comprare un nuovo Mortal Kombat con tanto entusiasmo. Se però la prossima espansione vedesse effettivamente Michael Mayers e magari pure Ash Williams...chissà. 
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martedì 19 maggio 2020

Dragonero il ribelle - n.7: Il destino di Keyra


- Sinossi fatta male: Quanto sarebbe bello in questo periodo di distanza sociale per prevenzione pandemica ficcarsi, come l'orco brizzolato Gmor, sotto una classica "tenda del sudore" erondariana. Magari in riva al mare, a fare cosacce con una bella orchetta come Keyra, sexy e muscolosa quanto la Shokan Sheeva di Mortal Kombat (personaggio tornato nella saga grazie alla recente espansione digitale Mortal Kombat 11: Aftermath). Quanto sarebbe bello poi andare insieme agli amici alla taverna del Cinghiale Basito (nome che mi ricorda un po' Boris, "F4 basito"..) a farsi una birra senza i due metri di distanza tra i tavoli, guanti e mascherine? Oggi possiamo solo sognare di amarci alla vecchia maniera per tramite dei fumetti, come attraverso questa nuova storia di Vietti, perché il presente ricorda drammaticamente ciò che accadeva ne La pallottola spuntata...




Ma sembra che anche nel fantasy Bonelliano, come da noi oggi, permangano problemi circa la possibilità di andare su una spiaggia per farsi i cavoli propri. Forse Gmor non ha con sé l'autocertificazione aggiornata, forse non convince che Keyra rientri nella definizione di "congiunta", ecco che la nostra verde coppietta viene circondata dai temibili vigili ghoulin, efficienti e zelanti come non mai. In realtà l'incontro con i ghoulin cela però retroscena diversi, più "umani"; Keyra, che ora è a capo di una fazione di orchesse come primo rappresentante femminile dei clan, deve recarsi sull'isola degli orchi per via di questioni politiche orchesche. Si parla di roba grossa e verde. Così dopo una birra al Cinghiale basito con Aura la mezza vampira maga e Ian l'ammazzadraghi, Gmor e la sua vecchia fiamma decidono per una gita all'isola degli orchi tutti insieme, tutti sul battelletto tecnocrate a noleggio. Nel frattempo presso l'Isola Orfana il saggio Vrill Ausofer si lamenta con Briana, la fiamma attuale di Ian, perché questo "Dragonero-il ribelle" non va avanti, sono già due episodi di filler in cui la trama sta ingolfata e nessuno si impegna davvero nella nuova vera missione dei ribelli. E dire che all'orizzonte ci sarebbe la cosiddetta missione "pokemon", con cui recuperare un uovo di regina viverna per creare la nuova armata pennuta volante. Misteriosamente si parla di grossi uccelli volanti ma nel numero non compare Sera: ci restiamo un po' male. 
Sempre nel frattempo, a Vahlendart l'impero si fa delle menate sul possibile scontro con quei bifolchi barbuti dell'Enclave delle Montagne, con il santone Leario che bulleggia lo psicopatico Roney che alla fine si sfoga con il primo corriere di Amazon che trova a tiro. Siamo quasi a pagina 60 e non è successo ancora molto, quanto i nostri eroi si trovano in una foresta in cui succedono cose strane che ci verranno spiegate a pagina 76 e 77. Finalmente arriviamo con slancio al famoso incontro orchesco sopra lungamente anticipatoci... Cosa succederà? 

- Crisi di coppia in vista? Il tema che idealmente unisce gli eventi raccontati nel numero 7 di Dragonero-Il ribelle è un po' quanto viene sintetizzato in quella canzoncina Disney del Re Leone di quando Simba scopre l'universo femminile e non può più stare tutto il giorno a mangiare locuste insieme al suricato e al Cinghiale. 



È la vita, è triste ed è normarle che anche un cinghiale davanti a questo resti basito come da brand dell'omonima taverna erondariana. Solo che Ian e Gmor sono a un passetto prima della celebre canzoncina Disney, sono Timon e Pumba per intenderci, temendo reciprocamente che l'amico faccia la fine di Simba. Hanno queste due femmine che stanno iniziando a piantare le tende nella loro vita e non solo "per sudare". L'istinto primario impone, anche giustamente, ma pure compulsivamente, la fuga. Si inventano così gite dall'altra parte del continente organizzate un paio di ore prima di partire con scuse tipo: "Scusa cara, nel pomeriggio pensavo di andare con amici miei in Marocco". Chiedono di rispettare un po' i loro spazi e i loro tempi, poi finiscono comunque tutte le sere al Cinghiale Basito o davanti a birre dove annegano il loro tempo in ricordi del passato da cui (figurativamente ma anche, e in modo ingegnoso, pure narrativamente) non riescono più a "svegliarsi". Insomma, è tutto molto bello e divertente quando si possono roteare le spade e le scuri contro mostriciattoli e similia, con tanto di gente che ti ricorda quanto eri figo da giovane, ma poi si finisce sempre a farsi le menate sui quarant'anni, il complesso di Peter Pan e quel grandioso viaggio a Barcellona del '87 mai fatto come in una pellicola di Gabriele Muccino. Capita anche nel fantasy di diventare "grandi", potrebbe essere il momento anche per il piccolo mondo di Ian e Gmor, a quanto ci suggerisce Vietti attraverso i vari tasselli narrativi di questo numero. La coppia potrebbe scoppiare? Diciamo che ci sono nubi all'orizzonte, con i temi della discendenza e del sangue che iniziano a farsi centrali nelle loro storie, quasi a comprimere sulla lunga distanza la gioiosa libertà dei nostri eroi. 



- Un po'di analisi: il numero 7 sceglie una strada narrativa frammentaria, crea mattoncini che andranno a costruire un mosaico più vasto in futuro. Vietti risulta interlocutorio, ci aggiorna su come i nostri eroi stanno cambiando interiormente e per alleggerire condisce con classiche scene d'azione escapiste, divertenti e smargiasse da inizio a fine volume. Ciò che accade nelle pagine centrali non risulta forse del tutto intellegibile alla prima lettura e quando arriva la spiegazione forse si vorrebbe che non fosse così repentina. Interviene a favore della leggibilità degli eventi la "colorazione di margine" delle tavole, come una seconda analisi dei disegni, magari con pigio "enigmistico" alla ricerca di un certo particolare mancante. Il finale è forse un po' compresso. I disegni del trio Galliccia, Pagliarani e Riccardi sono grintosi e plastici, riescono bene a tratteggiare la sensualità di Keyra senza comprimerne troppo le connotazioni fisiche orchesche più spigolose. Aura non trova forse una altrettanto chiara definizione visiva nella sintesi dei disegnatori: una è molto mascolina e minuta, una decisamente sexy e più slanciata. Noi preferiamo la seconda. Buone le scene notturne ambientate nella foresta, che qualche volta fanno tanto Blair Witch Project e qualche volta sembrano la copertina di un cd degli Halloween. Anche lo scontro nel villaggio ha delle intuizioni interessanti, soprattutto nella gestione degli spazi. Rodey ha una buona caratterizzazione, è un personaggio contratto, che sembra "fremere" dalla voglia di mettersi al centro della scena, con esiti a volte esplosivi dopo momenti di calma apparente stile Joe Pesci. Un plauso anche alla rigogliosa scenografia delle ultime tavole dell'albo, un paesaggio naturalistico e architettonico quasi da civiltà Inca.  
Il numero 7 risulta molto gradevole, migliora a una seconda lettura. Vorremmo vedere ancora il popolo degli orchi e Keyra in futuro, compreso quello che risiede al di là del portale. Ci sono un sacco di storie fantastiche da immaginare. 
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mercoledì 13 maggio 2020

I sopravvissuti - il primo volume che raccogli le strip Hurricane Ivan per Eris Edizioni



In questo periodo di tristezza esistenziale è vitale e prescritto dal medico farsi una sana risata. Anche, e soprattutto, se è una risata sulfurea, intrisa di humour nero e bagnata da capo a piedi di attualità: la tanto temuta e spaventosa "satira". Una risata seppellirà ogni cosa, facendoci tornare a vivere la giusta prospettiva delle cose. 
Così un giorno il vignettista satirico Hurricane crea le storie di Omino e Tacchino, eroi senza tempo della quotidianità di un mondo distorto e attualissimo quanto quello della striscia I sopravvissuti. I bersagli sociali sono multipli, le vie di fuga alla follia proposte geniali, pindariche. I titanici pupazzini di Hurricane vivono a ideale metà strada impossibile tra La linea della Dagostina di Osvaldo Cavandoli, Le folle di Iacovitti, L'uomo della strada di Vincino e Gli struzzi di Altan. Il loro mondo sono tavole da perderci gli occhi dentro a inseguire i mille dettagli, un geometrico e preciso girotondo di dedali urbani dalle geometrie folli brulicanti di vita e follia. Sono omini per lo più "schizzatini", carichi di sorrisi folli, rabbia e passioni forti che esplodono in corpicini dinamici, tratteggiati da poche e febbricitanti linee dinamiche, "buffi" per forma e dai colori sgargianti, a contrasto delle tragedie che la scena rappresenta. Ma loro sono irresistibili, contagiosi, creano dipendenza, sono "più reali del reale" e personalmente mi fanno morire dal ridere. 
Eris Edizioni raccoglie le prime "storie", rapidamente autoconclusive o episodiche, in un bel libro da regalare ai vostri amici, soprattutto in questo momento dove "dobbiamo ridere" senza però smettere di "pensare", anche ridendoci su, sulle follie di un mondo in cui anche noi, oggi, siamo dei sopravvissuti.
E se vi parte "la dipendenza da sopravvissuti", gli omini di Hurricane li trovate, con storie aggiornate, anche sulla pagina Facebook.


Buona lettura e buone risate. 

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Ora scusatemi, ma devo andare a leggere sulla pagina di Hurricane le nuove avventure de "L'uomo smascherato".

giovedì 7 maggio 2020

Guns Akimbo - la nostra recensione del nuovo film di Daniel Radcliffe, da oggi disponibile su Amazon Prime



Miles (Daniel Radcliffe) è uno sfigato programmatore vegetariano e troll. Lavora svogliato e senza prospettive per una software House che realizza giochini da cellulare pieni di castorini colorati che odia, si è da poco lasciato con Nova, l'unica ragazza che non lo considerasse un perdente (Natasha Liu Bordizzo), e ultra incattivito passa le serate da leone da tastiera passivo-aggressivo insultando in rete chi insulta nei commenti, cosa che ne fa uno dei cosiddetti "vendicatori", la categoria di esseri umani più vicina agli organismi monocellulari. Così se lo merita del tutto quando dopo aver insultato per tutta una notte brava uno strano e pericolosissimo gioco ultraviolento di nome Skimz, presente sulla fantomatica Parte strana di internet, si ritrova in casa il proprietario del gioco, l'iquietante Riktor (Ned Dennehy) pronto a fargli la festa. Skimz non è esattamente Fortnite, è un gioco di scommesse che coinvolge persone vere che vengono rapite, drogate, riempite di armi automatiche, riprese h24 e obbligate a uccidersi tra di loro nel mondo reale, con la polizia che cerca in ogni modo di contenere il fenomeno senza riuscirci. La campionessa del gioco in carica è una squilibrata genocida di nome Nix (Samara Weaving) e Riktor vuole che Miles sia per lei una specie di vittima sacrificale senza speranza. Mentre il ragazzo si trova ancora in mutande, accappatoio e ridicole pantofole pelose da leone, Riktor gli impianta sulle braccia e sulle mani con dei chiodi delle pistole. Impossibilitato in questo modo a compiere qualsiasi azione se non sparare, Miles in mutande si getta nella città a scappare a perdifiato, mentre i droni che fanno seguire Skimz a milioni di spettatori /scommettitori lo seguono passo dopo passo. Inaspettatamente Miles suscita la simpatia del pubblico, che gli dà il soprannome di "Miles braccia armate" e forse riuscirà anche a far passare dalla sua parte la folle e scombinata Nix.


Jason Lei Houden dopo lo strampalato e divertentissimo horror adolescenzial - metallaro Deathgasm, in home video nel catalogo Midnight Factory, scrive e dirige questo folle e strampalato Guns Akimbo, titolo che in italiano suonerebbe tipo "pronto allo sparo", come chi tiene le mani sui fianchi accarezzando la pistola prima di un duello western. Guns Akimbo è un bel mix, simile a Shoot'em up di Davis per filosofia di gun-fight, vicino come struttura di fondo "complotto/gladiatoria" all'"Implacabile" con Arnorld Schwarzenegger, dalle parti di Gamer del duo "Crankaino" Neveldine/Taylor per scenografie urbane, non troppo distante per animo social, ma decisamente più sotto acido, a Nerve di Schulman e Joost. C'è anche un po' della vena romantica, anarchica e pazzoide di American Ultra. Forse non c'è niente di davvero originale in Guns Akimbo, ma il suo "volume di fuoco", la simpatia dei protagonisti e l'assurdità del contesto sono così estremi che la rendono una pellicola scacciapensieri irresistibile, follemente liberatoria e anti stress.
Daniel Radcliffe ce la mette davvero tutta a farsi voler bene da noi sul blog nella sua fase Post-Harry Potter, inanellando follie strambe e indipendenti come Swiss Army Man e Horns, scegliendo di incarnare l'horror classico di Victor e The Woman in Black, partecipando anche per piccole particine a roba "scorreggiona" come Grimsby di Sasha Baron Cohen. Gli piace mostrarsi contorto nella struttura muscolare, zombificato, spesso nudo, facendo della recitazione corporale una sua chiave vincente senza dimenticare mai di sfoggiare la carta dell'autoironia e risulta davvero simpatico, specialmente nei ruoli di nevrotico e depresso in cui dimostra ottimi tempi comici. In Guns Akimbo assomiglia in un certo momento al suo collega e amico James McAvoy in Wanted, ripercorrendo la parabola nello schiavo da ufficio che si ribella al superiore aguzzino, ed è davvero strepitoso, sincero, sembra mandare a cagare chi lo vuole sempre legato a pupazzetti e maghetti, rivendica la libertà di compiere azioni luride quanto umane come mangiare un wurstel coperto di scarafaggi in un modo che sembra quasi una fellatio. Quando Nix lo trova e gli chiede per prima cosa di andare in bagno a scaricarsi perché non vuole che quando lo crivellerà con la mitragliatrice esploda come una "bomba di merda" (ipse dixit) assistiamo idealmente e di nuovo alla autodistruzione dell'immagine del maghetto della Rowling per la rinascita del Radcliffe attore, come quando per la prima volta il nostro sentì la pulsione di recitare completamente nudo nel teatrale Equus, per staccarsi dal ruolo che lo ha reso eterno bambino. Qualcosa alla Miley Cyrus, dirà qualcuno dei miei piccoli lettori. Radcliffe è in Guns Akimbo sboccato, con il pene di fuori, mezzo nudo, coperto di sangue, travolto in continue scene equivoche e per tutto questo umano, autentico e amabile come il vostro migliore amico di sempre. Gli si vuole davvero bene.
Non si può volere però meno bene alla straordinaria Nix di Samara Weaving, nipote del grande Hugo. Esagerata e disperata, Nix pare uscita da un cartone animato ultraviolento per adulti, ma presenta dei tratti caratteriali inaspettatamente complessi. Sembra la sorellina più piccola ma ugualmente border della Mallory Knox di Juliette Lewis nel classico Natural Born Killers di Stone. È una bomba emotiva sempre pronta a esplodere rilasciando colori/sentimenti diversi come in un quadro di Jackson Pollock, per lo più espressi con incessanti smitragliate e razzi che vanno a distruggere ogni edificio o essere vivente presente su schermo. (anti)Eroica, disperata, pazza, malinconica, Nix come Miles è un personaggio che ti rimane in testa anche a fine visione, facendoti crescere la voglia di rivedere presto la bravissima Samara, già amatissima, in breve tempo, per il thriller The Baby Sitter e lo scatenato horror Finché morte non ci separi
Guns Akimbo è un filmaccio sporco e cattivo carico di splatter e cattivo gusto, ma travolgente per un senso dell'azione non stop, una feroce critica sociale verso la internet generation e dei tempi perfetti da puro e sulfureo humour nero. Interpreti molto in parte, divertenti e divertiti da ruoli ultra-sopra le righe, uniti alla voglia di farci passare una novantina di minuti scacciapensieri, fanno di questa pellicola un passatempo più che gradito e ben confezionato su cui sfogare tutte le frustrazioni di fine giornata. Da vedere per divertirsi, a cervello spento, ma assolutamente da non somministrare ai più piccoli e sensibili per l'altissima dose di violenza visiva che, pur da cartoon, potrebbe non essere gradita. 
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lunedì 4 maggio 2020

The Mandalorian - la nostra recensione della prima stagione completa


- Premessa: purtroppo le puntate sono finite, questa serie mi mancherà davvero. È stato uno degli appuntamenti settimanali immancabili di questo periodo di quarantena, insieme a Hunters su Amazon Prime. Mi sono ritrovato a guardare un telefilm dalla trama semplice ma carica di sfumature, che probabilmente da bambino avrei amato alla follia. Mi rincuora sapere che già per ottobre sia prevista una seconda stagione, con la numero 3 già in pre-produzione da questo aprile. Per me questo è il modo giusto di celebrare i molti mondi possibili dell'universo di Star Wars. Tra un baby Yoda e un inseguimento con gli speeder, tra i jawa e i robot mercenari sono tornato un po' bambino ed è stato bello, perché ho visto pure che lo spettacolo era atteso e gradito anche a miei amici che non hanno mai amato particolarmente Star Wars. Volevo quindi parlarvene un po', ma procediamo con ordine.


- Questa è la via: il culto dei mandaloriani impone di diventare i migliori combattenti delle galassia  e di indossare per sempre sul proprio volto un elmo e sul corpo una corazza. I mandaloriani vivono per acquisire un metallo prezioso con cui elaborare la loro armatura, raccontandolo sulla sua superficie il loro valore e scavandone tra le pieghe infiniti congegni per ampliare la propria letalità. Un tempo considerati pari dei re, oggi i mandaloriani, a cinque anni dalla caduta dell'impero, strisciano tra i bassifondi delle taverne come cacciatori di taglie, nell'unica e smodata ricerca di quella lega preziosa con cui scrivere la propria storia e valore sul loro acciaio.
Un mandaloriano senza nome arriva così sul punto di intraprendere un nuovo contratto, il recupero di un oggetto misterioso e molto ambito da persone pericolose. Solo che quell'oggetto si schiude, rivelandosi la culla di un bambino di una specie sconosciuta, forse estinta. Il guerriero incasserà la taglia passando a una nuova missione? 


- Lo spazio è "di tutti", "quindi è "pop": Le Guerre Stellari sognate da George Lucas, scritte su un quaderno dai figli giallo insieme ad American Graffiti, rappresentano a oggi una sintesi perfetta della cultura pop del '900. Tanto perfetta da generare, nelle mille declinazioni con cui sono esplose mediaticamente, materiale iconico, di moda e stile. Nella cattedrale di San Pietro e Paolo a Washington DC tra i doccioni o "Gargoyles" a difesa delle mura, ce n'è uno con l'elmo di Darth Vader. Come ogni opera di sintesi, Star Wars ha pescato ovunque. Nella sua ricetta magica c'è dentro la fantascienza di carta fatta di pianeti lontani, creature strane e grottesche, dittatori  e astronavi, che ha dipinto le storie di Flash Gordon, John Carter, Buck Rogers, Valerian. Ma in Star Wars si trova pure il western, dai paesaggi di Ford agli antieroi di Hawks, passando per i pistoleri senza nome di Leone. Se scaviamo nel suo cuore troviamo l'avventura classica di Dumas, tra La maschera di ferro e Il conte di Montecristo. Qualcuno nel magma lucasiano ritrova Asimov e i suoi protocolli per le intelligenze sintetiche, qualcuno vede le integrazioni multi-razziali care a Roddenberry. Ci trovi in fondo "tutto quello che vuoi" in Star Wars, compresa la seconda guerra mondiale, perché è un'opera che maneggia temi universali, potenti, ma questo non è che la cornice. La vera cifra della saga, ciò che la rende un prodotto unico e amato, è nel modo di raccontare questi temi, vicini e distanti, con il garbo e il cuore di una fiaba. 
C'è ovviamente anche molto cinema dell'oriente in Star Wars, come c'è molta filosofia orientale alla base dei suoi personaggi. Per me partire dall'Oriente è forse uno dei modi più stimolanti per approcciarsi a Star Wars, anche perché è da quello stesso oriente che è nato un genere come gli spaghetti western tra cui figurano i capolavori di Leone ho impressi nel DNA fin dall'infanzia.


- Katane Laser: Cos'è forse un Jedi, se non un moderno samurai che segue una propria Via della Spada, teso tra il "servire la nobiltà come potere" come impone l'Hagakure o il "servire la nobiltà che ogni vita sulla terra possiede" come prescrive Il libro dei cinque anelli? L'Hagakure di Yamamoto Tsunemoto, del 1716, come Il libro dei 5 anelli di Miyamoto Musashi, del 1642, due raccolte sul diverso modo di intendere il Bushido, la "via", potrebbero aver influenzato i Lati della Forza lucasiana? Forse, ma torniamo al cinema. 
Dietro alla prima trilogia di Star Wars, quella definita ora "classica" c'era,  per ammissione dello stesso Lucas,  La fortezza nascosta di Kurosawa, una storia di guerra in cui il punto di vista narrativo era quello di piccoli-grandi eroi, con protagonisti membri della classe sociale dei "contadini", che prendevano la forma  per Lucas di buffi droidi, ma anche di giovani dal cuore puro (e per questo "nobili") in grado di diventare nuovi samurai sotto la guida di un bravo maestro.  La trilogia del 2000 recava ancora temi e colori di Kurosawa ma differenti, rileggeva le opere più guerresche, cariche di battaglie in campo aperto, dove le tensioni tra potere e discendenze esplodevano prima nelle teste e poi nei muscoli di samurai, che Lucas rileggeva come cavalieri Jedi, lungo percorsi lastricati di intrighi e duelli narrativamente a metà strada tra  Il trono di sangue e Ran. La trilogia recente di Star Wars voluta da Disney è se vogliamo ancora figlia di Kurosawa, riflette sul "tema dell'impostore" che sconvolge i giovani nel passaggio all'età adulta, la grande paura di non essere all'altezza delle aspettative degli altri, adulti  che li hanno già etichettati fornendogli una "maschera" e uno scopo, spesso per loro irraggiungibile. La nuova trilogia è un susseguirsi di predestinati il cui volto è imbrigliato in maschere che li sostengono nell'autorità, li fanno impazzire fino a volerle rompere e infine li spingono ad aggiustarle, e "aggiustarsi", seguendo la tecnica decorativa orientale del Kintusi: "riparare oggetti rotti con materiali che ne evidenzino le fratture ma le nobilitino, come un atto di "crescita", evidenziando le cicatrici che hanno forgiato la resilienza interiore (la resilienza è un termine oggi usato in psicologia ma che rimanda alla siderurgia, proprio alla forgiatura del metallo). Eroi che devono "crescere controvoglia", rompendosi e riparandosi di volta in volta, in ruoli più grandi di loro, sentendosi comunque sempre inadeguati, come nel classico Kagemusha - l'ombra del guerriero. 


- Lo spaghetti bounty Hunter: The Mandalorian ha pure lui, importanti ispirazioni al western. Nello specifico "spaghetti" con in cattedra Leone, laddove il Mandaloriano protagonista spesso e non a caso è chiamato "Mando", che suona come "Biondo", il modo con cui ci si rivolgeva all'eroe senza nome di Eastwood nella trilogia del dollaro, un uomo che può vivere solo il presente, senza passato ne futuro. Una ulteriore ispirazione "spaghetti" dei mandaloriani lucasiani discende poi da Corbucci, e non è un caso se un altro celebre Mandaloriano del passato si chiamava Django. Anche il nostro nuovo eroe di Disney+  vive ai margini, spesso ammaccato e sconfitto, spesso appiedato e dalla parte sbagliata della fortuna e della legge. Come l'antieroe di Corbucci si trascina dietro delle "bare", siano pure messe su un'astronave. Anti-eroi protagonisti di storie semplici ma spietate, piene di azione quanto fumetti, ambientati in un mondo sporco e malfamato, ma eccitante, come le taverne di Mos Eisley. Pistoleri che però solo apparentemente rimangono, per dirla alla Hawks, senza un dollaro d'onore. Perché anche in chi spara per primo a Sartana, come a Greedo, può sempre battere un animo affine a quello di un Samurai, come ci raccontava Terrence Young in Sole rosso, tratto da una storia vera.


- Il mandalorian con gli occhi a mandorla: The Mandalorian parimenti alle altre pellicole sopra citate ha un suo Kurosawa di riferimento, soprattutto nella seconda parte dell'opera, dove eroe e comprimari vengono riuniti, come i noti "sette samurai" del regista giapponese, per consacrarsi non al servizio di un Nobile/Daimyo ma dei più deboli, di un ideale. Sono Samurai decaduti, scoraggiati e difettosi in cerca di riscatto. La serie Disney è ambientata 5 anni dopo il Ritorno dello Jedi, i mandaloriani sono un culto di guerrieri il cui destino è legato al perseguimento di una via, come il Bushido, la via del samurai. Sono ugualmente riconoscibili tra la folla per un oggetto distintivo che portano con sé, una armatura che sostituisce in qualche modo la katana, accompagnata da un elmo che ne rende i tratti imperscrutabili. I mandaloriani erano una congrega dal passato grandioso che si dice abbiano pure "gonfiato i Jedi" e depredato il loro tempio. Ma sono decaduti dopo i tempi della Repubblica, momento in cui sono finiti per essere clonati per divenire la truppa indistinta dell'esercito imperiale, destino che toccò al mandaloriano Django Fett e non fu una geniale "operazione simpatia". Da lì questi tizi con casco in brevissimo tempo finirono per ridursi a sopravvivere come mercenari per qualche Gilda comandata da gangster vermoidi e ciccioni, dove finì Boba Fett, figlio di Django, prima di "finire del tutto", nello stomaco di Sarlack, trovando una morte indegna e sfigata. "Eroi loosers" come quei Samurai che Hollywood aveva già declinato in pistoleri falliti nei Magnifici 7 di Sturges e pure già declinato al fantasy in Magnifici 7 nello spazio di Corman. Ma la prima parte della serie The Mandalorian, la sua anima più profonda, richiama per me un'altra opera nota dell'estremo oriente, l'immortale serie TV Lone Wolf and Cub, giunta a noi italiani, guarda tu la combinazione, con il titolo Samurai. Il Lone Wolf, conosciuto anche con il nome di  Itto Ogami, era un samurai decaduto come decaduto è il mandaloriano di questa serie, interpretato dal Pedro Pascal  di Narcos. Il samurai decaduto medio non è troppo diverso dal mandaloriano decaduto medio, ma i protagonisti di Lone Wolf e di The Mandalorian hanno in comune qualcosa in più. Si portano dietro nel loro peregrinare per un mondo deserto e pericoloso un bambino "miracolosamente sopravvissuto" ("Daigoro", il nome del bambino di Itto Ogami nella serie, significa appunto questo nella traduzione), trascinandone rigorosamente la culla. È il bambino che diventa di fatto il nuovo Daimyo per entrambi, una nuova "nobiltà da servire", una ragione di riscatto, una "nuova speranza" per il futuro, quanto il principale selling point delle rispettive serie TV. Grazie a "quel bambino" le storie di questi guerrieri  diventano davvero interessanti, anche per chi non ama particolarmente le storie di guerrieri. 


- Il Baby Yoda: Ricordo mia madre nei primi anni novanta che mi preparava la colazione mentre in TV guardavo Samurai, che già replicavano da tempo immemore. Lei buttava ogni tanto lo sguardo allo schermo e diceva: "Ma sempre roba con gente che si mena, stai a vedere? Ma te solo robe di mostri e squartamenti vedi? Ma non c'è qualcosa di più interessante di... OOOOOH MAMMA MIA QUANTO È CARINO QUEL BIMBO CON GLI OCCHIONI, LA FRANGETTA, LE MANINE PAFFUTINE E IL SUO PIGIAMINO!!!!". 
Oggi, 2020, passa mia sorella dal soggiorno mentre guardo The Mandalorian e dice: "Ma sempre roba con gente che si mena, stai a vedere? Ma te solo robe di mostri e squartamenti vedi? Ma non c'è qualcosa di più interessante di... OOOOOH MAMMA MIA QUANTO È CARINO QUEL BIMBO VERDE CON GLI OCCHIONI, LE ORECCHIE GRANDI, LE MANINE PAFFUTINE E IL SUO PIGIAMINO!!!!". 
Il cosiddetto "Baby Yoda" è la ragione più onesta e spietata del mondo del successo di questa serie, come lo fu Daigoro per Lone Wolf and Cub. È una creatura pucciosa, dolcissima, indifesa, pelouccosa che da quando entra in scena si divora ogni cosa, catalizza su di lui ogni attenzione, diventando per buona parte del pubblico, o almeno per TUTTO il pubblico femminile mondiale, compreso e soprattutto quello a cui di Star Wars non è mai fregato una ceppa, LA ragione per non perdersi una puntata della serie. Baby Yoda fa i passettini, sorride, muove le orecchiucce, fa la faccina preoccupata, si fa prendere in braccio, gioca con una ranocchia spaziale, tiene in mano la pallina del "cambio dell'astronave" (avrà le marce?). A prescindere da qualsiasi cosa capiti su schermo, in genere robe "da nerd", quando appare Baby Yoda arrivano i boati del pubblico femminile mondiale. Prevedo che con il solo marchendising legato al Baby Yoda che Disney sta approntando, tra pupazzi, peluche et simila, potrebbe col ricavato nei prossimi mesi sostenersi un piccolo stato. Lucas aveva già provato la "strada pucciosa" del fantasy, ma aveva fallito. Qui forse Disney farà meglio.


- Perché Il Mandalorian "sì" e i due film sugli Ewok "no":  Bambini, micetti, cagnolini e pupazzi. Le più pericolose e letali "armi di distrazione di massa". Mettili in una pellicola e loro "esisteranno", saranno "perfetti" senza minimamente sforzarsi di recitare, anche solo lontanamente in modo decente, una parte qualsiasi. Sulle prime commuovono, dopo una mezz'ora di abuso incondizionato fanno saltare i nervi. Il novanta per cento degli attori-bambini sono a livello recitativo "orrore puro", che compensano in quel "tempo limite" con un taglio di capelli a scodella, un brutto sorriso sdentato e il modo di ciondolare da fermi che, sa solo Dio perché, inteneriscono il pubblico femminile. Uguale per cani e gatti, stesso incomprensibile successo assicurato sul pubblico femminile. Ne Il ritorno dello Jedi Lucas voleva a tutti i costi aggiornare questa regola non scritta di "successo incondizionato" ai pupazzi di Star Wars. La saga aveva già un folle numero di creature buffe e pucciose degne di diventare peluche, primi tra tutti i robottini e i cosetti "incappucciati del deserto", i buffi Jawa. Ma Lucas voleva di più, voleva la carie istantanea e il diabete, voleva che già al cinema un genitore fosse stressato a tal punto dai suoi figli da dover comprare un pupazzo di Star Wars entro le successive 10 ore per non assistere alla più tremenda e incontrollata crisi di pianto della sua storia familiare. Così Lucas crea gli orsetti venuti dall'inferno e momentaneamente collocati sulla luna boscosa di Endor. Dopo i primi trenta minuti da inizio pellicola (l'unica cosa che rivedo del dvd da anni, prima di stoppare), Il ritorno dello Jedi diventa una nemmeno troppo celata pantomima per vendere questi orsetti, diabolicamente spalmati sul limite massimo della sopportazione del puccioso. Lucas "conosce la regola", riesce ad alternare gli orsetti quel tanto che basta a non farci alzare dal cinema, usa diabolici stralci dello Star Wars "vero", tipo un paio di troopers ogni tanto o un breve dialogo davanti all'imperatore di Luke, ma non un secondo di più. C'è pure una scena indegna che stupra l'epicità dello scontro tra ribelli e Camminatori Imperiali de L'impero colpisce ancora, sacrificandola sull'altare di una brutta parodia della stessa a base Ewok. Il film, dopo averci dato 3 minuti scarsi di spade laser ultra-spalmati, un paio di piccoli inserti di scene di inseguimento nella morte nera da 5 minuti totali massimi e semi-riciclati, e qualcosa di mostruoso per ogni rispetto dei diritti umani, tipo 49 minuti insensati di Ewok pucciosi (percepiti 189 minuti), termina addirittura con tutti questi orsetti orribili che cantano rubando la scena ad ogni cosa (manco c'era la fantasia di creare qualcosa di diverso, nuovo o fico tipo un'altra Morte Nera, ma a metà, mannaggia a loro!!), con una tale cattiveria di intenti che lo stesso Lucas anni dopo, tornò sui suoi passi in segno di pentimento, eliminando almeno l'orrenda canzoncina di questi pelouche da picco glicemico. Ma negli anni '80, complice magari Jim Henson, Lucas era drogato da questa ossessione per 'sti orsacchiotti, aveva deciso di fare dell'ultima parte della prima trilogia un film sugli orsacchiotti, aveva poi girato due spin-off e pure una serie TV animata sempre con protagonisti 'sti cacchio di orsacchiotti. Anche lì ti piazzava due Ala X e proiettori olografici ogni 29 minuti e 58 secondi, per preservare la "sopportazione limite", trattando i fan come una specie di tossici in costante attesa che compaia un Jedi o anche solo un elmetto di trooper. Era un vero dramma a livello di contenuti, nonostante il valore produttivo di queste opere non fosse formalmente diminuito e si riscontrasse anzi molta cura, specie nella serie animata . Ma  Star Wars intanto, se non per qui tre che sbavavano per un paio di tute della resistenza ogni 29 minuti del "prodotto Star Wars medio", era diventato i fatto un brand per bambini molto piccoli  amanti degli orsetti e sarebbe ripartito agli inizi del duemila con le stesse tremende premesse, se non si fosse levato da fans e critica un "no" di dissenso pressoché unanime a creature digitali pupazzose come Jar Jar Binks ancora prima dei test-screen. Questo dramma dell'assurdo grazie a dio non succede in The Mandalorian come non è successo nei primi Star Wars per un motivo semplice: la storia sa includere gli elementi buffi e ingenui di una cosmologia variegata, come i robottini e i Jawa, senza asservire a loro tutta la narrazione. Ma anche per un motivo ancora più semplice: oggi di Star Wars si vende a prezzo pieno di tutto, non solo gli orsetti. Ogni tanto a tradimento compare una poiana spaziale, ma non diventa il nuovo pikachu. La chiave è l'equilibrio, laddove sbaglia anche chi nega, sul fronte opposto, per esasperazione, che Star Wars non dovrebbe avere alcuna deriva buffa o infantile. Si sbaglia allo stesso modo, perché si attribuisce alla saga una visione "parziale" che la saga non vuole avere. Oggi Disney produce, ma il target centrale del business non è mai cambiato ed è costituito dalle famiglie, a monte di timidissimi cambi di approccio "più adulti" offerti da pellicole come Rogue One e, secoli prima, da videogame come Tie Fighter, Dark Forces, Knights of The Old Repubblic. Chi odia i pupazzetti di Star Wars deve rassegnarsi all'idea che non se ne libererà mai, ma questa sorta di "allergia" viene mitigata in Mandalorian da una storia con un buon equilibrio di parti buffe e parti serie. Saper sviluppare bene questa formula, che potremmo leggere come una declinazione della sociologia spaziale di Gene Roddenberry,  è l'aspetto che più lega Star Wars a una delle opere a cui più palesemente si è ispirato, il fumetto Valerian. Ogni popolo della Galassia, così come ogni animale della terra, vive la sua vita seguendo le proprie esigenze e diventa interessante osservare cosa succede se specie diverse si incrociano sullo stesso terreno rispondendo a proprie logiche diverse. In episodio I, i Jedi si trovano su un sommergibile a forma di pesce per raggiungere una città acquatica dove trovare degli alleati anfibi per la popolazione di superficie di Bianchi caucasici contro la Gilda dei mercanti e il loro esercito di robot. Ma al contempo stanno in acqua con un sommergibile a forma di pesce e per questo dei pesci enormi cercano di mangiarli immaginandoli come un fish-burger. Ogni personaggio sulla scena ha i suoi obiettivi e questo vale pure per i pesci. È una metafora semplice, che riesce a cogliere anche un bambino e apre a molti ragionamenti interessanti. The Mandalorian è pieno di "sfide culturali" di questo tipo, laddove il nostro eroe, pur intento nella sua difficile e "seria" missione, si imbatte in creature che dal mondo vogliono cose diverse. Per avere i pezzi di ricambio per la sua astronave, magari deve trovare l'uovo di una creatura da barattate con qualcuno che è ghiotto di quell'uovo. Valerian trabocca di situazioni di questo tipo, mettendo in campo più fazioni di specie diverse che vogliono cose diverse, tanto intellettuali che primitive, contemporaneamente. Lucas con gli Ewok stoppava le guerre stellari con uno spot pubblicitario sugli orsetti Ewok che una volta iniziato non finiva mai, dove i diversi livelli narrativi non collimavano più, con i genitori che si sentivano di colpo presi in ostaggio dal popolo del fantabosco della Melevisione. Invece tenendo i livelli narrativi separati ma sempre presenti il genitore non scappa e il mondo femminile può interessarsi anche alle zone narrative non popolate da un pupazzo. 
Il target diventa così davvero "trasversale".
Qualcuno vedrà la storia come una fiaba, qualcuno come un western, qualcuno come le avventure di una creaturina, qualcuno come il dramma di un personaggio i cui sentimenti sono sempre celati da un elmo. Qualcuno amerà le astronavi, qualcuno gli animali buffi, qualcuno si interesserà alla mitologia alla base di queste storie. E tutti staranno vedendo lo stesso prodotto, godendolo, da lati diversi. Certo che per lavorare così, riuscendo a tenere insieme nella visione tutta la famiglia,  bisogna essere bravi. La vera verità ignorante per cui Baby Yoda batte gli Ewok? Perché è Yoda, e Yoda è un Muppet con dottorato di astrofisica e filosofia Jedi armato di spada laser. Non esiste niente di più figo sulla terra, anche se gli togli le rughe e gli metti gli occhioni del gatto con gli stivali dreamworks. 


- cast tecnico: non mi stupisce che Disney per questo progetto metta in campo dei registi che l'hanno resa grande al botteghino, specie nel recente, come il bravo Jon Favreau e il folle Taika Waititi. Uno dei primi lavori da regista di Favreau, molto attivo e amato anche come attore, è la favola Elf, uno dei film di Natale che va per la maggiore sotto le feste, amatissima in uguale misura dai bambini ed estimatori di Will Ferrell, la perfetta tesi della idea di cinema a target trasversale. Ha uno stile "caloroso", che per me riesce sempre a unire pubblico giovane e adulto fin dalla paletta cromatica. Conosce e utilizza toni ironici differenti, umorismo visivo per i più piccoli combinato a battute sottili per i più grandi. Sa poi mettere in scena un plus malinconico "alla Pixar", come dimostrano le sue opere piccole e graziose come Chef. Favreau è anche un regista molto tecnico, in gradi di maneggiare bene action ed effetti speciali. Non a caso è il regista del primo Iron Man (e seguito), da cui è nato il Marvel Cinematic Universe, nonché del nuovo adattamento del Libro della Giungla (nonché del successivo Il re leone), il film che ha fatto davvero fare il salto di qualità ai Disney Live Action. Il suo film più ingiustamente sfortunato, nonché quello che forse amo di più, è Cowboys & Aliens, co-prodotto con Spielberg, ma figlio di un "periodo nero" dei western revisionisti, che ha travolto anche il meritevole Lone Ranger di Verbinski. Con The Mandalorian torna per me a quella idea di western-fantasy, elaborandola come sceneggiatore di quasi tutte le puntate, nonché da produttore esecutivo della serie (mentre come regista stava rifinendo il Re Leone). Come in quell'ingiustamente sfortunato film, Favreau sceglie di portare sulla scena "più da Cowboys che Aliens", stare sul modello del western classico più che stupire con giochi di luce. Nonostante la bellezza degli effetti visivi, il fascino della storia risiede nei personaggi e nelle loro difficili relazioni, nel deserto e nella vita nelle città di frontiera "tra le stelle", dove la fantascienza c'è ma stravolge solo minimamente le regole di quello che possiamo trovare in un buon fumetto di  Tex (dove la fantascienza è al 99% al netto di un paio di alieni) o in un episodio di Galaxy Express (dove la parte fantascientifica non supera comunque sulla preponderante western di un 30%). C'è la sfida tra cacciatori di taglie, anche se uno è un robot. C'è da organizzare la fuga da una prigione, anche se la prigione è nello spazio. Ci sono dei contadini da salvare da dei pistoleri, anche se i pistoleri usano al posto di una mitragliatrice un camminatore imperiale e al posto dei cavalli ci sono degli Speeder. 
Waititi è una amabile scheggia pazza, un regista che ama trasformarsi in personaggio di fantasia come Frank Oz. Che sia un uomo di roccia (Thor Ragnarock), un Hitler/Peter Pan immaginato da un bambino (Jojo Rabbit) o un robot cacciatore di taglie con il volto simile ad una caffettiera, IG-11 (The Mandalorian), Waititi infonde sempre una profonda umanità a queste creature e si conferma un sempre bravo regista, dirigendo anche la fondamentale puntata finale di questa prima stagione. Oltre a Favreau e Waititi ci sono alte belle sorprese in cabina di regia. Come Dave Filoni, regista dello spettacolare episodio 1 (il mandaloriano) e del malinconico 5 (il pistolero) che dopo aver diretto molti episodi di Clone Wars e Star Wars Rebels si trova benissimo nel live action, al punto che ha co-creato con Favreau molti episodi ed è accreditato come co-papà del Baby Yoda. Molto bravo il regista nigeriano Rick Famuyiwa, autore dell'episodio più teneramente favolistico (il numero 2, il bambino) nonché di uno dei più spettacolari per sparatorie (il numero 6, il prigioniero). Deborah Chow, già regista per Better Call Saul e Mr Robot, dirige l'episodio che forse farà più sbavare i cosplayer e amanti dei pupazzi articolati con armature  (il capitolo 3, il peccato) e il pre-finale (capitolo 7, la resa dei conti). Bella sorpresa anche Bryce Dallas Howard, che come il papà prima di lei è passata dietro la macchina da presa dirigendo il capitolo 4 (il rifugio), forse uno dei più belli, per poetica e paesaggi, quello che ricorda di più i 7 Samurai. 
Gli effetti speciali non potevano che essere della Industral Light and Magic di Lucas, che per l'occasione ha aperto una filale che si occuperà anche delle prossime stagioni dello show. Anche se dispiace vedere nei titoli di coda quell'Unreal Engine 4 di Epic, segno che la gloriosa ILM ormai prende in appalto la tecnologia 3D che lei ha inventato. La colonna sonora, da favola, che utilizza in luogo del classico John Williams brani inediti, ma con tutto un gusto epico alla Basil Poledouris tra trombe e taburi di guerra che urla "Starship Troopers", è di Ludwig Gorannsson, che si è fatto già notare con Creed, Black Panther, Venom ed è stato scelto da Nolan per il suo nuovo e attesissimo Tenet.
La fotografia, che ha trasformato le scenografie sugli sfondi della California meridionale e il Cile in un deserto spaziale, è firmata da quel genio di Greig Fraser, già direttore per Zero Dark Thirty, Lion, presto in sala con il prossimo Dune di Villeneuve e The Batman di Reeves, nonché amatissimo dai fan di Star Wars per il pazzesco lavoro svolto in Rogue One


- Gli attori: Pedro Pascal, che dà corpo e voce al misterioso Mandalorian, è un attore bravo e tosto. Se avete visto Narcos vi ricorderete dell'agente DEA Javier Pena, duro e malinconico. Se avete visto Il trono di spade vi ricorderete forse del suo temibile Oberyn Martell. Al cinema oltre alla versatilità si è dimostrato un fenomeno anche nelle coreografie di combattimento, roteando lance e spade tra cavi wuxia in The Great Wall di Zhang Yimou e utilizzando con stile un lazzo da cowboy laser alternato ad un revolver in Kingsman: The golden circle. Ha già recitato un film con un casco in testa per tempo, l'ottimo thriller sci-fi Prospect, di Earl e Caldwell, ma almeno lì il volto si vedeva dietro a un oblò, mentre qui in Mandalorian la situazione "casco" è peggio, sia in termini visivi che espressivi. Forse è peggio  pure di quello che toccava fare a Peter Weller in Robocop, che doveva in più  recitare muovendo la bocca a scatti. Anche  se, a ripensarci, per Weller era comunque peggio, perché doveva in più muovere tutto il corpo lento e a scatti simulando ingranaggi innaturali in un costume pesantissimo e caldissimo. Diciamo che il fastidio di portare un casco così invalidante è pari a quello che è toccato fare a Fassbender in Frank, al netto della assenza di stunt, magari sulla linea di quanto ha subito Hugo Wearing in V per vendetta, lasciando la corona dei martiri dello spettacolo per "trucco assassino" a Weller. Insomma, Pascal qui in The Mandalorian è chiamato a interpretare un personaggio senza volto ma che deve essere al contempo molto espressivo, umano e malinconico quanto misterioso e autoritario. Deve pure saper picchiare come una specie di super eroe pieno di pose plastiche, usando più armi, avendo visione dell'azione quasi azzerata, con intralcio continuo di mantelli, armature e arpioni. Deve inoltre stare una marea di tempo a giocare con personaggi immaginari in green screen, tra cui delle dino-mucche da cavalcare, che saranno solo in seguito aggiunti in post produzione. Insomma, il peggio del peggio, la difficoltà omega nel risultare credibile e adeguato e non "power ranger", il problema  eterno di dover esprimere sentimenti solo potendo fare uso del "collo", con cui inclinare leggermente la testa e poco più, senza uscire da una posa plastica. Potrebbe usare le mani per gesticolare qualcosa, ma per la maggior parte del tempo gli tocca brandire qualche arma, spesso gigante o complicatissima da gestire, come il lanciafiamme da polso. Risultato? Pazzesco, Pascal è bravissimo. Ci si riesce davvero ad affezionare al suo personaggio, sa muoversi con grazia e combattere come un ballerino. Il mandaloriano è un personaggio unico nel suo genere e memorabile, pieno di umanità e carisma al netto di una armatura che, almeno all'inizio, appare piuttosto anonima, perfino più bruttina di quelle di Django e Boba. È un grande lavoro di mimo quello che aiuta decisivamente alla resa complessiva del personaggio. 
C'è poi il Baby Yoda, di cui ho già accennato sopra. Non ho ancora chiaro quanto sia digitale o animatronico, ma è bellissimo, riesce a rubare la scena anche solo sollevando di tanto in tanto le orecchiucce verdi, ha degli occhi liquidi, profondi, una espressione buffa ma che sa diventare pensosa. Per riflesso, si può dire che più ci appare umano il Baby Yoda, più diventa ulteriormente umana ai nostri occhi la recitazione tutta fatta in sottrazione di Mandalorian, che riesce a enfatizzare  semplici gesti "mimici" di interazione come sollevare il piccolo da terra, coprirlo, offrirgli ogni tanto una pallina con cui giocare. 
Carl "Apollo Creed" Weathers interpreta un enigmatico trafficone di nome Greef Karga, che per molti aspetti richiama Lando Calrissian. Weathers ha una faccia da buono che non finisce più, ma qui riesce a essere insidioso e ambiguo come in Predator ed il suo character è molto riuscito. Nick Nolte da voce a un Ugnaught di nome Kuill, uno dei personaggi più complessi e affascinanti della serie, la wrestler Gina Carano è invece una specie di amazzone di nome Cara Dune, splendida, ironica e come uscita direttamente da un gioco di ruolo fantasy anni '80. Datemi Red Sonya con lei protagonista e il Grande Khali come Yago. 
Ci sono molti altri personaggi, ma credo che avranno una parte più consistente nelle prossime stagioni della serie.

- Finale: un cavaliere in armatura silenzioso e risoluto il cui volto è coperto da un elmo, come gli oscuri cavalieri di Dark Souls, diviene un empatico e generoso anti-eroe dopo l'incontro fortuito con un bambino. Insieme partono per un viaggio che alle volte ha i contorni della fiaba, come spesso, ma nei dettagli, ha il sapore amaro della guerra e della sconfitta. Visivamente magnifico, accompagnato da una bella colonna sonora, con un ottimo cast e registi che hanno saputo raccontare al meglio e con personalità le singole storie, The Mandalorian è la più bella e gradita delle sorprese del canale streaming Disney+. Un'ottima occasione per vedere una serie adatta a tutta la famiglia e che sa accattivarsi più sezioni di pubblico grazie a una trama stratificata e appagante per ogni fascia di età. Si rischia l'acquisto compulsivo dei mille gadget che presto inonderanno il mercato, primo tra tutti il peluche di Baby Yoda, ma è un piccolo scotto da pagare in relazione a prodotti così bene confezionati. Quasi otto ore da sogno. 
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