lunedì 4 maggio 2020

The Mandalorian - la nostra recensione della prima stagione completa


- Premessa: purtroppo le puntate sono finite, questa serie mi mancherà davvero. È stato uno degli appuntamenti settimanali immancabili di questo periodo di quarantena, insieme a Hunters su Amazon Prime. Mi sono ritrovato a guardare un telefilm dalla trama semplice ma carica di sfumature, che probabilmente da bambino avrei amato alla follia. Mi rincuora sapere che già per ottobre sia prevista una seconda stagione, con la numero 3 già in pre-produzione da questo aprile. Per me questo è il modo giusto di celebrare i molti mondi possibili dell'universo di Star Wars. Tra un baby Yoda e un inseguimento con gli speeder, tra i jawa e i robot mercenari sono tornato un po' bambino ed è stato bello, perché ho visto pure che lo spettacolo era atteso e gradito anche a miei amici che non hanno mai amato particolarmente Star Wars. Volevo quindi parlarvene un po', ma procediamo con ordine.


- Questa è la via: il culto dei mandaloriani impone di diventare i migliori combattenti delle galassia  e di indossare per sempre sul proprio volto un elmo e sul corpo una corazza. I mandaloriani vivono per acquisire un metallo prezioso con cui elaborare la loro armatura, raccontandolo sulla sua superficie il loro valore e scavandone tra le pieghe infiniti congegni per ampliare la propria letalità. Un tempo considerati pari dei re, oggi i mandaloriani, a cinque anni dalla caduta dell'impero, strisciano tra i bassifondi delle taverne come cacciatori di taglie, nell'unica e smodata ricerca di quella lega preziosa con cui scrivere la propria storia e valore sul loro acciaio.
Un mandaloriano senza nome arriva così sul punto di intraprendere un nuovo contratto, il recupero di un oggetto misterioso e molto ambito da persone pericolose. Solo che quell'oggetto si schiude, rivelandosi la culla di un bambino di una specie sconosciuta, forse estinta. Il guerriero incasserà la taglia passando a una nuova missione? 


- Lo spazio è "di tutti", "quindi è "pop": Le Guerre Stellari sognate da George Lucas, scritte su un quaderno dai figli giallo insieme ad American Graffiti, rappresentano a oggi una sintesi perfetta della cultura pop del '900. Tanto perfetta da generare, nelle mille declinazioni con cui sono esplose mediaticamente, materiale iconico, di moda e stile. Nella cattedrale di San Pietro e Paolo a Washington DC tra i doccioni o "Gargoyles" a difesa delle mura, ce n'è uno con l'elmo di Darth Vader. Come ogni opera di sintesi, Star Wars ha pescato ovunque. Nella sua ricetta magica c'è dentro la fantascienza di carta fatta di pianeti lontani, creature strane e grottesche, dittatori  e astronavi, che ha dipinto le storie di Flash Gordon, John Carter, Buck Rogers, Valerian. Ma in Star Wars si trova pure il western, dai paesaggi di Ford agli antieroi di Hawks, passando per i pistoleri senza nome di Leone. Se scaviamo nel suo cuore troviamo l'avventura classica di Dumas, tra La maschera di ferro e Il conte di Montecristo. Qualcuno nel magma lucasiano ritrova Asimov e i suoi protocolli per le intelligenze sintetiche, qualcuno vede le integrazioni multi-razziali care a Roddenberry. Ci trovi in fondo "tutto quello che vuoi" in Star Wars, compresa la seconda guerra mondiale, perché è un'opera che maneggia temi universali, potenti, ma questo non è che la cornice. La vera cifra della saga, ciò che la rende un prodotto unico e amato, è nel modo di raccontare questi temi, vicini e distanti, con il garbo e il cuore di una fiaba. 
C'è ovviamente anche molto cinema dell'oriente in Star Wars, come c'è molta filosofia orientale alla base dei suoi personaggi. Per me partire dall'Oriente è forse uno dei modi più stimolanti per approcciarsi a Star Wars, anche perché è da quello stesso oriente che è nato un genere come gli spaghetti western tra cui figurano i capolavori di Leone ho impressi nel DNA fin dall'infanzia.


- Katane Laser: Cos'è forse un Jedi, se non un moderno samurai che segue una propria Via della Spada, teso tra il "servire la nobiltà come potere" come impone l'Hagakure o il "servire la nobiltà che ogni vita sulla terra possiede" come prescrive Il libro dei cinque anelli? L'Hagakure di Yamamoto Tsunemoto, del 1716, come Il libro dei 5 anelli di Miyamoto Musashi, del 1642, due raccolte sul diverso modo di intendere il Bushido, la "via", potrebbero aver influenzato i Lati della Forza lucasiana? Forse, ma torniamo al cinema. 
Dietro alla prima trilogia di Star Wars, quella definita ora "classica" c'era,  per ammissione dello stesso Lucas,  La fortezza nascosta di Kurosawa, una storia di guerra in cui il punto di vista narrativo era quello di piccoli-grandi eroi, con protagonisti membri della classe sociale dei "contadini", che prendevano la forma  per Lucas di buffi droidi, ma anche di giovani dal cuore puro (e per questo "nobili") in grado di diventare nuovi samurai sotto la guida di un bravo maestro.  La trilogia del 2000 recava ancora temi e colori di Kurosawa ma differenti, rileggeva le opere più guerresche, cariche di battaglie in campo aperto, dove le tensioni tra potere e discendenze esplodevano prima nelle teste e poi nei muscoli di samurai, che Lucas rileggeva come cavalieri Jedi, lungo percorsi lastricati di intrighi e duelli narrativamente a metà strada tra  Il trono di sangue e Ran. La trilogia recente di Star Wars voluta da Disney è se vogliamo ancora figlia di Kurosawa, riflette sul "tema dell'impostore" che sconvolge i giovani nel passaggio all'età adulta, la grande paura di non essere all'altezza delle aspettative degli altri, adulti  che li hanno già etichettati fornendogli una "maschera" e uno scopo, spesso per loro irraggiungibile. La nuova trilogia è un susseguirsi di predestinati il cui volto è imbrigliato in maschere che li sostengono nell'autorità, li fanno impazzire fino a volerle rompere e infine li spingono ad aggiustarle, e "aggiustarsi", seguendo la tecnica decorativa orientale del Kintusi: "riparare oggetti rotti con materiali che ne evidenzino le fratture ma le nobilitino, come un atto di "crescita", evidenziando le cicatrici che hanno forgiato la resilienza interiore (la resilienza è un termine oggi usato in psicologia ma che rimanda alla siderurgia, proprio alla forgiatura del metallo). Eroi che devono "crescere controvoglia", rompendosi e riparandosi di volta in volta, in ruoli più grandi di loro, sentendosi comunque sempre inadeguati, come nel classico Kagemusha - l'ombra del guerriero. 


- Lo spaghetti bounty Hunter: The Mandalorian ha pure lui, importanti ispirazioni al western. Nello specifico "spaghetti" con in cattedra Leone, laddove il Mandaloriano protagonista spesso e non a caso è chiamato "Mando", che suona come "Biondo", il modo con cui ci si rivolgeva all'eroe senza nome di Eastwood nella trilogia del dollaro, un uomo che può vivere solo il presente, senza passato ne futuro. Una ulteriore ispirazione "spaghetti" dei mandaloriani lucasiani discende poi da Corbucci, e non è un caso se un altro celebre Mandaloriano del passato si chiamava Django. Anche il nostro nuovo eroe di Disney+  vive ai margini, spesso ammaccato e sconfitto, spesso appiedato e dalla parte sbagliata della fortuna e della legge. Come l'antieroe di Corbucci si trascina dietro delle "bare", siano pure messe su un'astronave. Anti-eroi protagonisti di storie semplici ma spietate, piene di azione quanto fumetti, ambientati in un mondo sporco e malfamato, ma eccitante, come le taverne di Mos Eisley. Pistoleri che però solo apparentemente rimangono, per dirla alla Hawks, senza un dollaro d'onore. Perché anche in chi spara per primo a Sartana, come a Greedo, può sempre battere un animo affine a quello di un Samurai, come ci raccontava Terrence Young in Sole rosso, tratto da una storia vera.


- Il mandalorian con gli occhi a mandorla: The Mandalorian parimenti alle altre pellicole sopra citate ha un suo Kurosawa di riferimento, soprattutto nella seconda parte dell'opera, dove eroe e comprimari vengono riuniti, come i noti "sette samurai" del regista giapponese, per consacrarsi non al servizio di un Nobile/Daimyo ma dei più deboli, di un ideale. Sono Samurai decaduti, scoraggiati e difettosi in cerca di riscatto. La serie Disney è ambientata 5 anni dopo il Ritorno dello Jedi, i mandaloriani sono un culto di guerrieri il cui destino è legato al perseguimento di una via, come il Bushido, la via del samurai. Sono ugualmente riconoscibili tra la folla per un oggetto distintivo che portano con sé, una armatura che sostituisce in qualche modo la katana, accompagnata da un elmo che ne rende i tratti imperscrutabili. I mandaloriani erano una congrega dal passato grandioso che si dice abbiano pure "gonfiato i Jedi" e depredato il loro tempio. Ma sono decaduti dopo i tempi della Repubblica, momento in cui sono finiti per essere clonati per divenire la truppa indistinta dell'esercito imperiale, destino che toccò al mandaloriano Django Fett e non fu una geniale "operazione simpatia". Da lì questi tizi con casco in brevissimo tempo finirono per ridursi a sopravvivere come mercenari per qualche Gilda comandata da gangster vermoidi e ciccioni, dove finì Boba Fett, figlio di Django, prima di "finire del tutto", nello stomaco di Sarlack, trovando una morte indegna e sfigata. "Eroi loosers" come quei Samurai che Hollywood aveva già declinato in pistoleri falliti nei Magnifici 7 di Sturges e pure già declinato al fantasy in Magnifici 7 nello spazio di Corman. Ma la prima parte della serie The Mandalorian, la sua anima più profonda, richiama per me un'altra opera nota dell'estremo oriente, l'immortale serie TV Lone Wolf and Cub, giunta a noi italiani, guarda tu la combinazione, con il titolo Samurai. Il Lone Wolf, conosciuto anche con il nome di  Itto Ogami, era un samurai decaduto come decaduto è il mandaloriano di questa serie, interpretato dal Pedro Pascal  di Narcos. Il samurai decaduto medio non è troppo diverso dal mandaloriano decaduto medio, ma i protagonisti di Lone Wolf e di The Mandalorian hanno in comune qualcosa in più. Si portano dietro nel loro peregrinare per un mondo deserto e pericoloso un bambino "miracolosamente sopravvissuto" ("Daigoro", il nome del bambino di Itto Ogami nella serie, significa appunto questo nella traduzione), trascinandone rigorosamente la culla. È il bambino che diventa di fatto il nuovo Daimyo per entrambi, una nuova "nobiltà da servire", una ragione di riscatto, una "nuova speranza" per il futuro, quanto il principale selling point delle rispettive serie TV. Grazie a "quel bambino" le storie di questi guerrieri  diventano davvero interessanti, anche per chi non ama particolarmente le storie di guerrieri. 


- Il Baby Yoda: Ricordo mia madre nei primi anni novanta che mi preparava la colazione mentre in TV guardavo Samurai, che già replicavano da tempo immemore. Lei buttava ogni tanto lo sguardo allo schermo e diceva: "Ma sempre roba con gente che si mena, stai a vedere? Ma te solo robe di mostri e squartamenti vedi? Ma non c'è qualcosa di più interessante di... OOOOOH MAMMA MIA QUANTO È CARINO QUEL BIMBO CON GLI OCCHIONI, LA FRANGETTA, LE MANINE PAFFUTINE E IL SUO PIGIAMINO!!!!". 
Oggi, 2020, passa mia sorella dal soggiorno mentre guardo The Mandalorian e dice: "Ma sempre roba con gente che si mena, stai a vedere? Ma te solo robe di mostri e squartamenti vedi? Ma non c'è qualcosa di più interessante di... OOOOOH MAMMA MIA QUANTO È CARINO QUEL BIMBO VERDE CON GLI OCCHIONI, LE ORECCHIE GRANDI, LE MANINE PAFFUTINE E IL SUO PIGIAMINO!!!!". 
Il cosiddetto "Baby Yoda" è la ragione più onesta e spietata del mondo del successo di questa serie, come lo fu Daigoro per Lone Wolf and Cub. È una creatura pucciosa, dolcissima, indifesa, pelouccosa che da quando entra in scena si divora ogni cosa, catalizza su di lui ogni attenzione, diventando per buona parte del pubblico, o almeno per TUTTO il pubblico femminile mondiale, compreso e soprattutto quello a cui di Star Wars non è mai fregato una ceppa, LA ragione per non perdersi una puntata della serie. Baby Yoda fa i passettini, sorride, muove le orecchiucce, fa la faccina preoccupata, si fa prendere in braccio, gioca con una ranocchia spaziale, tiene in mano la pallina del "cambio dell'astronave" (avrà le marce?). A prescindere da qualsiasi cosa capiti su schermo, in genere robe "da nerd", quando appare Baby Yoda arrivano i boati del pubblico femminile mondiale. Prevedo che con il solo marchendising legato al Baby Yoda che Disney sta approntando, tra pupazzi, peluche et simila, potrebbe col ricavato nei prossimi mesi sostenersi un piccolo stato. Lucas aveva già provato la "strada pucciosa" del fantasy, ma aveva fallito. Qui forse Disney farà meglio.


- Perché Il Mandalorian "sì" e i due film sugli Ewok "no":  Bambini, micetti, cagnolini e pupazzi. Le più pericolose e letali "armi di distrazione di massa". Mettili in una pellicola e loro "esisteranno", saranno "perfetti" senza minimamente sforzarsi di recitare, anche solo lontanamente in modo decente, una parte qualsiasi. Sulle prime commuovono, dopo una mezz'ora di abuso incondizionato fanno saltare i nervi. Il novanta per cento degli attori-bambini sono a livello recitativo "orrore puro", che compensano in quel "tempo limite" con un taglio di capelli a scodella, un brutto sorriso sdentato e il modo di ciondolare da fermi che, sa solo Dio perché, inteneriscono il pubblico femminile. Uguale per cani e gatti, stesso incomprensibile successo assicurato sul pubblico femminile. Ne Il ritorno dello Jedi Lucas voleva a tutti i costi aggiornare questa regola non scritta di "successo incondizionato" ai pupazzi di Star Wars. La saga aveva già un folle numero di creature buffe e pucciose degne di diventare peluche, primi tra tutti i robottini e i cosetti "incappucciati del deserto", i buffi Jawa. Ma Lucas voleva di più, voleva la carie istantanea e il diabete, voleva che già al cinema un genitore fosse stressato a tal punto dai suoi figli da dover comprare un pupazzo di Star Wars entro le successive 10 ore per non assistere alla più tremenda e incontrollata crisi di pianto della sua storia familiare. Così Lucas crea gli orsetti venuti dall'inferno e momentaneamente collocati sulla luna boscosa di Endor. Dopo i primi trenta minuti da inizio pellicola (l'unica cosa che rivedo del dvd da anni, prima di stoppare), Il ritorno dello Jedi diventa una nemmeno troppo celata pantomima per vendere questi orsetti, diabolicamente spalmati sul limite massimo della sopportazione del puccioso. Lucas "conosce la regola", riesce ad alternare gli orsetti quel tanto che basta a non farci alzare dal cinema, usa diabolici stralci dello Star Wars "vero", tipo un paio di troopers ogni tanto o un breve dialogo davanti all'imperatore di Luke, ma non un secondo di più. C'è pure una scena indegna che stupra l'epicità dello scontro tra ribelli e Camminatori Imperiali de L'impero colpisce ancora, sacrificandola sull'altare di una brutta parodia della stessa a base Ewok. Il film, dopo averci dato 3 minuti scarsi di spade laser ultra-spalmati, un paio di piccoli inserti di scene di inseguimento nella morte nera da 5 minuti totali massimi e semi-riciclati, e qualcosa di mostruoso per ogni rispetto dei diritti umani, tipo 49 minuti insensati di Ewok pucciosi (percepiti 189 minuti), termina addirittura con tutti questi orsetti orribili che cantano rubando la scena ad ogni cosa (manco c'era la fantasia di creare qualcosa di diverso, nuovo o fico tipo un'altra Morte Nera, ma a metà, mannaggia a loro!!), con una tale cattiveria di intenti che lo stesso Lucas anni dopo, tornò sui suoi passi in segno di pentimento, eliminando almeno l'orrenda canzoncina di questi pelouche da picco glicemico. Ma negli anni '80, complice magari Jim Henson, Lucas era drogato da questa ossessione per 'sti orsacchiotti, aveva deciso di fare dell'ultima parte della prima trilogia un film sugli orsacchiotti, aveva poi girato due spin-off e pure una serie TV animata sempre con protagonisti 'sti cacchio di orsacchiotti. Anche lì ti piazzava due Ala X e proiettori olografici ogni 29 minuti e 58 secondi, per preservare la "sopportazione limite", trattando i fan come una specie di tossici in costante attesa che compaia un Jedi o anche solo un elmetto di trooper. Era un vero dramma a livello di contenuti, nonostante il valore produttivo di queste opere non fosse formalmente diminuito e si riscontrasse anzi molta cura, specie nella serie animata . Ma  Star Wars intanto, se non per qui tre che sbavavano per un paio di tute della resistenza ogni 29 minuti del "prodotto Star Wars medio", era diventato i fatto un brand per bambini molto piccoli  amanti degli orsetti e sarebbe ripartito agli inizi del duemila con le stesse tremende premesse, se non si fosse levato da fans e critica un "no" di dissenso pressoché unanime a creature digitali pupazzose come Jar Jar Binks ancora prima dei test-screen. Questo dramma dell'assurdo grazie a dio non succede in The Mandalorian come non è successo nei primi Star Wars per un motivo semplice: la storia sa includere gli elementi buffi e ingenui di una cosmologia variegata, come i robottini e i Jawa, senza asservire a loro tutta la narrazione. Ma anche per un motivo ancora più semplice: oggi di Star Wars si vende a prezzo pieno di tutto, non solo gli orsetti. Ogni tanto a tradimento compare una poiana spaziale, ma non diventa il nuovo pikachu. La chiave è l'equilibrio, laddove sbaglia anche chi nega, sul fronte opposto, per esasperazione, che Star Wars non dovrebbe avere alcuna deriva buffa o infantile. Si sbaglia allo stesso modo, perché si attribuisce alla saga una visione "parziale" che la saga non vuole avere. Oggi Disney produce, ma il target centrale del business non è mai cambiato ed è costituito dalle famiglie, a monte di timidissimi cambi di approccio "più adulti" offerti da pellicole come Rogue One e, secoli prima, da videogame come Tie Fighter, Dark Forces, Knights of The Old Repubblic. Chi odia i pupazzetti di Star Wars deve rassegnarsi all'idea che non se ne libererà mai, ma questa sorta di "allergia" viene mitigata in Mandalorian da una storia con un buon equilibrio di parti buffe e parti serie. Saper sviluppare bene questa formula, che potremmo leggere come una declinazione della sociologia spaziale di Gene Roddenberry,  è l'aspetto che più lega Star Wars a una delle opere a cui più palesemente si è ispirato, il fumetto Valerian. Ogni popolo della Galassia, così come ogni animale della terra, vive la sua vita seguendo le proprie esigenze e diventa interessante osservare cosa succede se specie diverse si incrociano sullo stesso terreno rispondendo a proprie logiche diverse. In episodio I, i Jedi si trovano su un sommergibile a forma di pesce per raggiungere una città acquatica dove trovare degli alleati anfibi per la popolazione di superficie di Bianchi caucasici contro la Gilda dei mercanti e il loro esercito di robot. Ma al contempo stanno in acqua con un sommergibile a forma di pesce e per questo dei pesci enormi cercano di mangiarli immaginandoli come un fish-burger. Ogni personaggio sulla scena ha i suoi obiettivi e questo vale pure per i pesci. È una metafora semplice, che riesce a cogliere anche un bambino e apre a molti ragionamenti interessanti. The Mandalorian è pieno di "sfide culturali" di questo tipo, laddove il nostro eroe, pur intento nella sua difficile e "seria" missione, si imbatte in creature che dal mondo vogliono cose diverse. Per avere i pezzi di ricambio per la sua astronave, magari deve trovare l'uovo di una creatura da barattate con qualcuno che è ghiotto di quell'uovo. Valerian trabocca di situazioni di questo tipo, mettendo in campo più fazioni di specie diverse che vogliono cose diverse, tanto intellettuali che primitive, contemporaneamente. Lucas con gli Ewok stoppava le guerre stellari con uno spot pubblicitario sugli orsetti Ewok che una volta iniziato non finiva mai, dove i diversi livelli narrativi non collimavano più, con i genitori che si sentivano di colpo presi in ostaggio dal popolo del fantabosco della Melevisione. Invece tenendo i livelli narrativi separati ma sempre presenti il genitore non scappa e il mondo femminile può interessarsi anche alle zone narrative non popolate da un pupazzo. 
Il target diventa così davvero "trasversale".
Qualcuno vedrà la storia come una fiaba, qualcuno come un western, qualcuno come le avventure di una creaturina, qualcuno come il dramma di un personaggio i cui sentimenti sono sempre celati da un elmo. Qualcuno amerà le astronavi, qualcuno gli animali buffi, qualcuno si interesserà alla mitologia alla base di queste storie. E tutti staranno vedendo lo stesso prodotto, godendolo, da lati diversi. Certo che per lavorare così, riuscendo a tenere insieme nella visione tutta la famiglia,  bisogna essere bravi. La vera verità ignorante per cui Baby Yoda batte gli Ewok? Perché è Yoda, e Yoda è un Muppet con dottorato di astrofisica e filosofia Jedi armato di spada laser. Non esiste niente di più figo sulla terra, anche se gli togli le rughe e gli metti gli occhioni del gatto con gli stivali dreamworks. 


- cast tecnico: non mi stupisce che Disney per questo progetto metta in campo dei registi che l'hanno resa grande al botteghino, specie nel recente, come il bravo Jon Favreau e il folle Taika Waititi. Uno dei primi lavori da regista di Favreau, molto attivo e amato anche come attore, è la favola Elf, uno dei film di Natale che va per la maggiore sotto le feste, amatissima in uguale misura dai bambini ed estimatori di Will Ferrell, la perfetta tesi della idea di cinema a target trasversale. Ha uno stile "caloroso", che per me riesce sempre a unire pubblico giovane e adulto fin dalla paletta cromatica. Conosce e utilizza toni ironici differenti, umorismo visivo per i più piccoli combinato a battute sottili per i più grandi. Sa poi mettere in scena un plus malinconico "alla Pixar", come dimostrano le sue opere piccole e graziose come Chef. Favreau è anche un regista molto tecnico, in gradi di maneggiare bene action ed effetti speciali. Non a caso è il regista del primo Iron Man (e seguito), da cui è nato il Marvel Cinematic Universe, nonché del nuovo adattamento del Libro della Giungla (nonché del successivo Il re leone), il film che ha fatto davvero fare il salto di qualità ai Disney Live Action. Il suo film più ingiustamente sfortunato, nonché quello che forse amo di più, è Cowboys & Aliens, co-prodotto con Spielberg, ma figlio di un "periodo nero" dei western revisionisti, che ha travolto anche il meritevole Lone Ranger di Verbinski. Con The Mandalorian torna per me a quella idea di western-fantasy, elaborandola come sceneggiatore di quasi tutte le puntate, nonché da produttore esecutivo della serie (mentre come regista stava rifinendo il Re Leone). Come in quell'ingiustamente sfortunato film, Favreau sceglie di portare sulla scena "più da Cowboys che Aliens", stare sul modello del western classico più che stupire con giochi di luce. Nonostante la bellezza degli effetti visivi, il fascino della storia risiede nei personaggi e nelle loro difficili relazioni, nel deserto e nella vita nelle città di frontiera "tra le stelle", dove la fantascienza c'è ma stravolge solo minimamente le regole di quello che possiamo trovare in un buon fumetto di  Tex (dove la fantascienza è al 99% al netto di un paio di alieni) o in un episodio di Galaxy Express (dove la parte fantascientifica non supera comunque sulla preponderante western di un 30%). C'è la sfida tra cacciatori di taglie, anche se uno è un robot. C'è da organizzare la fuga da una prigione, anche se la prigione è nello spazio. Ci sono dei contadini da salvare da dei pistoleri, anche se i pistoleri usano al posto di una mitragliatrice un camminatore imperiale e al posto dei cavalli ci sono degli Speeder. 
Waititi è una amabile scheggia pazza, un regista che ama trasformarsi in personaggio di fantasia come Frank Oz. Che sia un uomo di roccia (Thor Ragnarock), un Hitler/Peter Pan immaginato da un bambino (Jojo Rabbit) o un robot cacciatore di taglie con il volto simile ad una caffettiera, IG-11 (The Mandalorian), Waititi infonde sempre una profonda umanità a queste creature e si conferma un sempre bravo regista, dirigendo anche la fondamentale puntata finale di questa prima stagione. Oltre a Favreau e Waititi ci sono alte belle sorprese in cabina di regia. Come Dave Filoni, regista dello spettacolare episodio 1 (il mandaloriano) e del malinconico 5 (il pistolero) che dopo aver diretto molti episodi di Clone Wars e Star Wars Rebels si trova benissimo nel live action, al punto che ha co-creato con Favreau molti episodi ed è accreditato come co-papà del Baby Yoda. Molto bravo il regista nigeriano Rick Famuyiwa, autore dell'episodio più teneramente favolistico (il numero 2, il bambino) nonché di uno dei più spettacolari per sparatorie (il numero 6, il prigioniero). Deborah Chow, già regista per Better Call Saul e Mr Robot, dirige l'episodio che forse farà più sbavare i cosplayer e amanti dei pupazzi articolati con armature  (il capitolo 3, il peccato) e il pre-finale (capitolo 7, la resa dei conti). Bella sorpresa anche Bryce Dallas Howard, che come il papà prima di lei è passata dietro la macchina da presa dirigendo il capitolo 4 (il rifugio), forse uno dei più belli, per poetica e paesaggi, quello che ricorda di più i 7 Samurai. 
Gli effetti speciali non potevano che essere della Industral Light and Magic di Lucas, che per l'occasione ha aperto una filale che si occuperà anche delle prossime stagioni dello show. Anche se dispiace vedere nei titoli di coda quell'Unreal Engine 4 di Epic, segno che la gloriosa ILM ormai prende in appalto la tecnologia 3D che lei ha inventato. La colonna sonora, da favola, che utilizza in luogo del classico John Williams brani inediti, ma con tutto un gusto epico alla Basil Poledouris tra trombe e taburi di guerra che urla "Starship Troopers", è di Ludwig Gorannsson, che si è fatto già notare con Creed, Black Panther, Venom ed è stato scelto da Nolan per il suo nuovo e attesissimo Tenet.
La fotografia, che ha trasformato le scenografie sugli sfondi della California meridionale e il Cile in un deserto spaziale, è firmata da quel genio di Greig Fraser, già direttore per Zero Dark Thirty, Lion, presto in sala con il prossimo Dune di Villeneuve e The Batman di Reeves, nonché amatissimo dai fan di Star Wars per il pazzesco lavoro svolto in Rogue One


- Gli attori: Pedro Pascal, che dà corpo e voce al misterioso Mandalorian, è un attore bravo e tosto. Se avete visto Narcos vi ricorderete dell'agente DEA Javier Pena, duro e malinconico. Se avete visto Il trono di spade vi ricorderete forse del suo temibile Oberyn Martell. Al cinema oltre alla versatilità si è dimostrato un fenomeno anche nelle coreografie di combattimento, roteando lance e spade tra cavi wuxia in The Great Wall di Zhang Yimou e utilizzando con stile un lazzo da cowboy laser alternato ad un revolver in Kingsman: The golden circle. Ha già recitato un film con un casco in testa per tempo, l'ottimo thriller sci-fi Prospect, di Earl e Caldwell, ma almeno lì il volto si vedeva dietro a un oblò, mentre qui in Mandalorian la situazione "casco" è peggio, sia in termini visivi che espressivi. Forse è peggio  pure di quello che toccava fare a Peter Weller in Robocop, che doveva in più  recitare muovendo la bocca a scatti. Anche  se, a ripensarci, per Weller era comunque peggio, perché doveva in più muovere tutto il corpo lento e a scatti simulando ingranaggi innaturali in un costume pesantissimo e caldissimo. Diciamo che il fastidio di portare un casco così invalidante è pari a quello che è toccato fare a Fassbender in Frank, al netto della assenza di stunt, magari sulla linea di quanto ha subito Hugo Wearing in V per vendetta, lasciando la corona dei martiri dello spettacolo per "trucco assassino" a Weller. Insomma, Pascal qui in The Mandalorian è chiamato a interpretare un personaggio senza volto ma che deve essere al contempo molto espressivo, umano e malinconico quanto misterioso e autoritario. Deve pure saper picchiare come una specie di super eroe pieno di pose plastiche, usando più armi, avendo visione dell'azione quasi azzerata, con intralcio continuo di mantelli, armature e arpioni. Deve inoltre stare una marea di tempo a giocare con personaggi immaginari in green screen, tra cui delle dino-mucche da cavalcare, che saranno solo in seguito aggiunti in post produzione. Insomma, il peggio del peggio, la difficoltà omega nel risultare credibile e adeguato e non "power ranger", il problema  eterno di dover esprimere sentimenti solo potendo fare uso del "collo", con cui inclinare leggermente la testa e poco più, senza uscire da una posa plastica. Potrebbe usare le mani per gesticolare qualcosa, ma per la maggior parte del tempo gli tocca brandire qualche arma, spesso gigante o complicatissima da gestire, come il lanciafiamme da polso. Risultato? Pazzesco, Pascal è bravissimo. Ci si riesce davvero ad affezionare al suo personaggio, sa muoversi con grazia e combattere come un ballerino. Il mandaloriano è un personaggio unico nel suo genere e memorabile, pieno di umanità e carisma al netto di una armatura che, almeno all'inizio, appare piuttosto anonima, perfino più bruttina di quelle di Django e Boba. È un grande lavoro di mimo quello che aiuta decisivamente alla resa complessiva del personaggio. 
C'è poi il Baby Yoda, di cui ho già accennato sopra. Non ho ancora chiaro quanto sia digitale o animatronico, ma è bellissimo, riesce a rubare la scena anche solo sollevando di tanto in tanto le orecchiucce verdi, ha degli occhi liquidi, profondi, una espressione buffa ma che sa diventare pensosa. Per riflesso, si può dire che più ci appare umano il Baby Yoda, più diventa ulteriormente umana ai nostri occhi la recitazione tutta fatta in sottrazione di Mandalorian, che riesce a enfatizzare  semplici gesti "mimici" di interazione come sollevare il piccolo da terra, coprirlo, offrirgli ogni tanto una pallina con cui giocare. 
Carl "Apollo Creed" Weathers interpreta un enigmatico trafficone di nome Greef Karga, che per molti aspetti richiama Lando Calrissian. Weathers ha una faccia da buono che non finisce più, ma qui riesce a essere insidioso e ambiguo come in Predator ed il suo character è molto riuscito. Nick Nolte da voce a un Ugnaught di nome Kuill, uno dei personaggi più complessi e affascinanti della serie, la wrestler Gina Carano è invece una specie di amazzone di nome Cara Dune, splendida, ironica e come uscita direttamente da un gioco di ruolo fantasy anni '80. Datemi Red Sonya con lei protagonista e il Grande Khali come Yago. 
Ci sono molti altri personaggi, ma credo che avranno una parte più consistente nelle prossime stagioni della serie.

- Finale: un cavaliere in armatura silenzioso e risoluto il cui volto è coperto da un elmo, come gli oscuri cavalieri di Dark Souls, diviene un empatico e generoso anti-eroe dopo l'incontro fortuito con un bambino. Insieme partono per un viaggio che alle volte ha i contorni della fiaba, come spesso, ma nei dettagli, ha il sapore amaro della guerra e della sconfitta. Visivamente magnifico, accompagnato da una bella colonna sonora, con un ottimo cast e registi che hanno saputo raccontare al meglio e con personalità le singole storie, The Mandalorian è la più bella e gradita delle sorprese del canale streaming Disney+. Un'ottima occasione per vedere una serie adatta a tutta la famiglia e che sa accattivarsi più sezioni di pubblico grazie a una trama stratificata e appagante per ogni fascia di età. Si rischia l'acquisto compulsivo dei mille gadget che presto inonderanno il mercato, primo tra tutti il peluche di Baby Yoda, ma è un piccolo scotto da pagare in relazione a prodotti così bene confezionati. Quasi otto ore da sogno. 
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