giovedì 30 luglio 2020

Rajel - la web serie con la partecipazione del rapper Mahmood che ci racconta il mondo dei giovani italiani di origine straniera


-Sinossi: Raf (Ramzi Lafrindi) è un ragazzo di origine marocchina di nuova generazione che vive una vita tormentata fino a che viene scelto da una produttrice italiana (Annapaola Trevenzuoli) per essere protagonista di un progetto televisivo sull’integrazione. RAF è il protagonista, conosce i copioni ma non gli piacciono, per lui gli sceneggiatori non riescono a cogliere i veri problemi degli stranieri in Italia. Per questo si scontra spesso con il regista (Fabio Banfo) e la serie procede lenta, tra insulti e cambiamenti dell’ultimo minuto. Fatima (Dounia Filali)  è una giovane attrice, anche lei di nuova generazione. Nello stesso progetto ha un ruolo più marginale, ma non ci sta al fatto che Raf remi contro la produzione, crede che quello che stanno facendo sia per lo meno una occasione di lavoro che non vuole sprecare. 



-Storia del nome di una web serie: “Rajel” è una parola del mondo arabo che può essere facilmente traducibile come “uomo”, ma che suona musicalmente differente a seconda dei paesi in cui è pronunciata, variando a sua volta la portata del suo significato intrinseco da zona a zona. In Marocco “Rajel” significa così “essere diventato un uomo”, nella accezione di una persona “adulta“, “indipendente”, “responsabile“. Una parola apparentemente semplice come “uomo” può nascondere sempre significati “nascosti“, intrinsechi, a seconda della cultura in cui è nata e abitualmente pronunciata. C’è sempre una perdita di significato, un “Lost in translation” per dirlo come in un bel film di Sofia Coppola con Bill Murray, quando due persone di culture diverse si incontrano e pensano di comunicare tra loro usando in modo diretto, “semplice”, parole ritenute comunissime anche per un bambino. Nasce l’esigenza di un compromesso sul significato che può realizzarsi solo quando le due culture arretrano, comprendono il diverso punto di vista reciproco sul termine, giungono a una definizione comune. È in questi casi di “incontro felice” che si può parlare di multiculturalità. Laddove questo non si realizzi la gente utilizzerà Google translator nell’illusione che ogni parola straniera corrisponda al 100% alla propria definizione di una parola simile, venendo a considerare infine che gli stranieri “sono strani nel modo di comportarsi e vestirsi“, “non vogliono integrarsi, sono troppo chiusi” o peggio “fanno paura”. Questi fraintendimenti attecchiscono poi a ogni livello della società, creano barriere culturali invalicabili, separano “noi da loro”, al punto da farci immaginare nell’altro un facile nemico che vive vicino a noi, troppo diverso da noi, che probabilmente ci odia. È in questo terreno di coltura che trovano radice le “radicalizzazioni”, ossia il sentimento che spinge nello stare fermi sulle proprie convinzioni, considerare la propria cultura di origine come superiore, più morale, più giusta, l’unica che dovrebbe esistere. È così che nascono le guerre.
Si parla nel dibattito odierno della sociologia di una seconda generazione, o meglio di una “nuova generazione”, di giovani stranieri di recente trasferitisi in Italia con la propria famiglia o arrivati tramite i canali dell’adozione o nati in Italia da famiglie straniere. Sono loro i più esposti alle incomprensioni che nascono dall’essere figli di culture diverse. 


-L’arte di saper mettere insieme gli uomini di culture diverse passando per la musica e la rete: può essere una buona medicina per affrontare un mondo sempre più “melting pop” incontrare davvero le  persone di cultura differente, parlarci e condividere gli stessi problemi e passioni. È per questo che
Rajel
Mahmood, nato da madre sarda e papà egiziano, premiato a Sanremo, è stato scelto come “testimonial” della web serie
A creare la sigla della serie è stato invece chiamato il rapper Maruego, nato in Marocco e cresciuto a Milano. Chissà se le web-serie riusciranno a  parlare di integrazione in un modo schietto come sa fare solo il rap. 
-La voce dei giovani:
Ramzi “Ramzi” Lafrindi è uno youtuber molto bravo, uno stand-up comedian che si occupa attivamente e con originalità di tutte le particolarità, stranezze e desideri che scaturiscono dal trovarsi a essere un ragazzo di nuova generazione. Il suo Raf è un fuoco polemico che non riesce a trovare pace, in cerca di qualcuno che voglia davvero ascoltarlo, al di là del bonario e paternalista “cercare di capirlo” come “minorenne straniero in condizione difficile”. 
Dounia Filali, timida ma decisa, dà corpo a Fatima, la voce della ragione e della moderazione. Non è un personaggio fatalista, è ben piantata per terra e non si illude sulle difficoltà di essere guardata come una straniera.
I due dialogano insieme frenetici alternando parole in italiano e in marocchino, attraversando una periferia fotografata quasi in bianco e nero suggestiva quando fredda. Quando non sono in questo dialogo/scontro, affrontato con onestà e disillusione, i giovani si ritrovano con gli adulti “sul set”,  che li adulano e criticano in modo quasi uguale, con lo stesso trasporto verso di loro. Si parta di integrazione in una scuola, ma non cercando il realismo di opere come
-Conclusione: di 15 minuti l’uno, che sono stati rilasciati a cadenza settimanale dal 9 luglio, è un’opera che nasce dall’incontro di molte persone e culture, un lavoro soprattutto realizzato da giovani desiderosi di far conoscere il loro punto di vista, da “esperti per esperienza”, su quale sia il reale stato della inclusione sociale in Italia. 
È un lavoro molto interessante, originale e ben confezionato, che si impone un obiettivo ambizioso e speriamo lo raggiunga. Come speriamo nel futuro di vedere ancora più opere di questo tipo a favore dell’inclusione sociale.
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martedì 28 luglio 2020

Dragonero il ribelle - numero 9 - Scacco alla Torre



Se vuoi vivere in un mondo fantasy ma senza rinunciare ai vizi e logorio della vita moderna, devi rivolgerti ai tecnocrati. Perché è bello la mattina andare al lavoro a cavallo di un pollo volante, fa tanto green economy e può permetterti grazie al pennuto di cacare dall’alto su quel vicino di casa che mette il carro sempre davanti al cancello comune. Ma se il pollo volante si ammala? Se è nella stagione degli amori e al posto di dove vuoi andare ti porta sul lago di Como inseguendo una pollastra? Come si fa? Ci sono i tecnocrati! Tre giorni, gara d’appalto ed ecco pronto il trasporto pubblico con palloni aerostatici. 
Ma non c’è solo il trasporto pubblico. 
Se è bello e salutare per l’esercizio fisico, in un mondo fantasy, affrontando orchi e orchetti con le vostre fide mazze giganti, cosa succede se un giorno vi svegliate con il “gomito dell’utilizzatore di mazza ferrata”? Armi tecnocrati! Ergonomiche, rilassanti, pratiche, facilmente componibili. E che dire, rispetto ai vecchi e logori archi e frecce regalo del nonno, delle nuove balestre tecnocrati con cambio shimano ricaricabili? 
I tecnocrati vi portano il futuro a casa, in comode rate, con il doppio sconto. E se siete amanti della trasgressione non potete perdervi il top dell’abbigliamento tecnocrate: dagli occhialoni da saldatore steampunk ricercatissimi alle feste hipster, ai leggendari completini in pelle ultra-aderente Matrix-style, in grado di nascondere pancetta e maniglie dell’amore e valorizzare forme da urlo. 
E poi ci sono i rampini per le scalate di montagna, le barche dotate di trebbiatrici a sega circolare per rimettervi in sesto il giardino paludoso fantasy (come nello speciale di Dragonero a colori ora in edicola), le mine per tenere lontani dalle vostre case i goblin più indesiderati, ce n'è davvero per tutti i gusti.   
Ma tutto questo ben di dio può essere per voi disponibile, se avete la tesserina con i punti fedeltà, solo fino a questa domenica. Sembra che per via di una rivoluzione in atto gli approvvigionanti dalla sede centrale, la torre tecnocrate, specie dei vestiti in pelle, potrebbero per qualche tempo interrompersi.

Roberto Da Crema potrebbe essere un tecnocrate di Dragonero?

Era un po’ che non vedevamo Myrva, i suoi completini in pelle e il suo mondo fatto di gadget alla Batman, sulle pagine di Dragonero. Il mese di luglio ce ne concede quindi dose doppia, in quanto la nostra eroina è presente anche nel numero speciale a colori, sempre intenta a lavorare su qualche macchinario strano e futuribile ideato dalla prestigiosa Gilda di cui fa parte, quella dei “tecnocrati”. Il numero 9 di Dragonero il ribelle, a firma Enoch, è tutto dedicato ai tecnocrati. Ci fa entrare nella loro torre tecnologica, ci racconta delle incredibili scoperte scientifiche cui sono arrivati, fa riflettere sul ruolo del “sapere” come strumento di libertà, ma anche di potere. Enoch inizia la narrazione gettandoci nel cuore di un’azione costante fatta di sommergibili, alti forni, botole, travestimenti alla Mission Impossible. Poi arriva ai temi caldi, al senso stesso dei tecnocrati nel mondo di Dragonero, e si fa Orwell. Credo che sia in assoluto uno dei numeri più belli e riusciti della serie Bonelli. Una delle avventure più dure, drammatiche e al contempo profonde, cariche di diversi gradi di lettura. I nostri eroi vengono spinti in una storia collettiva che in pochissime pennellate riesce a descriverci un quadro umano complesso, conflittuale, plumbeo, soffocante. Nella torre tecnocrate letteralmente “non si respira“ e ad amplificare questa sensazione contribuiscono gli ottimi disegni di Gianluca Gugliotta e Alex Massacci. Disegni carichi di fumo e luci opache, in cui i personaggi emergono letteralmente dal buio. La torre tecnocrate è un enorme meccanismo che a volte sembra un orologio, a volte una ciminiera, a volte un telescopio e a volte la canna di un fucile. Ovunque si scoprono superfici metalliche, le inquadrature schiacciano dall’alto i soggetti che le abitano, imprigionandoli in gabbie. Cunicoli e passaggi stretti forniscono le principali strade che i tecnocrati affollano come formiche (anche per via degli occhialoni steampunk e le cuffie da aviatori), prima di sboccare in architetture più ampie, quelle dei luoghi istituzionali della torre, che appaiono comunque austere, quasi delle aule di tribunale. L’azione è giocoforza immersa e schiacciata in percorsi compressi dalle geometrie stringenti e oppressive di questa ambientazione. La difficoltà di movimento è una sensazione ricorrente ed è di fatto qualcosa di molto diverso da quanto presenta un numero classico della testata. 
Scacco alla torre è forse uno dei migliori numeri di Dragonero di sempre, frutto di un Luca Enoch particolarmente incisivo e di un lavoro grafico di grande livello. Quindi correte in edicola a procurarvelo. È un vero affarone!! 
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mercoledì 22 luglio 2020

Artemis Fowl: il primo film tratto dalla serie di libri per ragazzi di Eoin Colfer



Artemis (Ferdia Shaw) è un ragazzino intelligentissimo, ricchissimo, carismaticissimo, elegantissimo, sportivissimo,“ intuitivissimo“. Perché anche se questa parola non esiste, lui lo è. È figlio di una specie di agente segreto/archeologo all'Indiana Jones/astronauta/Man in Black/Jedi/capocannoniere della nazionale di calcio e roba così (Colin Farrell), tutto insieme ad accumulo. Un giorno il padre scompare misteriosissimamente accusato di essere l’artefice di misteriosissimi furti di oggetti mistici, quasi ultra-dimensionali, probabilmente non elfici e il piccolo Artemis, il suo super maggiordomo (Nonso Anozie) con super nipotina (Tamara Smart) e tutto l’entourage fatto da super-villa, super-gadget, super macchine, super trappole, dovranno fronteggiare minacce interdimensionali al suo posto, confrontandosi per lo più con esseri fatati che appaiono quasi tutti anagraficamente minorenni, con le orecchie a punta e vagamente hi-tech come gli elfi di Babbo Natale di Santa Claus con Tim Allen. Presto troverà un’alleata nell’elfa Spinella (Lara McDonnell), il cui nome probabilmente omaggia la principale fonte di ispirazione della pellicola, insieme appunto a Santa Clause con Tim Allen. Laddove non interagisca con elfi minorenni, Artemis avrà a che fare con creature in computer grafica dall’aria buffa e mai terrorizzante, come il nano Bombarda (Josh Gad), troll e goblin, tizi così misteriosi da andare in giro con una luce sparata in faccia e... mi fa malissimo dirlo... Judi Dench. Judi Dench che quel sadico dì Kenneth Branagh, regista di questa pellicola, deve aver legato a sé con un patto faustiano che la obbliga a seguirlo in ogni suo lavoro al netto di permetterle ogni tot un ruolo in un adattamento di Shakespeare. Riuscirà Artemis Fowl a trovare il padre e a venire a capo dell’intrigo fantasy a base di oggetti magici e lotte di potere in cui è stato coinvolto?


Mentre Harry Potter macinava consensi in libreria e al cinema, Artemis Fowl era lì vicino, come Percy Jackson, sullo stesso ripiano dei libri fantasy per ragazzi, con l’idea di seguirne formula, target e successi ma in una chiave diversa, una “salsa diversa”. Se Potter è “polveroso”, imbevuto di un fascino antico ma senza tempo come Londra, Artemis è volto al futuro, all’hi-tech. Gli elfi di Harry Potter vanno in giro coperti di stracci anche se vivono nel ventesimo secolo sono in grado come ai tempi di Merlino di padroneggiare magie pazzesche. Gli elfi di Artemis  hanno tute e armi (rigorosamente non violente) futuristiche, visori ottici, collegamenti satellitari e vivono in un mondo parimenti tecnologico, usando astronavi come mezzo di locomozione. La cifra necessaria e interessante dell’Artemis Fowl cartaceo è come caratterialmente diverga e così si distingua da Potter, ponendosi come una specie di baby Batman che sovverte le regole, un genio riconosciuto, riverito ma incompreso, temuto e di conseguenza solitario. C’è ovviamente in Artemis un ingegno enigmistico pari al detective di Baker Street di Arthur Conan Doyle e a questo si aggiungerà un tono beffardo e organizzato alla Lupin nel modo in cui gestirà le sue imprese nei numeri successivi della serie, ma Artemis riamane un eroe emotivamente fragile nelle relazioni. Harry parte nel sottoscala degli zii babbani, è pieno di insicurezze, prova del legittimo rancore. Poi trova fiducia nel gruppo di amici, nella scuola, nella comunità dei maghi, in se stesso. Harry è calato costruttivamente in un contesto adulto, pur difficile. Cade e si rimette in piedi, fallisce, subisce lutti infiniti, trova di nuovo forza, diventa leader e in questo Harry è umanissimo, fallace, soprattutto nei romanzi Harry è descritto bruttarello, sfigato, tapino. Passando ai film, tanto Harry Potter che Artemis Fowl vengono “ridotti”, per certi versi semplificati. Daniel Radcliffe, lo dico ripensando a tutto il suo percorso di attore, è stato ed è straordinario. Credo che sia uno dei pochi attori bambini che sembrano “davvero dei bambini”. Se nel primo film era un bambino esteticamente di gran lunga più bello dell’Harry Potter cartaceo, il suo personaggio era parimenti umano, sofferente, per certi versi tragico. La sua dolorosa crescita durante la saga è stata ed è tuttora una forte ispirazione per molti giovani a non arrendersi mai, a credere negli altri, specie nei propri insegnanti, a comprendere le regole del mondo in cui si è calati. Artemis parte “mastermind” occhialuto (un po’ alla Detective Conan ma senza gap d’età), un super ragazzino figlio di un super padre. Il suo mondo costruito sulla razionalità si scontra con una visione più ampia, costituita dal riportare nel reale anche elfi e miti, ma siccome è un mastermind il nostro capisce e si adatta subito al nuovo scenario, senza battere troppo ciglio. Ferdia Shaw, ragazzino dallo sguardo vispo e completini firmati da baby 007, impegnato in una serie estenuante di facce da schiaffi si dimentica di trasmetterci “altro” sui di lui, omettendo quasi del tutto di parlarci dei suoi “difetti“. Così la solitudine, l’eccentricità e la sostanziale, benché dissimulata in azioni “estreme”, paura di uscire dal piccolo mondo dorato in cui vive Artemis sono aspetti solo accennati, peraltro nelle scene più meritorie della pellicola. Le continue sfide contro la natura cui Artemis si sottopone, esistenziali nei libri, nel film sembrano sterili atti alla Vin Diesel, espressione di un “marmocchio power” quasi più letale del recente “Girl power” di robe come Birds of Prey, M.I.B. International e altre cose moleste affini. Rischiamo a tratti la spaventosa deriva di Alex Rider: Stormbreaker, e Shaw rischia lo stesso infame destino di Alex Pettyfer. La stessa sensazione di vuoto e disinteresse del pubblico  per un personaggio principale  dal bel faccino e poco altro. 


Questo è un problema da cui correre ai ripari, perché la drammaturgia insegna che se abbiamo a che fare con un protagonista bellissimo, vuoto, onnipotente e onnisciente, il pubblico si annoierà presto di lui, non starà nemmeno a tifare per lui perché “non serve”, è troppo forte!! Artemis non trasmette, “fa e basta”. È un peccato quindi che il film fallisca strettamente sul piano emotivo, perché questo era l’ancora irrinunciabile per renderlo umano, per fare sì che gli spettatori si immedesimassero in lui come tutti ci siamo sentiti un po’ Harry Potter. Poi nell’ottica della saga nulla è scritto su pietra e un secondo film può anche aggiustare il tiro, ma se il personaggio non ingrana il film deve sostenersi con “tutto il resto”, dagli effetti speciali alle scene d’azione, passando naturalmente per gli altri attori in campo e alla brutale liturgia della messa in scena. Effetti e scene d’azione hanno il loro perché, soprattutto nell’ottica dei fruitori finali di riferimento, il pubblico dei più giovani. Come già detto, il riferimento mentale più diretto per le scene action sono i “bambini - elfi assaltatori e Hi-tech” di Santa Clause, in effetti un’idea che era carina. Piccola parentesi: il film utilizza molti giovani attori ed è una scelta coerente con il libro, anche se a volte è strano che sulla scena compaiano solo persone o di 10 anni o di 40. Chiusa parentesi, torniamo a noi. Tante esplosioni colorate, divertenti scene di volo elfico pure sulla nostra penisola, orchi buffi tirati nell’azione come i Tyrant di Resident Evil, “bombardati su un obiettivo”. Visivamente il gioco funziona, anche se un paio di topoi sono stra-noti, mentre il cast ha un paio di problemini. Josh Gad come Bombarda, che si occupa di narrare tutta la storia dal suo punto di vista dando un taglio pseudo spionistico al tutto, è per esempio un gigantesco buco nell’acqua, fin dal trucco che non sa/ vuole indossare con disinvoltura. Per dire, il suo personaggio è uno “zozzone “ coperto di terra e rutti, mentre l’attore che diede la voce al pupazzo di neve Olaf sembra continuamente e istintivamente volerlo ripulire, magari nel fuori scena o quando non è in primo piano, tirando fuori dei batuffoli igienizzati. Fate caso al trucco del volto e scoprirete il dramma di quest’uomo. Vuole inoltre e dovrebbe essere “l’Hagrid hi-tech“ della situazione, la guida brusca ma benevola, solo che come “adulto con cui confrontarsi” si trova quasi sempre “fuori campo”, altrove, magari a struccarsi, con la sua interazione con il bambino minima, se non nulla a parte immaginare che “abbia fatto Hagrid” in scene tagliate. C’è pure un particolare grottesco a peggiorare il tutto: a Gad per rispetto del character letterario, che lo vuole una specie di “nano mangia-terra dal corpo gommoso”, tocca un “effetto speciale” in base al quale la sua bocca si espande per farlo scavare ingoiando terra. Un effetto che fa letteralmente spavento al pubblico dei più piccoli, con questa bocca che allarga all’infinito tirandola con le mani, rivelandosi piena di denti. Peggio di It. Se il nano/gigante è stranamente pulito, poco empatico e inquietante, la piccola aiuto-ninja di casa, la bambina con i trecciolini interpretata da Tamara Smart, che si dice espertissima di arti marziali è pura tappezzeria e quando è in scena ricorda l’analoga bambina con i trecciolini di Jurassic Park 2. Quella che facendo le parallele abbatteva un velociraptor, per rinfrescare la memoria. Tutte le sue possibili battute sembrano inoltre essere  state “rubate” dalla Spinella, come se la Spinella le avesse mozzato lo sviluppo del personaggio. In compenso la Spinella, come il maggiordomo/Alfred sono personaggi ben riusciti e lo stesso si può dire per Colin Farrell. La Dench, benché abbardata in improbabili cappottoni militar-fantasy, si diverte un mondo e crea un personaggio con la voce rauca da consumata donna-pirata-tabagista.
Non sappiamo chi coinvolga Kenneth Branagh in queste imprese, ma alla fine il nostro riesce a finanziarci le trasposizioni Shakespeariane e può tornare al suo nuovo amore, gli adattamenti di Agatha Christie. L’assassino sul Nilo è già sui binari e noi tifiamo sempre a prescindere per lui, perché Branagh anche quando dirige “su commissione” lo fa con classe, ottima comprensione della messa in scena e inserendo i suoi amati attori shakespeariani. 
Artemis Fowl se avete 12 anni può essere molto divertente, se siate più grandi rimane un prodotto ben confezionato.
Ferdia Shaw intanto entra nella nostra lista nera dei giovani attori bellocci. Speriamo che il tempo sia galantuomo e ce lo faccia depennare. 
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lunedì 20 luglio 2020

Talk0 Time

Per un giorno all'anno volevo un po' parlarvi dei miei film preferiti, come del resto faccio in tutti gli altri giorni dell'anno parlando d'altro. Questa è una mini-classifica dei film a cui sono "più legato", non necessariamente i film più belli mai girati né la mia stessa top 10 razionale. Sono i film che "amo rivedere di più". 
Non c'è un ordine, stanno un po' tutti al primo posto quindi, sono pellicole che " a seconda del mio umore" metto nel lettore quando più ho bisogno di rilassarmi, scaricare la tensione, voglia di coccole ecc. ecc. Quelle che seguono non sono recensioni ma vanno lette come "prescrizioni d'uso". 


- Ghostbusters, di Ivan Reitman: Ghostbusters è uno dei miei film preferiti e lo ama anche il mio socio Gianluca. È divertente, terrorizzante, fantascientifico e fantasy, ma per me ha un valore aggiunto.
È il primo e unico film che ho visto al cinema con mio padre, solo io e lui. Tornai a casa e il giorno dopo giravo con un fustino di detersivo Dash, due cinghie e un pezzo di aspirapolvere: mi aveva creato un perfetto zaino protonico. Gli piaceva realizzare queste cose, quando ero ancora più piccolo, usando un fustino Dixan, mi aveva creato il cornuto elmo di Goldrake. Oggi me lo immagino da qualche parte in cielo, con in mano qualche oggetto in cartone, a realizzare armature di Iron Man. Guardare Ghostbusters è un po' passare un'ora con lui, sognare di fare da grande l'università come lui, ricordare il suo coraggio e il suo senso dell'umorismo. Per proprietà transitiva, amo ogni film con Bill Murray, perché insieme a tutta la famiglia non ce ne perdevamo uno, da SOS fantasmi a Ricomincio da capo. Difficilmente trovo qualcuno che non ha visto Ghostbusters, ma in quel caso è un modo soft per introdurre le persone ai film Horror, insieme a Un lupo mannaro americano a Londra o Get Out.


- Grindhouse - A prova di morte, di Quentin Tarantino: non il miglior Tarantino, ma l'esatta celebrazione di una sera o due al bar insieme a delle bellissime ragazze coetanee, quando si ha più o meno vent'anni. Si è tutti giovani e sudati in un'estate infinita, a sparare fesserie, sfogliare riviste d'auto e pensare a qualche fesseria fatta insieme. il baretto è lontano dal mondo ma profuma del muschio sotto casa, è il "tuo posto", con Tarantino che fa lui stesso da Barman. È una serata sfigata come il 79% di quelle serate, dove qualche sogno d'amore si infrange e il finale è tragico. C'è nell'aria della grande musica che riempie l'aria più di mille parole spesso banali, la pioggia è sincronizzata alla batteria di una canzone alla radio e alla malinconia, i cocktail analcolici (io amo la pinacolada) risolvono tutto. Cambia scenario e c'è un nuovo bar, come quello in cui andavo prima della scuola. Visto che è un film di Tarantino, un po' di action/splatter arriva ed è travolgente. Amo molto l'inseguimento in auto sullo sterrato, mi ricorda le stradine di campagna in cui da bambino mi lanciavo a testa bassa in bici. Il momento ideale per vedere A prova di morte è il post "due di picche", per riconciliarsi con il mondo guardando tante belle ragazze o per vendicarsi virtualmente di quella che ti ha dato il due di picche. Funziona in ambo le direzioni. 


- Labyrinth, di Jim Henson: il film che mi ha fatto amare il genere fantasy, grazie al genio dei Muppets Jim Henson e a George Lucas, al punto da farmi realizzare i primi scarabocchi a matita di goblin e cavalieri corazzati. Il film che mi ha fatto conoscere David Bowie e la sua musica, anche questo un film visto insieme alla mia famiglia, dopo il traumatico "ritorno ad Oz". Tranne quegli strani esseri rosa che si smembrano e prendono fuoco, ogni creatura di Labyrinth è bellissima, unica. Il mondo fantasy è pazzesco e mi ha spinto (con la complicità dei cartoni animati dei Masters e i "2" Ghostbusters ) verso Excalibur, Taron e la pentola magica, Legend, Willow, i Barbarians Brothers, Conan. Solo che a differenza di tutte queste altre opere Labyrinth è "più leggero", carico di più trovate visive, più "breve" (nel senso di percezione del tempo che passa, non della durata effettiva). È il perfetto film per un giorno di pioggia autunnale. La storia infinita? Mi è sempre stata sul cazzo, dal fesso col cavallo al bambino frignetta. 
Labyrinth è un film ideale da guardare con nipoti e cuginetti più piccoli, esattamente come L'armata delle tenebre, prima di giocare al gioco in scatola Labirinto Magico. Divertimento assicurato, soprattutto se si dispone di motoseghe. 


- I Goonies, di Richard Donner: altro film indelebile della mia infanzia, anche per via del (difficilissimo) videogame per MSX che riproduceva all'infinito la bellissima theme song di Cindy Lauper. Gli scivoli stile acquapark, le corse in bici con gli amici, l'ambientazione di provincia/periferia, i pirati, le esplosioni di cessi, i" tracobetti", il galeone, Slot, Mikey, Chunk, Data, la banda fratelli. I ragazzini di ET, Navigator, Daryl, War games erano dei petulanti frignoni insostenibili, dimostravano molti meno anni di quelli che avevano. I Goonies erano dei fighi, combattevano ad armi pari con i criminali e anche se potevano essere "infantili" era solo una "fase", sapevano riscattarsi. Da piccolo avevo una bici "saltafossi" con sellino gigante e molle elastiche ovunque, come i Goonies. È un film "estivo", lo guardavo nel pomeriggio dell' ultimo giorno di scuola, insieme a Barbarians Brothers. L'ho rivisto in sala per l'anniversario e non è invecchiato di un solo giorno, con i tempi comici che oggi risultano pure migliori. Goonies è quindi un micidiale Amarcord, meglio pure di Stand by me o It, da degustare con amici vintage. Piace moltissimo anche ai più giovani comunque, in sala non guardano lo smartphone per quasi 16 secondi. 


- Star Wars Episodio I, di George Lucas: Non amo particolarmente Star Wars, ma quasi ogni volta che all'università avevo un'esame il giorno dopo, avevo la testa in pappa ma non riuscivo a dormire, guardavo le gesta di Qui-Gon Jinn, Jar Jar e il piccolo odioso Darth Vader. Perché lo facevo e ancora oggi spesso lo faccio, per buttare giù lo stress? Forse perché è una fiaba, mi piacciono le ambientazioni sottomarine e da risaia della lodigiana, amo Sebulba e il tutto sembra uno spot della Coca-Cola dei primi anni 2000. Anche se potrebbe funzionare così bene sulla mia psiche per un misterioso effetto psicotropo, Episodio I ha comunque uno stranissimo effetto calmante su di me, in opposizione a pellicole che mi piacciono ma mi recano un po' di mal di testa tipo Natural Born Killer. Una volta finita la pellicola in genere guardo il making off, che dura forse più del film e per me è quasi più bello. Insomma, è la mia pellicola "Hangover"





- Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma e La piccola bottega degli orrori di Frank Oz: sono musical, sono a sfondo horror, sono irresistibili e per qualche motivo superano il mio "replay value" rispetto alla mia trinità personale Rocky Horror Pictures Show, Hair e Tommy. Forse perché sono dark commedy, molto camp e fuori di testa, sta di fatto che non dico mai di no a una visione extra. Il Fantasma del palcoscenico è di fatto la pellicola che rivedo di più in assoluto, credo che la sua colonna sonora sia qualcosa di fantastico e personaggi come Winslow, Phoeinx, Swan, Biff e i Juice Fruita siano impagabili, irresistibili ed eterni. Questo non mi astiene dall'amare allo stesso modo il dentista Crivetti, Seymour, Audrey e Audrey 2 (Twedy per gli amici), se giusto la prima pellicola non è subito a portata di mano. Sia la piccola bottega degli orrori che Il fantasma del palcoscenico sono film "per tutte le stagioni", ma che trovò incredibilmente utili da vedere dopo una giornata stressante: un vero toccasana. 


- Aliens di James Cameron: si potrebbero dire mille cose su questo capolavoro assoluto di Cameron, da quel "S" alle mitragliatrici tagliate dalla Final cut (e non è detto che un mega pezzo su Aliens presto lo facciamo, qui sul blog) ma in questo articolo parliamo dei "miei film"più visti, o almeno alcuni, e Aliens, per qualche misterioso motivo, è il mio film preferito quando sono a casa ammalato. Lui, Grosso Guaio a China Town, Essi Vivono e Blade Runner. Al liceo mi ha sorpreso che fossero gli stessi "film da ammalato" di un mio amico, ma si vede che questa associazione strana tra umore e film abbia delle coincidenze anche al di fuori del mio cervello. Le mie sinapsi vengono subito accolte con gioia dalla colonna sonora di James Horner, prima ancora che Rob Bottin arrivi con i mostri, prima ancora che Bill Paxton inizi a dire fesserie. La musica che accompagna i titoli di testa di Aliens mi prende come una ninna nanna e gli space Marines in qualche modo devono stimolare i miei soldati-globuli Bianchi (sì, la similitudine con il cartoon educational  "esplorando il corpo umano" è voluta) nel combattere il raffreddore e il suo moccio acido. In Blade Runner ho sempre tifato per Roy Batty, ma ve lo racconterò un'altra volta. 

Ci sono ancora altri film che guardo spesso, questo è solo un assaggio. Se la formula di questo articolo vi piace, ve ne proporrò altri. Così come vi invito nei commenti a parlarmi dei film che "vedete più spesso". Questo era per raccontarvi un po' qualcosa di me, più che dei singoli film. Spero che l'idea vi sia piaciuta. 
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mercoledì 15 luglio 2020

Cheese, la graphic novel di Zuzu per Coconino Press



Due amici maschi per una sola donzella, tanta voglia di cazzeggio, gli anni più belli della giovinezza in un paesino tranquillo di provincia. Alla scoperta dell'amore, della gioia di vivere, delle proprie fragilità. Un luogo visivo ed emotivo scaturito da una ragazza irresistibile e cazzuta, dove le forme di formaggio ti rotolano addosso da una montagna come i sassi del B.C. di Hart, dove l'ossessione per il peso trasfigura l'immagine di noi stessi in agglomerati di carne degni dell'Arcimboldo, dove l'elegia ed energia della natura in cui immergerci in un pomeriggio di sole trasforma tutti in persone più belle, più colorate, come in un quadro di Cezanne. Questo è Cheese della brava e bellissima autrice completa Zuzu, la sua prima opera lunga, quasi un romanzo grafico autobiografico, dissacrante e irresistibile per i molti tratti caricaturali dei suoi umanissimi personaggi, intimo, difficile e sincero come una poesia, leggero ma con note amare, un po' come la vita. Un lavoro sincero, che diverte, spaventa, commuove. Zuzu è una delle belle scoperte dell'anno scorso di Coconino, Cheese nasce con la supervisione di Gipi e Rathiger e ha portato presto  Zuzu a diventare l'autrice della sigla della nuova trasmissione per La7 di Daria Bignardi nonché un nome importante delle nuvole parlanti. Cheese parla di piccole cose, vita di tutti i giorni nella provincia, di anoressia e sogni nel cassetto, di amori e amicizia. Lo stile è confidenziale, da slice of life. Ci si ritrova spesso dalle parti delle opere di Gipi e allo stesso modo ci si appassiona, si vive di riflesso della universalità dei tempi, sembra davvero a fine lettura di conoscere una nuova amica, generosa, che sa mettersi davvero a nudo davanti al lettore, con tutta la sua forza e fragilità.


Il tratto grafico è a "prima botta" disarmante, diretto, a linee grosse. Profuma di caricaturale, di Vincino, di Vauro, di Macchiavello, ma anche con l'umanità delle "ragazzine" di  Ratigher. Il modo di approcciarsi alla tavola profuma molto di Gipi e come Gipi Zuzu si apre spesso al pittorico, gioca con i classici dimostrandosi super preparata. Prima ti fa ridere, poi ti fa incrociare gli occhi nel leggere la tavola in tutti i suoi dettagli e citazioni, fra underground fin giù all'arte classica. Subito ti accorgi che dietro la caricatura c'è il cuore, un senso profondo, scopri che il modo così peculiare di disegnare gli occhi della protagonista, con linee di nero, ha una specificità, che i lineamenti dei personaggi hanno una cifra di organicità strabordante, che ogni filo d'erba ha una essenzialità sulla scena. Nello specifico gli occhi della protagonista sono "chiusi", in ombra diremmo, ma si possono "aprire" cambiando una chiave che è sia grafica quanto emotiva. Una chiave che varia secondo la percezione emotiva che gli altri  hanno di quel personaggio. L'uso della caricatura in Zuzu diviene quindi somma grafico/emotiva dei tratti esteriori, muta con le percezioni, si arricchisce o sottrae di bellezza come i temporali mutano il paesaggi. È qui che Zuzu ti colpisce come un pugno, ti imprime prima sui bulbi e poi nella testa il suo mondo travolgente. Se il codice visivo underground, tra caricatura e graffiti, è nelle vostre corde, Zuzu vi colpirà da subito, è la mia promessa. Se "non è il vostro genere" vi consiglio comunque di intraprendere la lettura, potrebbe essere una bella sorpresa.
Coconino regala l'occasione giusta di assaporare qualcosa di magari totalmente diverso dai vostri schemi, ad anni luce dai manga, dai Bonelli, dalla Bd e dai comics. Un bel viaggio nel fumetto indipendente in compagnia di una autrice italiana allegra e sincera, a cui non si fa troppa fatica a volere bene. Cose c'è di più bello di incontrare una nuova amica e sdraiarsi con lei su un prato assolato, a ridere e fumare, sognando un bel pomeriggio d'estate? 
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martedì 14 luglio 2020

The Spider King, di Josh Vann per i disegni di Simone D'Armini: quando i vichinghi incontrano gli alieni



Barbuti, torvi e sdentati. Coperti di cicatrici e armi, con muscoli sempre tesi e occhi di fuoco mentre urlando vanno alla carica, in un attacco frontale carico di pazzia e onore, dritti alla morte e poi alle sale del Valhalla con un sorriso. Questi vichinghi sono indubbiamente un concentrato di testosterone e "palle", ma tanto onore e poca tattica li espone a un warlord dai metodi vigliacchi e dai continui agguati notturni conosciuto come "il lupo". Il declino dei clan diventa così generazionale, con il lupo e i suoi mercenari che falcidiano uno dopo l'altro i più grandi guerrieri e re. Ma forse Odino ha ascoltato le preghiere dei suoi figli e inviato loro dal cielo delle armi leggendarie e ultra-tecnologiche, stipandole in un'arca d'acciaio arrivata al suolo tra lo zolfo di rocce coperte da fuoco verde. Anche il temuto "lupo" ha avuto, in quello strano arco di tempo, un incontro ravvicinato con il divino. Ma nel suo caso ha dovuto incrociare la spada con il temibile parassita alieno conosciuto come "Spider King". I vichinghi dovranno quindi affrontare pur con le loro nuove portentose armi un nemico ancora più potente e infido del Lupo.


Sono storti, deformi, "carichi" di testosterone, spadoni laser e innesti bio-meccanici. Sono vichinghi 2.0, non troppo lontani da quei Cowboy che si sono scontrati con gli alieni prima sui fumetti e dopo al cinema, nello sfortunato (ingiustamente) blockbuster di Jon Favreu Cowboys and Aliens. La formula è semplice e già nota, in quanto vicina a quanto proposto pure una decina di anni fa in un brutto film con Jim Cavezel, che Eagle Pictures, per accattivassi disperatamente il pubblico, offriva in dvd in edizione speciale insieme a un dopobarba. Ma l'esito di questa serie IDW già lanciata a una serialità in divenire è ben diverso. Josh Vann scrive personaggi dall'afflato epico, ma anche  divertenti, autodistruttivi e irresistibili. Anti-eroi sbilenchi e asimmetrici pronti a lanciarsi in massacri visivi sempre più estremi e spettacolari allestiti dal bravissimo Simone d'Armini con un tratto grafico gustosamente esagerato e grottesco, a metà strada tra Eric Powell, Mike Mignola e David Rubin. The Spider Kings è sfolgorante nel tratto grafico esagerato e sghembo, divertente nella messa in scena antieroica dei suoi personaggi eroico-scoreggioni e giustamente da non perdere se amate la nuova ondata del fantasy "underground", nata sul solco del canadese Adventure Time e sviluppatosi in opere come Rumble, Head Looper e, perché no, anche The Rust Kingdom dell'italiano Spugna. È un modo "più divertente e meno serioso" dell'epica fantasy classica a fumetti, strada per altro, al di là dei già citati Mignola, Powell e Rubin (a cui aggiungo pure Daniel Warren Johnson) che trova nobili radici nella BD di Goscinny e Uderzo, Van Hamme e Rosinski, nei comics di Jeff Smith. Un lungo carnevale di eroi sdentati e fieri pronti a farci ridere ed esaltare a furia di mazzate, indispensabili per un po' di escapismo liberatorio moderno. In Spider Kings ci sono personaggi anti-eroici dal naso rosso-rotto, spettinati, sporchi e sguardo spento di chi innamorarsi pazzamente. C'è anche un piccolo mondo Pixar stile The Brave tra i riccioli rossi della principessa longobarda co-protagonista. È una parentesi romantica e "femminista" che funziona, si amalgama bene, riesce ad armonizzare e dare cuore all'azione. Gli alieni  "cattivi" sono stilizzati ma riecheggiano il classico di Scott, guidano zombie fungosi come in Last of Us e sono inseguiti sulla terra dei vichinghi da una specie di lanterne verdi multi-specie, se vogliamo simili alla polizia spaziale di Lilo & Stitch. Gli scontri si svolgono per lo più in boschi notturni dominati da fuochi fatui verdi, ma non mancano castelli in fiamme e accampamenti militari. Le tavole sono stra-piene di dettagli. 
Spider King ci è piaciuto e Saldapress ha confezionato un ottimo volume cartonato su quella che possiamo ora considerare a tutti gli effetti una "prima serie", con il successivo speciale Spider King Frost Bite già nelle fumetterie americane. 
Siamo pronti per un altro giro. 
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lunedì 13 luglio 2020

Find Us - Trovaci : la nostra recensione di una piccola ma sfiziosa web serie del canale YouTube SuperCinema



Oggi vi proponiamo una piccola web-serie realizzata da un piccolo gruppo di appassionati di cinema di genere. È una serie carica di inventiva, citazioni, un bel tappeto sonoro, divertente e autoironica, con alcune idee visive interessanti. Sono 5 episodi da cinque minuti l’uno circa, da ascoltare magari in cuffia. 


Nel 1983, dalle parti di Boston, una palla di fuoco ha illuminato il cielo durante una notte stellata. Da allora durante le notti delle persone scompaiono nel nulla, per poi essere ritrovate all’alba tutte a brandelli.
Qualcosa di alieno si muove nella notte e qualcuno sarà così incauto da affrontarlo nell’ambiente dove trova più forza. Il buio.  
La confezione di questa Web-serie è molto carina, a partire dal lettering usato per i titoli che richiama gli horror low budget del passato. Il punto davvero forte è il comparto audio, una colonna sonora sincopata e avvolgente di stampo Carpenteriano (che nel finale incontra i toni della detective story), effetti sonori ambientali e “speciali” che spesso riescono a far emergere, specie in alcune originali scene girate al buio, suggestioni lovecraftiane. La fotografia sceglie una gradazione ocra-vintage anni ‘70. La tecnica di ripresa scelta, con uso della telecamera a mano, risulta dinamica, ricca di citazioni visive e con soluzioni di ripresa non banali. 
La trama, opera di Lewis N. Snyder, è una lettera d’amore agli Ultracorpi, la fantascienza classica, gli Incontri ravvicinati del terzo tipo. Sono presenti note dell’action crepuscolare di Carpenter, una sottile ironia alla Landis, ci sono le ossessioni geometriche e il “non detto” tipici di Lynch. Il racconto “sembra” ambientato nel 1983, ma il personaggio di Curtis quando si trova a indagare su quello che è un serial killer si sofferma sulla resina degli alberi, la degradazione del colore di una foglia, raccoglie misteriose pietre nere che considera indizi importanti. Non ci viene detto nulla del passato di Curtis, ma vediamo che sta seguendo uno schema, criptico ma che forse già conosce, perché per lui è routine. Come le scene di buio pieno che diventano magiche e “vivide” grazie a quello che ci fanno intuire gli effetti sonori, le ritualità investigative di Curtis ci raccontano senza parole le dinamiche di un mondo che forse si trova ai confini del reale, in un modo non dissimile dal recente The Head Hunter di Jordan Downey. 
Le scene d’azione sono nell’insieme da migliorare, ma funzionali e abbastanza intellegibili. 
Luigi Santomauro riesce bene a passare dal registro comico dell'inizio del primo episodio a una personalità più “aliena“. Con la sola mimica facciale unita a una interessante illuminazione del suo volto, Luigi riesce a essere inquietante come Sadao Abe in Uzumaki di  Higuchinsky. Antonio Comune funziona come detective “accartocciato e stanco”, soprattutto quando tira fuori uno sguardo alla Thomas Milian sotto un cappellaccio nero (non dissimile da quello del primo Rocky). È un personaggio che riesce a mantenere la calma nonostante qualsiasi cosa gli capiti intorno, come se ci fosse già passato. Sarebbe interessante esplorare cosa nasconde sotto la corazza Curtis.


Find Us è un progetto piccolo ma curato, in cui traspaiono, oltre all’entusiasmo, professionalità e visione di insieme. La scrittura è interessante, c’è ironia e la possibilità di sviluppare ulteriormente il racconto. 
C’è  del potenziale e sono convinto che se gli autori proseguiranno su questa strada, arriveranno a importanti traguardi. 
Mi piacerebbe davvero vedere su YouTube più contenuti di questo tipo. Aspetto la seconda serie. 
Paolo “Talk0”

P.S.: e se a fine visione non siete ancora sazi di questa simpatica detective/Paranormal story realizzata dai nostri appassionati di cinema / eroi, c’è un altro cortometraggio che vi aspetta nell’archivio di SuperCinema. Un vero e proprio “prequel” di Find Us. Ossia il mitico:



giovedì 9 luglio 2020

Iron Kobra: l'anti-supereroe psichedelico di Officina Infernale e Akab per Progetto Stigma e Eris Edizioni



C'è un bondiano agente del "sistema" in missione, all'interno di un misterioso presidio sorvegliato da inquietarmi occhi dotati di gambette meccaniche che li rende simili a ragni. L'uomo misterioso entra in una sala decriptando un codice e si trova davanti a una serie pressoché infinita di fantascientifiche super-tute, la serie Iron Kobra. Ne sceglie una, la tocca e la struttura ad energia esagonale si impossessa di lui, ne modifica la percezione del mondo, lo rende un creatura perennemente in fuga. In fuga dai (dis)valori moderni del gioco d'azzardo e dell'american dream. In fuga dalla paranoia di mostri lovercraftiani, dalla stupidità supereroistica, dalla competività spinta. Alla ricerca di un senso profondo di "verità", dell'amore fusionale e di uno scopo finale forse irraggiungibili, ma verso cui non si può che procedere spediti, in linea retta, combattendo con la forza della "parola", infrangendo e superando i dogmi e le paure che schiavizzano l'umano. Iron Kobra fugge da un futuro predestinato come il THX di Lucas e si perde psichedelicamente tra i colori e passioni, superando uno dopo l'altro i "livelli" di una autocoscienza liberatoria, ma che può essere forse effimeramente solo autoindotta dai poteri della super-tuta e da un enorme ingranaggio di uomini in bianco e nero che sovrintendono quella che chiamano "simulazione". È vera fuga quella che sta vivendo l'uomo che si è fuso con la Iron Kobra o solo la disperata corsa di un criceto all'interno di un labirinto senza uscita. 
Iron Kobra è un'opera graficamente concepita da Officina Infernale "tra le 4 e le 9 di mattina", che cerca costantemente una propria forma in modo schizofrenico, "pulsando" in una serie di tavole realizzate fondendo il collage fotografico con gli stilemi della pop art, del comics supereroistico vintage, della psichedelica ed elaborazione digitale. Questo mondo affascinante e straniante, sintetico quanto astratto, trova voce nei testi di Akab, che spesso ne rincorrono la lettura grafica e mettono in sequenza ballons dal contenuto spezzato quanto concatenato, muovendosi di suggestione in suggestione, tra il soliloquio del flusso di coscienza alle "voci nella testa" più complottistiche. 

Quello che ne esce è un sogno dentro un incubo e viceversa. Un'esperienza visiva e auditiva che avvolge e respinge continuamente il lettore, tempestandolo e senza lasciargli tregua, mai rendendolo indifferente, tenendolo sempre carico, fino all'ultima pagina. In Iron Kobra si rinnova l'esperimento del romanzo grafico "La Soffitta" (Mondadori Ink), dove Akab aveva legato in un racconto delle illustrazioni di Squaz fino a creare insieme a lui un'opera unica, con le tavole progressivamente realizzate insieme in un unico """esplicitamento"" narrativo. Anche qui la fusione tra testo e disegno è solo intuita, il target è rendere lucenti i frammenti più che la somma degli stessi, l'esito è per il lettore un perdersi felice in un mondo ampiamente da interpretare e ri-etichettare. Viene messa in scena la decostruzione del supereroe più "golden age", con lo sfondo dei paesaggi e stilemi visivi degli anni '60-'70 americani, arricchendo con soliloqui da Silver Surfer e servendosi delle tecniche di "smascheramento ideologico" proprie del capolavoro di Carpenter Essi vivono. Se fosse un videogioco, Iron Kobra sarebbe un parto di Suda 51. Se fosse un film sarebbe un esperimento di Andy Warhol. Se gli dovessi cercare un "fratello" contemporaneo guarderei a Pax Romana di Hickman, se guardo al passato la mente va a Jim Steranko e al suo Nick Fury. Se mi soffermo sulla figura, plastica e imponente, dell'Iron Kobra provo suggestioni che mi portano al Crying Freeman di Ikegami. C'è tutto e forse infinite altre suggestioni in questo geniale parto del Progetto Stigma, perfino degli easer egg che richiamano ad altre opere di questo collettivo di autori. Pertanto più che cercare invano di classificarlo (rimando agli esperti che ne sanno più di me questa nobile arte) vi inviterei a vivere quest'opera, subire sulla retina e nella testa le parole e i colori che dalle tavole vengono sparate come proiettili perforanti. L'arte è prima di tutto libertà e opere come Iron Kobra sono la massima espressione di questo impulso. Fatevi avvolgere nella sua psichedelica e magari versate una lacrimuccia o due pensando che autori come Akab, di cui abbiamo oggi un bisogno sempre più inestinguibile per sentirci davvero "liberi di pensare", oggi non sono più tra noi. 
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mercoledì 8 luglio 2020

Gli anni amari - la nostra recensione del film di Andrea Adriatico sulla vita di Mario Mieli, con interprete un grande Nicola Di Benedetto



Era eccentrico, eclettico, ironico, rivoluzionario, vanitoso e forse troppo fragile. La sua vita è durata un soffio come una candela che brucia da due lati, come per molte stelle del rock. 
Mario Mieli ha diretto giornali indipendenti, si è fatto promotore di reti internazionali di contatti, ha cercato pioneristicamente di innovare il dibattito politico in nome della parità di genere, ha creato un nuovo modo di fare comunicazione sociale utilizzando prima la televisione e poi il teatro. Ha provato a scavalcare il Muro di Berlino, ha sviluppato, legando insieme la filosofia e la psicanalisi, una teoria innovativa su come la società impedisca agli uomini di essere liberi. Come molti rivoluzionari fu molto amato e adorato e parimenti odiato, al punto che qualcuno si spinse a demolirlo personalmente e intellettualmente, con critiche di una ferocia assoluta che puntavano il dito sul fatto che fosse troppo “libertino”, sul fatto che fosse “gay”.
Non un omosessuale qualsiasi, ma uno dei fondatori del Movimento Omosessuale Italiano, cui oggi è dedicato il Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli di Roma. Circolo che seguendo gli ideali di Mieli si occupa da anni di promuovere non solo i diritti delle persone LGBT, ma persegue anche  il rispetto dei diritti civili di ogni essere umano e la realizzazione della parità di genere. Inoltre promuove occasioni di socializzazione, è sede di gruppi di auto-aiuto, telefoni di sostegno per le fragilità. Dal 1989, per primo in Italia, ha creato un servizio di assistenza domiciliare per malati di AIDS formato da psicologi, assistenti sociali e volontari. La festa annuale con cui il Circolo si autofinanzia è il celebre Muccassassina, legata da sempre dall’ex parlamentare Vladimir Luxuria, prima persona transgender a essere eletta al Parlamento Europeo. 


Era difficile “ridurre in film“ una figura complessa e importate come Mieli. Adriatico sceglie un attore giovane molto bravo come Di Benedetto e con gli sceneggiatori (Verasani e Casi) racconta un Mieli intimo, descrive il suo mondo emotivo. Dagli anni del liceo in poi, fino alla fine, concentrandosi sul suo rapporto con la famiglia, raccontando il suo edonismo, la sua vita fatta di un continuo inseguire amori sfuggenti, la sua lingua arguta e tagliente, la capacità di parlare senza filtri e in nome di altri, l’entusiasmo. Non tutto è una festa, Adriatico rappresenta in modo spietato quanto umano le difficoltà incontrate da Mieli nel fare ascoltare la propria voce in un mondo concettualmente distante, avverso e “allergico“ al tema di una sessualità. Ma al contempo allega la “prova televisiva”, ricostruendo i filmati d’epoca che attestano come Mieli fosse riuscito a portare i temi a lui cari in Rai e poi a teatro. 
Scegliendo un ordine cronologico il film, usando spesso parole tratte dalla autobiografia postuma di Mieli, Il risveglio dei faraoni, parte da un giovane Mario Mieli che vive a Milano negli anni ‘70. La sua è una  ricca famiglia di origine ebraica, di Alessandra d’Egitto, che aveva patito le leggi razziali durate la Seconda Guerra Mondiale, riuscendo infine a uscire da quel periodo e tornando ad essere a capo di una importante azienda di filati, inaugurata negli anni ‘20. Il film illustra come Mario per il suo essere omosessuale vivesse uno “stigma“ per lui non troppo differente da quanto patito dalla sua famiglia durante la guerra. Trovandosi spesso per le strade di Milano alla mercé di persone “perbeniste” pronte ad aggredirlo simili ai persecutori nazisti, a cui lui però rispondeva, confondendoli e riuscendo a volte a scappare indenne, citando Joyce e  Oscar Wilde. La famiglia si era però “conformizzata”, per Mario non era più capace di capire “l’essere diversi” patito nella seconda guerra mondiale, non comprendendo la diversità sessuale del figlio. Per Mario essere gay, diventare “Maria” era una condizione sociale scelta liberamente, in tempi in cui le persone comuni vedevano l’omosessualità come una devianza mentale da curare, magari con gli psicofarmaci. Per questo Mario, passando idealmente nella narrazione all’età adulta, interviene a manifestare contro il Congresso di Sessuologia Internazionale di San Remo del 1972, momento a cui segue il suo attivismo e un periodo di scoperta dell’esistenza dei movimenti gay e femministi che in seguito appoggerà in nome della libertà di genere. Londra diventa la sua base operativa, luogo di sperimentazione e momento di creatività, fino a che incomberà la voglia di tornare in Italia e fondare la sua prima rivista.
Segue la narrazione del suo impegno politico, caratterizzato da un ritmo pop, sintetico ma chiaro. Nella parte finale ci si riallaccia alle primissime battute del film, riproponendo un contesto dal sapore teatrale.
L’omosessualità è raccontata senza filtri. 


La pellicola si sofferma più volte sulle scene di sesso, come ci sono numerosi nudi maschili, ma Adriatico non punta a un'ostentazione di tali immagini. Le usa per lo più per descrivere una quotidianità affettiva, quanto saltuariamente ne fa un uso simbolico. I corpi e i vestiti diventano qui una grammatica visiva del pensiero di Mieli. Ne è un esempio un momento molto teatrale, a inizio pellicola, al chiaro di luna presso un parco di Milano. I personaggi in scena parlano di ribellione, sembra che stiano improvvisando delle invettive nei pressi di alcune colonne che fanno da “teatro greco”. Per uno di questi poeti la poesia, lo scrivere in versi, è ribellione verso una realtà che riesce a parlare di sé solo tramite la prosa. Per un giovane Mieli, che fa eco al primo, la vera ribellione è un corpo che si trasforma in poesia, davanti alla quale non serve scrivere alcunché, basta “essere”. Per Mieli vestirsi da donna, come liberarsi di ogni vestito, diventava un gesto provocatorio, di liberazione dai ruoli di uomo (quello che lavora) e donna (quella che sta a casa). Ruoli imposti dalla società in cui viveva, per lo più specchio della famiglia media americana descritta dal sociologo Talcott Parsons. Per Mieli chi guardava un uomo vestito da donna entrava in una ulteriore crisi quando scopriva di sentirsi attratto da quell’uomo. Del resto i parchi notturni di Milano vengono descritti come brulicanti di uomini comuni in cerca di “trasgressioni”. Più volte il personaggio di Mieli provoca in tal senso la gente di strada che incontra di notte, con Di Benedetto che gioca sulla sensualità del trucco e del suo corpo per irretire e poi deridere i benpensanti. Di Benedetto si adegua al Mieli che evolve negli anni da ragazzino ad attivista a figura pubblica. Riesce bene a descrivere il  mutare del suo ruolo nel mondo che lo circonda, da uomo libero di spingersi in slanci emotivi estremi a “figlio non accettato”, compresso, schiacciato, in una gabbia emotiva familiare senza uscite. Ne esce il quadro di un uomo che ha ribaltato il mondo, creando qualcosa di importante anche per le generazioni future, pur di essere compreso in casa propria. Mieli diviene così eroe tragico, pronto ad automutilarsi simbolicamente, pur di ricevere quell’affetto negato. È centrale in questo ambito il personaggio della madre silenziosa, interpretata da Sandra Ceccarelli, il padre distaccato (Antonio Catania), il fratello (Lorenzo Balducci) che non condivide la condotta di Mario e che sarà l’erede della ricca azienda di famiglia. Ne scaturisce un disordine di sentimenti che spingono Mario a sua volta ad avere difficoltà in relazioni stabili, trasformando nell’ultima parte la pellicola in un dramma che è tragicamente comunque, universale, a molte vicende in cui l’omosessualità non è accettata. 


Gli anni amari è un film che descrivendo la vita di una figura centrale del Movimento Omosessuale ne accenna soltanto i successi, non li enfatizza. Preferisce invece una dimensione personale, intima quanto universale, fatta di slanci, sbagli, compromessi emotivi.  È un film che celebra ma non dimentica le pagine più difficili della vita.
Molto bella la fotografia di Gianmarco Rossetti. La Milano degli anni ‘70 che ci racconta è fredda, crepuscolare, dove gli omosessuali si nascondono tra le ombre di un parco malfamato. Londra appare irradiata di costante luce e pensieri positivi, le persone sono sudate e felici anche se hanno appena ricevuto un pugno sul naso. Ma il film sceglie la via crepuscolare, i “colori più caldi” escono da un televisore in bianco e nero. Una bella idea.
Ottimi gli interpreti, menzione particolare per un protagonista in grado di afferrare le mille sfumature di un personaggio sempre in movimento fisico ed emotivo, potente quanto fragile. Adriatico mette in scena una pellicola di stampo realistico, ma che sovente vi tinge di registri teatrali originali, di un riuscito stampo drammatico. Una pellicola piena di ritmo, che scorre veloce e sa appassionare.
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