mercoledì 29 gennaio 2020

The Head Hunter - la nostra recensione del gioiellino horror-fantasy di Jordan Downey portatoci in Italia da Blue Swan



- Un facoltativo invito a supportare Blue Swan (lettura facoltativa non necessaria ai fini della recensione) Amo il catalogo Blue Swan quanto il catalogo Midnight Factory. Questa etichetta sta portando in home video molto cinema "sconosciuto" ai classici distributori italiani, tra film orientali e russi arci-noti come il Mega-blockbusterone (divertente nel suo essere ultra-esagerato) Wolf Warrior 2 e (l'Indipendence Day russo) Attraction a recuperi meritevoli come (il secondo, bellissimo, con Karl Urban) Dredd e Beyond Skyline (seguito mille volte più bello dell'originale), fino a piccole bombe atomiche come L'uomo che uccise Hitler e poi il bigfoot (con un Sam Elliott pazzesco) e oggi questo The Head Hunter. Tutte pellicole orgogliosamente "di genere" che magari sono passate nei "catalogoni pigliatutto" di Netfix, all'inizio solo sottotitolati, tra un Turbo Kid, un Mandy, un Backcountry e un Death Orgasm (per i cui home video ringraziamo anche Koch Media, Eagle e Midnight Factory), ma che non hanno mai goduto della visibilità che meritano, soprattutto in un mondo in cui ci si lamenta che "al cinema non c'è niente di nuovo oltre Disney" o "vorrei vedere degli splatter come si vedevano una volta" oppure "ma un film di arti marziali mai? Solo John Wick". Queste lamentele legittime accadono perché il mercato italiano "di primo piano" si è contratto, non perché nel mondo si sia smesso di produrre film interessanti. Diciamo che per "la sala" c'è da parte dei distributori poco coraggio nel portare da noi pellicole su cui non si va sempre sul sicuro, unito al fatto che i distributori che sono anche produttori diretti hanno già un loro catalogo da proporre, ma per l'home video è diverso proprio grazie agli eroi come Blue Swan, il cui rinnovamento del catalogo seguo con più interesse delle news di Warner Bros. In un mondo perfetto trovando il tempo vi recensirei tutti i film di Blue Swan in uscita, tra Last Survivor, I guardiani dei mondi e Killzone Paradox, per ora dovrei avere da qualche parte un articolo sui Cacciatori di tesori che prima o poi dovrei pubblicare. Il succo è che dovete davvero tenere d'occhio queste etichette, perché tra molti film con Scott Adkins, action russi e roba sui vichinghi che potrebbe non esattamente interessarvi (ma che dovreste provare almeno una volta), qualche volta arrivano prodotti strani e matti, e per questo imperdibili, come The Head Hunter


- Sinossi fatta male: in un mondo dark fantasy (tra Skyrim e Dark Souls per gli amanti dei videogame, un po' "alla Witcher" per tutti gli altri che "hanno" Netfix) vive un guerriero barbuto (Christopher Rygh, molto bravo come attore, che farà tanta strada) in una casetta stilish gotico-grunge  ai margini di un bosco nebbioso. Per lavoro taglia le teste dei mostri, ed è bravo al punto che ci ha ormai fatturato un bel gruzzolo d'oro. A fine giornata, tolta la pesante armatura lavorata in pelle e ossa di demone alato, impala le teste per la sua collezione personale in salotto (usa un porta-teste IKEA Sgrotzguff), aggiorna le taglie, si cura con pozioni magiche che assembla personalmente seguendo ricette tratte da qualche disco Metal, si prepara per il giorno dopo riposandosi sulla sua poltrona in pelle di uomo lupo cucita a mano nella classica posa corrucciata di Conan in Barbaro di John Milius. Ogni tanto le cose vanno meno bene del solito e rantola in casa in cerca della pozione guaritrice prima di svenire sul tappeto di orso infernale ricamato. Qualche volta i mostri cercano di fargli un agguato notturno scardinando la porta di vero faggio svizzero laccata di sangue di goblin. Ma questa è la routine e ogni volta che suona la campana dal castello arriva un nuovo incarico e una nuova avventura dalla quale uscire malconci, almeno fino al giorno in cui il cacciatore di teste troverà la sua grande occasione per vendicarsi di un certo mostro. 


- Epica: l'epica è "90% di evocazione e 10% di rappresentazione", almeno secondo me. Guardiamo I soliti sospetti di Bryan Singer e rimaniamo affascinati dal luciferino Kaiser Soze senza mai davvero vederlo, per lo più ascoltando un racconto di Verbal Kint (Kevin Spacey) legato a un paio di immagini sfuocate. Guardiamo Valhalla Rising di Refn e dai racconti di un paio di monaci scopriamo che lo schiavo coperto di sangue One-eye che si trascinano su delle valli verdeggianti e piovose (Mads Mikkelson) è in realtà un dio (forse Odino stesso). Guardiamo poi le straordinarie scenografie di Moira con al centro Legolas che squarta orchi e non lo guardiamo come il semi-dio, pensiamo piuttosto che potrebbero trarci un bel protagonista per un videogame, pensiamo agli effetti speciali forse un po' esagerati. Perché lo scenario è già svelato, le capacità dell'eroe già palesi, l'epica non si espande all'infinito nella nostra immaginazione perché sullo schermo c'è già tutto e lo schermo riesce anzi a "distrarci dall'epica", laddove l'effetto speciale non sia riuscitissimo, laddove Legolas non è convincente perché interpretato da Orlando Bloom (uno dei peggiori attori viventi), laddove i mostri sono chiaramente finti. Less is better è una regola fondamentale per l'epica, come per ogni altro tipo di narrazione: più "accenni soltanto" più il risultato sarà migliore perché "quello che manca" ce lo metterà l'immaginazione dello spettatore. The Head Hunter prende questa regola aurea e ci dà una dimostrazione pratica della sua bontà in ambito cinematografico di 71 minuti. 


La pellicola è tutta ambientata nella casa-rifugio del guerriero barbuto, uno straordinario set carico di libri inquietanti, pugnali, ampolle e pozioni, candele, forzieri d'oro, teste di mostro appese e mobili realizzati in modo sinistro. La casa ha tegole che scricchiolano, una finestra che sbatte sui cardini sospinta dal vento, liquami che bollono in padelle, il fuoco alimentato da legna secca. Al di fuori c'è la foresta e il resto del mondo. La campana che chiama alle missioni, i passi dei mostri che incedono verso l'uscio di notte, gli zoccoli del cavallo che annunciano il ritorno a casa dell'eroe. Il resto della messa in scena è lui, il nostro cacciatore di teste. Un uomo che parla solo in ragione dei pochissimi momenti con cui ha un interlocutore e per lo più fa dei grugniti quando si trova ferito da qualche scontro. Un uomo che si racconta tramite il suo modo di affilare le armi, preparare trappole, allestire pozioni, resistere al dolore e stare a fine giornata seduto su un trono d'ossa e pelle di mostro (da vero "King of The Hill" metaforicamente seduto sulla montagna dei suoi avversari sconfitti) al centro di un personale museo degli orrori a base di teste squartate di cui possiamo solo intuire il tanfo, la puzza di putrefazione mista al fango, al sangue e alla ruggine che dominano ogni angolo dello scenario. Un uomo cupo, letale, sporco, ma che comunque rimane umano, sa commuoversi, commette errori, vive momenti di grande depressione e dolore. Il film è questo: ci troviamo nella casa del guerriero nell'attesa che lui parta o ritorni da una battaglia. Lo vediamo prepararsi per la missione come rattopparsi dalle ferite mentre, pensoso, è intento in queste attività e si sente libero di raccontare il suo mondo interiore solo quando si trova nel luogo dove è sepolta la persona che ha più cara, cercando con lei sulla sua tomba un dialogo impossibile. Jordan Downey crea uno stranissimo ibrido tra Castaway di Zemekis e Paranormal Activity di Peli in salsa dark fantasy. Fa parlare l'ambiente e i suoi rumori, permette al suo interprete di esibirsi in una straordinaria prova fisica ed emotiva che dalle suggestioni di pochi dettagli crea un intero mondo fantasy. Bellissime le creature, che ci vengono fatte percepire prima attraverso dei disegni, poi attraverso dei rumori, poi dai graffi che con le loro unghie e denti hanno provocato sul corpo del cacciatore e infine con la loro testa, che l'eroe sgocciola da un sacco prima di conficcare nel muro su dei paletti di legno. 
La narrazione funziona straordinariamente per tutti i 71 minuti della pellicola. Una durata giusta, benedetta da un montaggio funzionale ma concitato, per un one-man-show su un eroe sostanzialmente muto in un ambiente in cui si percepiscono solo scricchiolii e il rumore del vento. The Head Hunter è un film piccolo piccolo, ma ci si perde letteralmente dentro. È un bel viaggio visivo e un'ottima prova d'attore, ma dovete farvi trascinare nel suo mondo, alimentandolo anche con la vostra fantasia. Lo sappia bene chi cerca immagini e non suggestioni, scontri con stunt, arti marziali, computer grafica a rotta di collo e un set ricostruito dentro una montagna dove interagiscano quattrocento persone che si vendono costantemente in piano-sequenza come in Scorsese. Qui ci sta un villino, un vichingo e un cavallo che non si vede neanche per tutto il film. Il resto è "magia" e suggestione. È come vedere Star Wars solo dall'interno del MillenniuM Falcon (...che in effetti sarebbe un'idea ganza). Forse è davvero uno squarcio su come potrebbe evolvere il cinema fantasy, dopo che ci saremo rotti le scatole dei troppi mondi di effetti speciali che sempre più tendono a somigliarsi gli uni agli altri. Un fantasy che forse guarderà meno ai videogame e più al teatro per raccontare la sua epica. 
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lunedì 27 gennaio 2020

The Lodge: la nostra recensione della nuova pellicola degli autori di Goodnight Mommy



Lo scrittore Richard (Richard Armitage, il Thorin "Scudo di quercia" dello Hobbit di Jackson) si innamora della giovane e timida Grace (Riley Keough, la Christine di The Girlfriend experience), l'unica sopravvissuta al suicidio di gruppo di una setta di fanatici. La moglie di Richard, Laura (Alicia Silverstone, che ricordavamo come Batgirl in Batman e Robin di Joel Schumacher), non la prende troppo bene e si spara un colpo, lasciando sconcertati il marito e i due piccoli figli, Aidan (Jaedel Martell, il piccolo Bill del recente It di Muschietti) e Mia (Lia McHugh, che vedremo come Sprite negli Eterni, accanto ad Angelina Jolie e a un po' del cast del Trono di Spade, il nuovo cinecomic Marvel previsto per questo 2020). I bimbi, che hanno vissuto la faccenda davvero (e prevedibilmente) male, hanno trovato inoltre dei documenti inquietanti su Laura e se la  sono subito figurata come una specie di strega squilibrata, da odiare di default ancor prima di conoscerla, e forse artefice della morte di mamma con qualche roba voodoo. Laura, che è una persona gentile ma fragile e ancora ossessionata dal suo passato, ha evidenti problemi a relazionarsi con gli altri. L'idea di Richard di far passare a figlioli e Laura una vacanza in un villino, insieme, tra i monti e la neve, mentre lui rimarrà lontano da loro a causa della classica tormenta, apparirà quindi come un azzardo le cui conseguenze saranno davvero (im)prevedibili. Finirà male? Sì.


Con lo sceneggiatore del piccolo ma perfetto Cub -piccole prede e un cast di buon livello, la diabolica coppia registica austriaca formata da Veronika Franz e Severin Fiala esordisce in una pellicola internazionale dopo il fulminate e cattivissimo Midnight Mommy, arrivato da noi grazie ai bravi ragazzi di Midnight Factory. Non erano bravi, ma davvero cattivissimi e spietati, i fratellini di Goodbye Mommy, interpretati dai fratellini Elias e Lukas Schwarz, davanti a cui i giovinastri stronzi di Funny Games di Haneke possono "accompagnare solo". Sono altrettanto terribili i fratellini di questo The Lodge: sembra che Veronika e Severin stiano quasi facendo una filmografia che disincentiva ad avere figli le coppie dubbiose, alimentando i dubbi sulla presunta "purezza infantile", tema horror interessante ma spigolosissimo da proporre oggi. Com'è questo film? Molto bello quanto molto derivativo. Richiama per ambientazione The Others di Amenabar, gioca con le geometrie e i mondi in miniatura come il gioiello Hereditary di Ari Aster (citando quindi anche le gabbie geometrie di Argento), punta forte sulla incomunicabilità tra genitori e figli che era poi il cavallo di battaglia della coppia già in Goodbye Mommy. Questo The Lodge è quindi un Goodbye Mommy "da asporto", uno starting point rivolto al pubblico internazionale meno estremo in forma e contenuto, ma che come tutto il cibo da asporto suona un po' riscaldato, un'esperienza più sbiadita anche quando cita Amenabar e Aster. Se non avete ancora goduto di Goodbye Mommy, The Lodge potrebbe sorprendervi di più, se siete già fan del duo lo accetterete comunque come un prodotto discreto e ben confezionato. Davvero bellissime le scene oniriche tra la neve, immagini potenti dalla fortissima e disturbante connotazione religiosa, per me il vero punto alto della pellicola. Davvero terribili i bambini, nella loro lucida e spietata strategia comunicativa. Molto brava la Keough, l'inferno emotivo che vive il suo personaggio è travolgente ed è facile sentirsi persi, con lei, tra le lande nevose.
L'esordio internazionale del duo di Goodbye Mommy è una pellicola discreta e ben confeziona, che sa bene giostrarsi tra atmosfere gelide e misticismo. Se avete un forte desiderio di maternità o paternità non è certo la pellicola che vorrete più vedere in sala, ma vi assicuro che bambini così infernali si trovano solo al cinema.
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domenica 26 gennaio 2020

Hammamet - la nostra recensione



Bettino Craxi (Favino) si trova in Tunisia nel periodo che precede la sua tragica scomparsa. È un leone in gabbia ma non domo, che vuole essere ancora presente sulla scena politica italiana attraverso le molte lettere che invia ai quotidiani, h24, spesso a scapito dei suoi affetti. Il grande uomo politico non riesce a staccare mai la spina, non c'è per lui vita al di fuori della politica e la famiglia, che comunque gli è affettuosamente accanto in un momento di estremo dolore e sconforto, riesce a fatica a volergli bene come vorrebbe. Troppi sono i torti da digerire, troppa l'impotenza da accettare, Bettino decide così di accogliere in casa il figlio di un collega di partito, l'idealista Vincenzo, un amico silenzioso e lontano dalle scene pubbliche che gli era molto caro. Il film non usa mai nomi specifici e nei rari casi modifica anche quelli noti, prendendosi quindi licenze poetiche come questa; anche Craxi viene chiamato spesso solo come "Il presidente". Il ragazzo, Fausto (Luca Filippi),  gli si presenta in villa di notte, allertando i cani, coperto di fango, forse per ucciderlo nel sonno e quindi allarmando le guardie, che quasi gli sparano se non interviene proprio Craxi a fermarli, riconoscendo sotto il fango gli stessi occhi tristi del padre Vincenzo (Cederna). Bettino crede di avere delle colpe nei confronti dell'amico, che pare essere morto suicida, così decise di tenersi in casa Fausto per raccontargli la sua vita e i suoi segreti, prendendolo in simpatia e sperando che un giorno magari possa fare breccia nel cuore della rigida ma affettuosa figlia Anita (Livia Rossi). La moglie di Bettino (Silvia Cohen) è favorevole a questa iniziativa, pensa che la presenza del ragazzo possa far bene al marito, almeno quanto la presenza del "generale", ossia il piccolo nipote Francesco (Federico Bergamaschi), che spesso gioca con il nonno riproducendo con i soldatini sulla sabbia alcune delle sue gesta politiche più eroiche (come la crisi diplomatica di Sigonella del 1985). Forse con un po' di tranquillità e rispettando la dieta per evitare che il diabete peggiori (difficile perché Bettino è golosissimo, anche in modo buffo) la moglie spera che "il presidente" abbia davanti un periodo sereno. Peccato che la salute presto peggiori e che Francesco si riveli presto un amico pericoloso.
C'è molto dramma Shakespeariano in questa pellicola liberamente dedicata agli ultimi giorni di vita di Bettino Craxi. Più Giulio Cesare che Riccardo III, più Amleto che Otello ma con meno rabbia giovane. C'è una suggestione quasi dickensiana, da Canto di Natale, con Craxi che viene "visitato" da tre spiriti "politici" impersonati da Cederna, Filippi e Renato Carpentieri (anche lui un "senza nome",' ma che dovrebbe impersonare un politico dello schieramento avverso a Craxi). Ci sono tocchi felliniani come la scena di apertura con il vetro rotto e il personaggio dell'amante, interpretato da una struggente Claudia Gerini. C'è molta tenerezza nel rapporto tra il piccolo "generale" e il nonno, il suo "comandante". Favino dà corpo a un "presidente" in bilico tra gloria passata e sconforto per il presente, un guerriero che non riesce a togliersi l'armatura anche quando è nell'intimità della sua famiglia, un uomo che tiene le distanze con il suo eloquio e la profonda antipatia che sa di possedere e, come tutti i timidi, usa come armi. Gli attori sono molto bravi, la scenografia e fotografia ritraggono una Hammamet che dentro le pareti domestiche del protagonista pare Milano 2 ma che oltre la soglia ha tutta la magia e i colori dell'oriente.


Amelio regala alla figura di Craxi, nel ventennale della scomparsa, un film garbato e intimista che fin dalle prime note musicali  del (ottimo) trailer, con Cento giorni di Caterina Caselli, vuole mettere al centro la sua storia umana più che politica. C'è la tragedia umana e familiare, c'è l'epica cantata da un bardo bambino tra sabbia e soldatini. C'è  un piccolo tocco di mistero, tra complottismo e paranoia, a dare un po' di sapore alla salsa, ma è solo un accenno. 
C'è pochissima politica. 
Forse anche perché è ancora difficile per il nostro cinema parlare di politica come lo fanno (o provano almeno a farlo), in America Adam McKay (Vice) o in Francia Nicolas Pariser (Alice e il sindaco), giusto per citare i film più recenti. Forse perché quando ci si avvicina anche solo lontanamente a un tema che può "sentire di politica", come nel recente caso di Tolo Tolo, anche solo per fare la "satira del quotidiano" partono gli strali di stampa, esperti e gruppi di opinione. Quale che sia la causa, il Craxi di Amelio, spogliato dell'epica cantata dal nipotino e di due (dico due) "argomentazioni allusive" esce come uno straordinario uomo comune che affronta la malattia e la passione delusa per il proprio lavoro. Un uomo che fa fatica dopo una vita vissuta tutta nel lavoro a relazionarsi con la sua assenza improvvisa, anche se accompagnata dall'affettuosa vicinanza di familiari e amici, come la maggior parte degli italiani che perdono il lavoro oggi. Un uomo comune in cui lo spettatore comune sa di potersi identificare (o riconoscere il carattere del proprio padre, zio, nonno), come in ogni sceneggiato Rai che "celebrerebbe sulla carta" le vite di persone straordinarie. Dal Gianni Amelio di Lamerica ("scritto tutto attaccato", film che mi è tornato in mente di recente guardando Il primo natale e Tolo tolo, guarda tu i casi della vita), che per me è stato un film che per la sua epoca è stato importante (per il punto di vista originale con cui guardava a un'urgenza emotiva per me malposta ) mi aspettavo qualcosa di più "documentato" e meno "universalistico".
Hammamet ha uno straordinario Favino che grazie ad un trucco molto accurato e uno sforzo fonetico incredibile "diventa" per davvero Craxi, superando per realismo e umanità i mascheroni, un po' da spettacolo di Pingitore, che Servillo ha indossato per i politici raccontati da Sorrentino. La storia rappresentata è semplice, un po' favola e un po' tragedia, non annoia, sa commuovere, ma forse manca di qualche guizzo che davvero metta in luce i motivi per cui Craxi è arrivato ad essere Craxi e per cui oggi si parla ancora di lui, nel bene e nel male. 
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giovedì 23 gennaio 2020

Tolo tolo: la nostra recensione



In Dove vai in vacanza, nell'episodio diretto da Luciano Salice, Sì, Buana, il gigantesco Paolo Villaggio parodiava La breve vita felice di Francis Macomber, uno dei più celebri racconti di Hemingway, impersonando un tragico cacciatore bianco che nel centro dell'Africa offriva il suo talento a qualche ricco turista. Il suo socio Kangoni (Peter Abadire), un ragazzone di colore simpaticissimo, eseguiva ogni sua richiesta dicendo "Sì, Buana". Cosa voleva dire "Buana"? Lo scopriremo a fine episodio e non sarà esattamente un titolo lusinghiero, quanto una amabile lunga presa per il culo dell'amico. Piccolo spoiler: "Buana" è una storpiatura di "Burino", usato in piena coscienza del significato nei confronti del tronfio cacciatore di Villaggio. 
In Tolo Tolo il piccolo Doudou, interpretato dal bravissimo e dolcissimo Nassor Said Birya, guarda teneramente e giudica "tolo tolo",  cioè "solo solo", lo scombinato, truffaldino, rumoroso e molesto personaggio di Zalone, imprenditore scappato in Africa per fuggire al fisco e ai parenti inferociti e poveri per colpa sua. È uno slancio di affetto che commuove, perché sarà da lì in poi il bambino a prendersi cura dello scombinato Checco, e non viceversa, in un contesto di deprivazione che sta stravolgendo principalmente il bambino stesso, impegnato in un coraggioso viaggio per ricongiungersi con la madre, che ha dovuto abbandonarlo per via di una guerra. È una favola, quasi una versione fuori porta di Dagli Appennini alle Ande, il nuovo film di Zalone, il primo che firma come regista e il primo scritto in collaborazione con Virzì. Il comico è sempre la maschera, goliardica e invincibile, che Zalone ha indossato dalla prima pellicola, ma il contesto è più serio, l'impostazione della trama più corale e la maschera funziona più da cortocircuito che da motore dell'azione. In un gruppo di giovani africani, in viaggio on the road per colpa della guerra, capita per un colpo del destino Checco e tutti si preoccupano per lui, sopportando le sue cretinate ma anche traendo forza dalle stesse. Il buffone permette di scherzare su di lui e dona un attimo di felicità e svago, in quello che è un momento umano difficile e sofferente per chi gli è intorno. 


Guardando più a questa che alle precedenti incarnazioni cinematografiche di Zalone viene da pensare alla  funzione sociale e sacra di un particolare "buffone", lo Heyoka (Il contrario) dei Nativi Americani. Checco incarna l'Heyoka alla perfezione, parla quando è più prudente stare zitti, si lamenta quando la situazione diventa più difficile, si dimostra prepotente quando sarebbe necessario essere generosi, invoca la sua crema solare mentre gli altri non mangiano da giorni. E questo "dà forza", fa sentire il gruppo più unito e meno pretenzioso, crea un cortocircuito positivo. Meccanismo che prima o poi si spezzerà se Checco romperà troppo i coglioni, ma che nel breve periodo tiene. Si scava quindi sul significato profondo della parola "simpatia", che significa "soffrire insieme", "condividere le fatiche",  in questa favola on the road. Ma c'è anche dell'altro. Laddove Checco è un "buana tolo tolo", l'amico africano Alexandre, interpretato dal bravo Alexis Michalik, è un forte innamorato della cultura italiana, specie cinematografica, che sfoggia con continua passione. Manda Touré incarna una donna forte ed emancipata, c'è una velata ma gustosa satira politica, si parla in modo non banale di integrazione sociale e uguaglianza grazie alla carinissima canzoncina della Cicogna Strabica, il più riuscito dei momenti musicali della pellicola. Visivamente funziona molto bene soprattutto nei colori dell'Africa (bellissime le dune e il cielo notturno), gli attori sono bravi (soprattutto la compagine africana), le musiche simpatiche (e meno cattive del solito, salvo lo sbracatissimo ma irresistibile inno "alla patata"), si ride meno rispetto alle altre pellicole, ma questo perché il taglio è diverso, Checco non così centrato. È una favola carina, semplice, che punta ai buoni sentimenti, che fa uscire dalla sala canticchiando (ovviamente "la cicogna strabica").  
Certo Zalone deve piacere e chi ne è detrattore non cambierà di colpo idea sulla sua comicità guardando Tolo Tolo. È una maschera da eterno bambinone, ingenuo e un po' cretino, che per alcuni è forse troppo cinica, crudele, superficiale e sbruffona. Deve essere il pubblico a capire se gli fa più ridere che incazzare, personalmente a me fa molto ridere, perché lo trovo troppo stralunato per essere molesto, ma il giudizio finale è tutto vostro. 
Un appunto che mi hanno detto di fare: la storia non è collegata al video musicale che si vede del "trailer musicale", che tutti hanno canticchiato al cinema almeno da un mese a questa parte. 
Tolo Tolo è un film leggero e gradevole, una sorta di favola e per questo meno "graffiante" del solito, più rivolto ai bambini. Niente di rivoluzionario, forse non il film più travolgente di Zalone, ma un modo simpatico e spensierato di passare un paio d'ore. 
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martedì 21 gennaio 2020

Dragonero - Il ribelle - n.3. I guardiani di pietra



Nella ridente cittadina di Floriluncar (non sono stati compiuti atti di violenza sulle consonanti di questa parola, ma qualcuna in trascrizione potrebbe saltuariamente mancare all'appello) sono stati ormai da tempo piazzati in pianta stabile i ripetitori di Radio Signora Delle Lacrime. Una volta un religioso che preferisce rimanere anonimo mi ha spiegato che le chiese sono un po' come emittenti radiofoniche spirituali, quindi quanto sto per delirare qui di seguito... è in parte colpa sua. Varietà religiosi a tutte le ore, tra cui "La signora delle Lacrime e il lotto" e "I bambini cantano le canzoncine della signora delle Lacrime", ma soprattutto le maxi statue-antenne della Dea, che oscurano tutte le frequenze delle altre emittenti radiofoniche minori, comprese quelle che trasmettono la più bella musica degli anni 70-80, la radio spirituale dei fan dei Rockets, gli Eleusi. 


Il gruppo di Fabrice Quagliotti e compagni è infatti seguitissimo nell'Erondar, anche se il modo in cui i loro album sono arrivati rimane ancora un mistero (ma ricordiamo che esiste una dimensione parallela arricchita con le copertine dei Supertramp a cui si accede dalla capitale, quindi tutto è possibile in Dragonero). I fan dei Rockets sono ovviamente tutti pelati e per assaporare la psichedelia del gruppo fanno uso della psichedelia dei funghetti erondariani più psichedelici (c'è chi dice che i funghetti fanno cadere i capelli e ti fanno la lingua nera, ma mi sembra un po' come la storia che si diventa ciechi a guardare le elfe oscure nude e non approfondisco). Gli Eleusi mangiano i funghetti migliori, coltivano i funghetti migliori, vendono i funghetti migliori, amano i Rockets e tutti pelati e psichedelici intonano tutto il tempo, nelle loro casette cittadine migliori, figate assolute come"Galactica". 


Sono la versione rovesciata dei capelloni di Hair, questi Eleusi, gioiosi ma un po' molesti nel loro fascino vintage fine '70. Dai e dai hanno un po' rotto le scatole agli abitanti di Floriluncar ormai fedeli ascoltatori solo di Radio Signora delle Lacrime. Je menano, devono portare il pulmino e i funghi altrove!!! Se a Floriluncar non vogliono più sballarsi con "Galactica", "Future Woman" e "Ziga Ziga 999", gli Eleusi però hanno già trovato il luogo più giusto tra i luoghi Giusti dove trasferirsi: "I sassi". Sembra in effetti dal nome il luogo più triste dei luoghi tristi, ma se ci pensate suona in inglese "Rocks"!!! E Rocks è l'ultimo posto nell'Erondar dove poter far sopravvivere il rock. Presto però qualcuno vorrà "allungare i capelli" a questi hippie al contrario, spingendosi pure nel "Rocks" per portare il Rock fuori dal Rocks, ma gli Eleusi troveranno un sodale alleato nel nostro Dragonero, per l'occasione pure lui "lì a Rocks per il rock", pure lui per l'occasione con un fascino vintage fine anni '70, con ciuffo e nasone che lo fanno assomigliare ad Alan Ford di Bunker e Magnus (vedi pagina 21). E se i bacchettoni proveranno di nuovo a mettersi contro il rock? Allora gli Eleusi scateneranno i loro guerrieri definitivi, degli "uomini fatti interamente di puro rock", i loro guardiani di pietra. Ed io personalmente non farei rotolare le pietre a un uomo fatto interamente di rock. 
Ok ricomponiamoci. 


Per fortuna che gli Eleusi sono pelati e psichedelici quanto i Rockets, per fortuna che ogni tanto la caratterizzazione del nostro eroe e comprimari sembra citare il divertente Alan Ford (è in quei caso tutta una divertita e divertente fiera del nasone e del mezzo sorriso), perché per il resto questo numero tre di Dragonero - il ribelle è qualcosa di davvero cupo e disperato. E non basta a risollevare il morale generale scoprire che Gmor ha "vinto" il soprannome di "Colui che porta il palo", chiarendo meglio la dinamica del legame uomo - elfo, ma soprassediamo. Si parla di fanatismo, quella strana malattia delle idee che se la prende con le minoranze e si ripete sempre ciclicamente, nella storia anche presente. Il fanatismo è qualcosa che "rispunta", spesso dove non te lo aspetti, facendo sempre danni. È un tema duro e da rinverdire ogni tanto da cui Enoch, da sempre sensibile a questa problematica (vedi Gea, Lilith e Spray Liz)  non si sottrae, rievocando non a caso nella sua storia molte opere che parlano della più nota conseguenza del fanatismo ideologico, l'Olocausto. Gli Eleusi sono ritenuti un popolo inferiore, "non allineato", perché pericolosi nel contesto della "nuova" religione totalitaria di stato, quella delle Signora delle lacrime, che nelle stesse pagine dell'albo (pagg. 82-88, molto belle) viene "svelata" dal suo stesso profeta come un mezzo di potere, spoglio da ogni connotazione morale. Enoch porta la tematica delle conseguenze del fanatismo nel fantasy di Dragonero e il tema non cambia di valore e importanza, anche per mezzo di immagini e topoi che ci sono già noti dalla cultura popolare. Gli Eleusi sono già dal lato visivo "diversi", per certi versi "strani", sono tutti "simili" a prima vista, pelati e con il nasone (nasone che avevano i topolini di Maus di Spiegelman). Agli Eleusi Enoch fa vivere situazioni a noi note dal cinema e letteratura. A pagina 16 c'è una sequenza che omaggia direttamente Il pianista di Polanski (lo sgombero di un ghetto in cui un anziano viene buttato giù da un balcone), ci sono le soffitte stipate di Eleusi  nascosti ai fanatici come in Anna Frank, ci sono folle inferocite che si infiammano per poi infiammare i ghetti con i forconi. 
Poi ci sono i golem, anche se qui si chiamano Vhedok, che rimandano al famoso film del 1920, quasi citandolo per il centenario (esisterebbe un film del '15 fantomatico mai uscito ma tagliamo corto), dove si parlava sempre di persecuzione di ebrei, nel XVI secolo, a Praga. Il golem è il vendicatore fantasy per eccellenza della cultura Ebraica, Enoch decide di metterlo nel titolo dell'albo ma glissando sul nome (che poi viene specificato, pur restando "diverso"), "sdoganandolo" come un più internazionale mostro di pietra fantasy. Tutto l'albo è carico di rimandi di questo tipo oltre ad essere pervaso di una forte malinconia. Il finale mi ha ricordato delle opere meta-narrative come il numero 420 di Hulk (dove l'AIDS non si può curare con il siero di Hulk, perché Hulk è un personaggio dei fumetti e l'AIDS un problema reale. Qui in Dragonero succede qualcosa di simile: l'eroe non può esserci per sempre per aiutare i perseguitati contro le discriminazioni, a meno che "tutti diventino eroi".). Riccardi e Rizzato hanno il duro compito di mettere su carta delle scene molto forti di contenuto, oltre che essere scene che comportano molti personaggi al centro dell'azione. Ci sono anche scene più convenzionali di combattimenti a cavallo tra la foresta (molto ben realizzate), ma le scene del "ghetto degli Eleusi" sono davvero potenti, cattive, pesanti, sono qualcosa che si stampa in testa. Poi i due disegnatori ti tirano fuori ogni tanto questo tratto caricaturale alla Alan Ford ed è davvero acqua fresca, attenua in un attimo il tono, lo rende più leggero (per quanto possibile). Davvero un tocco da maestri, unito alla caratterizzazione degli Eleusi. Belli, potenti e dirompenti come meritano i Golem, le pagine da 73 a 80 sono puro power metal. La copertina di Pagliarani mantiene i toni rugginosi delle armature che vediamo dal numero 1 di Dragonero Il Ribelle, l'immagine ha una bella tridimensionalità e comunica quasi vertigine.
L'ultimo numero ci getta nel dramma degli Eleusi, tra magnifiche scene di massa e un passaggio interessante sull'uso "politico" della religione. Non mancano scene d'azione rocambolesche e piene di dettagli. Forse sentiamo che i nostri eroi sono un po' sullo sfondo delle vicende ma il lavoro è davvero buono. 
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sabato 18 gennaio 2020

Attica - il nuovo fumetto Bonelli, firmato da Giacomo Bevilacqua. Ed è un manga!!!




Attica è il paradiso, ma forse è anche l'inferno. È forse il luogo migliore in cui vivere di tutto il pianeta, il più ecologico, sostenibile, tecnologico, ma è riservato, per pochi, servono un sacco di soldi e il visto non lo concedono a tutti. E poi ci stanno le mura, mura altissime che separano questo piccolo mondo esclusivo per pochi eletti dalla masnada dei poveri, arroccati in infinite casette-baraccopoli proprio a ridosso di quelle mura, quasi fino alla sommità.
La giovane Kat "scandaglia", come dice il suo account da detective hi-tech, "scandaglia in rete", cerca sui profili dei social e trova mariti infedeli con conti all'estero, trova le doppie identità del vostro vicino di casa, scopre la verità. Una piccola somma extra e le clienti di Kat potranno avere tutto di tutto del "bastardo traditore", l'accesso alle sue mail, le password. Solo che per gabbare i dati Kat deve essere molto vicina all'obiettivo a volte, cosa che la porterà a trovarsi in una strana situazione al terzo o quarto piano di un parcheggio, a fronteggiare un marito manesco che sembra sempre più simile a un mostro mutante. 
Nello stesso parcheggio c'è però anche Aiden, un calmo e altruista maestro di kung-fu che, senza nemmeno sapere lui come, diventa Foxtail, una specie di Power Ranger dalla personalità acida e schizoide. Foxtail ovviamente si scontrerà contro il marito manesco che sembra sempre più simile a un mostro mutante, e questo sarà l'inizio di una avventura che porterà Kat e Aiden proprio ad Attica, per dare seguito alla profezia di un ragazzino che si è ribellato a Ito, il tiranno locale, con un discorso accorato tenutosi in un mercato rionale, rigorosamente sopra una cassetta della frutta. 


Ok questo è il "magma", con varie omissioni che lascio a voi scoprire, del primo numero di questo arrembante e sorprendente nuovo fumetto dell'autore di A Panda piace. Si parla (per ora) di una miniserie da 6, distribuita nel circuito delle fumetterie, che a tutti gli effetti vuole presentarsi come "manga", per tematiche e impostazione delle tavole, in primis un alto e ben gestito uso dei retini, passando per una caratterizzazione molto Kawai dei personaggio e una gestione molto dinamica delle scene action. Bevilacqua, che qui scrive e disegna, fin dai tempi di A Panda piace era chiaro avesse un amore sconfinato per il disegno e la cultura orientale, che spesso ha saputo ibridare, far proprio e reinventare, con la classe e proprietà di linguaggio della cucina fusion. I suoi personaggi sono stilizzati ma dalle movenze ed espressività chiarissime. Nelle scene "di calma" si avverte la fragranza della commedy della Rumiko Takahashi, nelle scene action c'è la leggibilità dei movimenti e velocità di Akira Toriyama, ogni tanto appaiono rivoluzionari misteriosi con i pugni al cielo che profumano di Eichiro Oda. Qualche ceffo ricorda i sogni più organici di Takaya Yoshiki. I suoi paesaggi urbani scorrono fitti e dettagliati nella skyline come in Katzuhiro Otomo, per poi scendere sulle strade, sempre con lo stesso ma diverso  "gusto anni '80", nei negozietti e vicoletti di Tsukasa Hojo. Ma tutto quanto è fuso, reinventato e fatto proprio da Bevilacqua, è una evoluzione naturale del percorso di A Panda piace, che pure a me qui piace, e tanto pure!! Come mi era piaciuto il suo numero de Le Storie, Lavennder, che in senso diverso si ispirava a Manara, Crepax e ai fumetti di Scorpio, pur rimanendo nella gestione della tavola, nel gusto e stile riconoscibile, il suo stile. Confesso di essermi ritrovato, come ai tempi di Lavennder, trascinato in Attica dalla quinta pagina fino alla fine, tutto di filato. Le prime pagine però, mannaggia. Troppi dati e troppa poca voglia di leggerli, una autentica peperonata per antipasto che taglia le gambe. Resistete e il fumetto si aprirà a voi come un fiore, apprezzerete la raffinata struttura circolare degli eventi, assaporerete i primi scampoli di una storia, invero piuttosto fosca, che per ora si contorna in modo intrigante. Kat e Aiden appaiono già come personaggi ben tratteggiati, con un interessante e misterioso passato alle spalle, con un proprio modo peculiare di stare sulla scena, con il loro buffo e contorto modo di relazionarsi. Kat "scandaglia" e guarda tutti i dettagli in modo maniacale come il Sherlock di Cumberbatch, ma riesce comunque a ficcarsi nei casini. Aiden ha questo fare da maestro zen super positivo, ma si trasforma in un supereroe che è di fatto un cinico stronzo, esilarante. Gli altri personaggi sono ancora molto misteriosi, ma si segnala un luciferino uomo d'affari con occhiali e denti da squalo, che forse sa volare con un ombrello come Mary Poppins. 
La storia è ancora troppo sfumata per ragionarci sopra, ho gradito moltissimo l'azione e la caratterizzazione del personaggi, lo stile visivo che passa dal quasi minimale e umoristico dei personaggi all'ultra dettagliato degli scenari e veicoli non è male. Se le good vibratios proseguiranno ve lo farò sapere, tra poco dovrei avere tra le mani anche i capitoli 2 e 3. 
Un plauso alla Bonelli che ha accolto questa nuova sfida editoriale confezionando un prodotto ben curato e accattivante, scegliendo anche un canale qualche volta difficile per i grandi numeri come le fumetterie. Mi piacerebbe che in furori Attica facesse il botto e arrivasse in edicola, magari insieme a una serie animata a farne da traino. Bevilacqua ha confezionato quello che per ora è un piccolo gioiellino, che speriamo si confermi e alzi la posta con il numero 2. 
Talk0

mercoledì 15 gennaio 2020

Playmobil - the movie



Charlie e Marla sono due piccoli fratellini felici, pieni di sogni e di pupazzi Playmobil, che sognano di viaggiare, grandi avventure, combattere i draghi, sempre insieme, senza litigare, creando storie nuove ogni giorno, insieme. Nel mondo dei pupazzetti Charlie è un vichingo, Marla un cavaliere in armatura, il mondo tutto loro e i cattivi si possono sconfiggere tutti con la loro mossa combinata finale. Poi passa qualche anno, la vita va per il verso sbagliato e i genitori non ci sono più. Marla, la più grande, si assume il ruolo di madre del fratellino, deve lavorare per trovare i soldi per vivere con lui, è piena di impicci, non ride più, non gioca più con Charlie e i Playmobil vanno in soffitta. Charlie pensa che Marla non gli voglia più bene, fa i capricci, non vuole andare a scuola e un giorno, sorpresa, arriva in città una mostra dei Playmobil gigantesca. Una mostra a cui Marla non vuole portarlo ma alla quale Charlie ci va, con la sorella che lo insegue, fino a che, nella stanza più grande dell'allestimento, che pare la Mini-Italia del Playmobil, i due si ritrovano, si scontrano e, dopo un fulmine che cade dal cielo, spariscono. Marla si risveglia in un mondo fatto di Playmobil, fatta anche lei come un Playmobil. Non trova Charlie, ma è sicura che da qualche parte, nel suo vestito da vichingo, riuscirà a trovarlo. Deve solo farsi aiutare da nuovi amici e trovare dentro di sé la guerriera in armatura di plastica che era da bambina.
Lino Di Salvo scrive e dirige un film dedicato al pubblico dei più piccoli, i realizzatori sono gli stessi del Piccolo Principe e si respira un po' la stessa aria anche qui, al netto di una malinconia più contenuta. Cristina D'Avena e J-Ax danno corpo a un paio di personaggio davvero divertenti, ci sono delle canzoncine subito orecchiabili. La produzione è di buon livello, è tutto giusto e tarato a livello di bambino, il racconto è pieno di azione e buoni sentimenti, fa venire voglia di andare a ripescare i Playmobil che un po' tutti dovremmo avere a casa in cantina o in soffitta (quanto era bello il galeone dei pirati!!). L'universo Playmobil è ben rappresentato tra luoghi, personaggi e giocattoli più noti, facilmente qualcuno ricorderà qualche pezzo della propria infanzia, gli attori hanno voci frizzantine e se avete otto anni vi divertirete un mondo. Probabilmente se portate al cinema con voi un bambino di otto anni, vi divertirete vedendo lui divertirsi. Faccio più fatica a immaginare dei quarantenni che vengano travolti dalla storia e personaggi al punto da andare a comprare dei nuovi set Playmobil, ma credo che non fosse questo lo scopo della produzione. Se Lego ha ammiccato con i suoi prodotti a un pubblico più vasto e adulto, facendo leva sul potenziale infinito delle costruzioni a mattoncino, alimentando mille citazioni e re-invenzioni, Playmobil sta nel suo target di riferimento, i bambini, pur ogni tanto strizzando l'occhio al cinema e alla cultura pop, sottolineando e valorizzando la bellezza e versatilità di mondi fantastici alla loro portata. Il film di Di Salvo è come un pomeriggio passato nel soggiorno del vostro nipotino, sul tappeto, a giocare con lui tra pupazzi buffi e più o meno aguzzi quando vi finiranno sotto i piedi. Se vi piace l'idea o avete otto anni è il film per voi.
Talk0

lunedì 13 gennaio 2020

Halloween - il "reboot" di David Gordon Green: la nostra recensione




La trama in breve: presente. Sono passati quarant'anni dagli eventi di sangue del 1978 che hanno colpito nella notte di Halloween la piccola cittadina di Haddonfield nell'Illinois. Il ventenne Michael Mayers, che nel 1963, aveva ucciso la sorella durante la stessa notte, era evaso dal manicomio dove era rinchiuso, aveva percorso due ore di macchina senza aver mai saputo guidare ed era tornato nella cittadina di origine, uccidendo alcune persone facendo uso di funi e coltelli. Indossava una maschera bianca rovinata, con le fattezze del Capitano Kirk di Star Trek. Era stato fermato e rinchiuso di nuovo, mentre una delle sue vittime, Laurie, (Jamie Lee Curtis), miracolosamente sopravvissuta alla mattanza, non è mai riuscita a superare quel trauma, diventando con gli anni una donna aggressiva e autoritaria. 
Ora, nel 2018, mentre un ormai vecchio Michael sta per essere trasferito in una nuova struttura detentiva, due giornalisti in cerca di una storia riescono a incontrarlo e gli portano la stessa maschera bianca che aveva indosso nel 1978. Sarà l'inizio di una nuova mattanza.


È tornato anche Michael: Ero al cinema a vedere l'ultimo Terminator, Dark Fate, quando mi è tornato in mente questo film del 2018 prodotto da Blumhouse e Universal, seguito ufficiale e benedetto da John Carpenter in persona del solo e unico primo capitolo di quello che poi è diventato un vero e proprio franchise, l'Halloween del 1978. Nell'articolo sull'ultimo Terminator parlo di come per me il primo film di James Cameron sia almeno al 70-80% un rip-off di Halloween. C'è un mostro inarrestabile che indossa una "finta maschera umana", una donna con un destino avverso (si parla di destino e della capacità o meno di cambiarlo il una sibillina sequenza ambientata a scuola nel primo Halloween) che dovrà affrontarlo laddove gente più preparata e venuta allo scopo ha fallito per anni (Il Doctor Loomis di Peasance ha stesso scopo e informazioni, ma forse è però meno sexy, del Kyle Reese di Michael Bien, peraltro con a curriculum un altro personaggio "aiutante" di una altra celebre final girl, in Aliens), c'è una placida provincia americana come scenario. Poi ovviamente c'è una "salsa diversa", ma il succo è quello, a volte pure le scelte di fotografia. Amo Michael quanto il T-800, amo Laurie quanto Sarah, non è una gara e sono fan di entrambe le saghe. Nella mia testa avevo già scritto l'anno scorso la recensione di questo Halloween del 2018, pensavo pure di averla pubblicata (al punto che oggi sono andato a cercarla in archivio) ma credo di aver perso il file. In quel file avevo scritto di come David Gordon Green con questo Halloween avesse a sua volta omaggiato Terminator 2, facendo vivere alla Laurie Stode di Jamie Lee Curtis un percorso da Final Girl a guerriero definitivo, minaccioso quanto paranoico, simile a quello intrapreso dalla Sarah Connor di Linda Hamilton. Ora, nel 2019, vedendo l'ultimo Terminator mi sono stupito di come praticamente rielabori delle idee da questo Halloween del 2018! A partire dalla bellissima dicotomia mostro e final girl entrambi "invecchiati ma ancora ruggenti", passando per le tre generazioni di donne protagoniste, toccando il tema dell'educazione della "più giovane", perché il male, anche se sconfitto, prima o poi può presentarsi in nuove forme senza poter essere sconfitto per sempre. Con due seguiti già programmati (anche perché Halloween è costato una caccola rispetto a Terminator, incassando tantissimo), che ora si stanno girando step by step per via di un meritato successo di critica e pubblico, chissà che Terminator prenderà spunto anche dai futuri capitoli di Halloween.
Quindi colgo l'occasione per parlarvi un po' di Halloween, rigorosamente dopo che la festa è passata, per essere meno mainstream possibili. Vi parlo della nuova pellicola in parallelo a quella del 1978, invitandovi a vederle insieme (prima 1978 poi 2018), per cogliere il modo magistrale in cui si combinano tra loro.


- Le mille vite di una saga: Halloween, il cui titolo di produzione era The Babysitter Murders, è un film semplice, diretto ed emozionante, dotato di personaggi e una colonna sonora indimenticabile. Come i cuochi più esperti potrebbero certificarvi, realizzare qualcosa di semplice riuscendo a stupire è in realtà di una difficoltà assoluta, bisogna essere perfetti negli ingredienti e cottura, perché tutti "a pelle" sanno di poter realizzare qualcosa di semplice. Nella sua semplicità Halloween è considerato a ragione un capolavoro, un archetipo del genere, per il modo in cui descrive i personaggi, per la tecnica di ripresa utilizzata, per l'uso della colonna sonora. Personaggi realistici (né buoni né cattivi), telecamera a mano (usata per delle soggettive e per un taglio più da documentario, e all'epoca non c'erano i cellulari, le telecamere erano enormi e pesavano!!), musica che dialogava con la scena senza anticiparla (come era uso negli horror classici, mentre qui ha anche funzione di "bus", alzandosi e trovando note in evidenza, spesso stridenti, solo quando l'azione effettivamente si realizza, "a tradimento"). Praticamente ogni slasher in seguito ha "giocato a imitare Halloween" (o la scena del bagno con le medicine dietro lo specchio, creata da Landis per Un lupo mannaro americano a Londra), moltissime opere hanno cercato di replicarlo (Venerdì 13 su tutte) o dovuto per forza di cose confrontarsi con la sua fama (Nightmare). Nella sua semplicità, il film del 1978 riesce a essere criptico, misterioso, nella caratterizzazione di Michael. Non è spiegato perché usi una maschera quando uccide, non si comprende la sua apparente immortalità, non si capisce se abbia sentimenti o regole nella sua scelte delle vittime. C'è solo un bisogno primario, per i più Freudiani scaturito quando da piccolo ha cercato di penetrare con un coltello sua sorella mentre nuda si truccava allo specchio. Un bisogno che sembra fargli seguire altre vittime come un predatore, osservarle da lontano per poi colpirle ma rimanendo lucido, reagendo in modo intelligente nel caso qualcuno si sovrapponga al suo piano. Oltre alla Final Girl ad affrontarlo c'è uno psicologo, il Dottor Loomis, che diventerà ricorrente in tutti i film fino alla morte dell'attore, Donald Pleasence. Loomis ha un legame quasi paterno con Michael, che di fatto chiama sempre per nome. Avendolo supervisionato per 15 anni, ma trovandosi incapace di curarlo, si è trasformato in una specie di crociato. Convinto che Michael sia "male allo stato puro" vuole che venga condannato e giustiziato dalla società, portandolo sul patibolo con le sue stesse mani, colpevolizzandosi di non aver potuto fare di più. Donald Pleasence è una specie di Van Helsing, un uomo di scienza che scruta i limiti del suo sapere e si arrende alla propria impotenza, ma anche un personaggio allegro, spesso gioviale ed eroico. 
Un altro personaggio è la cittadina di Haddonfield, percorsa metro per metro con la telecamera a mano seguendo i percorsi da casa a scuola delle babysitter. Chilometri a piedi di adolescenti reali, che parlano di loro problemi piccoli e grandi di tutti i giorni, inquadrate come secoli dopo in Elephant di Gus Van Sant. La calma dei paesaggi ha contrappunto nella colonna sonora, opera dello stesso Carpenter, che non lascia un momento di pace, evidenziando la tensione a ogni passo, facendoci scorgere la minaccia del mostro in agguato anche quando la sua sagoma da stalker non viene intravista tra le siepi o dietro una porta delle casette del viale alberato. Le ragazzine parlano e camminano in queste stradine verdi e ordinate, un po' stile Edward Mani di Forbice, mentre noi avvertiamo che qualcosa di brutto è in agguato. Qualcosa di cui loro sono consapevoli, perché essere seguiti è una sensazione percepibile, ma che sottovalutano proprio perché è Halloween e seguire le persone per spaventarle è accettato, incentivato durante questa festa. 


Visto il successo al botteghino, è arrivata la voglia di sequel. Il primo, datato 1981, come una continuazione diretta, senza inventare o evolvere molto, ma stabilendo un possibile legame tra mostro e Final girl (che poteva essere sottinteso nel primo film) e offendo uno scenario, l'ospedale, sufficientemente claustrofobico e pieno di idee visive interessanti legate al posto e al particolare modo in cui si era scelto di impostarne la fotografia del grande premio Oscar Dean Cundey (un bianco e nero dalle tonalità blu scuro che sarà "prestato" alla saga di Terminator). Insomma, Laurie era imparentata con Micheal come pochi mesi prima, anno 1980, avevamo scoperto che Dart Vader era padre di Luke Skywalker. Era un periodo filmico che dove ti giravi trovavi giovani protagonisti buoni di film fantasy/horror imparentati con i cattivi, i loro stessi genitori, che erano cattivi in quanto frutto di una società precedente, con una scala di valori ormai inaccettabile. Per qualche sociologo era la voce di generazioni nate dopo le gradi guerre che giudicavano i loro padri per i loro errori passati e recenti, come il Vietnam. Michael fa la prima mattanza nel 1963, anno del più alto invio di americani in Vietnam, 15.500). I fan di Star Wars dicevano che "Il mondo sta copiando Star Wars", dimostrandosi già all'epoca dei luminari. Ad ogni modo Halloween 2, aumentando il numero dei morti come regola aurea vuole e puntando più o meno sulle stesse carte, fece il suo lavoro dignitosamente e fu un buon successo. Ma l'assenza di Carpenter alla regia si sentiva, con il regista che per altro stava girando La cosa, remake de La cosa dell'altro mondo, uno dei film che venivano visti dai bambini e dalle babysitter durante la notte del primo Halloween. Per Halloween 3 sembrava non ci fossero idee nuove su Michael, si parlava di girare pagina e creare una specie di serie antologica, venne sviluppata una trama diversa con protagoniste sempre delle maschere inquietanti. Non brutto ma un po' fuori tema, i fan volevano ancora Michael e  così tornava Michael per i capitoli 4, 5, 6 di una trilogia rimasta ancora in parte inedita in Italia. Il 4 non è nemmeno così malvagio, il 5 e 6 sono piuttosto bruttini. Michael qui veniva narrativamente "spiegato del tutto", anche perché occorreva qualcosa da inventarsi oltre alla sequenza di omicidi, in quanto il personaggio della sua nemesi originale, la Final girl della Curtis, dal secondo film non era più tornata in scena (perché nel frattempo la Curtis, diventata "miss seno d'America", era passata ad attrice brillante per Una poltrona per due e poi Un pesce di nome Wanda, la farà tornare action girl James Cameron nel 1994 con la parte di super sexy milf definitiva in True Lies). Michael veniva detto (nel classico modo confuso di tutti i film horror all'alba del capitolo 4 del brand) che era una sorta di burattino satanico che veniva utilizzato dai cittadini del paesello per ricevere prosperità e successo in cambio di un piccolo sacrificio, sfiga e disgrazia per una delle loro famiglie scelta dal destino. La famiglia di Michael era predestinata ad autodistruggersi immolandosi per la setta, per mano del bambino posseduto da un demone che non essendo riuscito a finire l'incarico era tornato in pista 15 anni dopo, nel mentre avendo strategicamente ucciso le figlie di altre famiglie sacrificali. Se all'epoca ci fossero stati i nerd complottari con YouTube, qualcuno avrebbe pure notato in Halloween 1 una bambola come Annabelle nella stanza di Laurie, inventandosi che il vero demone era quello e tutto Halloween è collegato alla saga di James Wan e Warner Bros / New Line. Sintetizzando, un risvolto che è poco divertente, macchinoso, un po' pretestuoso, privo di mordente, banalissimo e che per poco uccide il franchise. Ma nel 1998 al cinema arriva l'episodio 7, Halloween H20  in celebrazione dei venti anni dei brand cavalcati a tutto spiano per riportare il pubblico in sala. Non si si parla più di demoni e bambolotti, con la trama che si riavvolge considerando canonici solo i primi due capitoli, con i complottari dell'epoca che vedevano anche 4, 5 e 6 in "continuity nascosta", roba da veri "believers". Interessante il fatto che nel 1998 esca pure Scream, che celebra gli slasher-movie proprio citando Halloween in modo diretto. Se nella scuola di Scream il preside è Fonzie di Happy days, icona immortale degli anni '80, nella scuola teatro del nuovo Halloween il preside è ancora Jamie Lee Curtis, icona immortale anni '80 pure lei (non alziamo l'età ad una signora). Il film è diretto da Steve Miner, regista anche "della concorrenza", di quei Venerdì 13 2 e 3 che avevano scopiazzato senza pietà Halloween (perché voi sapete chi è il villain del primo Venerdì 13) e di quella perla con Julian "Aracnofobia" Sands di nome Warlock e di una delle mie horror comedy preferite, Chi è sepolto in quella casa. Si parla nel film di come Laurie non fosse morta fuori campo perché l'attrice non c'aveva voglia di girare Halloween 4, 5 e 6, si inventa una scusa credibile che le dà un background tragico e si allestisce un re-match alla presenza di una figlia non riconosciuta di Laurie e con la partecipazione della madre della stessa Laurie (la diva Janet Leigh, la vera mamma di Jamie Lee Curtis). Avevamo quindi tre generazioni di Stode in scena, segnate questo dettaglio che poi ci ritorneremo. Il film va bene, tra le chicche mostra gli occhi di Michael dietro la maschera e tutto si commuovono, non è assolutamente 'sto capolavoro e anzi si segnala per un Josh Hartnett pettinato come un vero deficiente e per una diffusa mosceria del cast, comunque si mette in cantiere il film del 2002, Halloween Resurrection. Il regista a sorpresa è Rick Rosenthal, già dietro alla macchia da presa per quel comunque riuscito Halloween 2 del 1981. Si cambia un po' strada di nuovo, si punta alla stronzata divertente che strizza l'occhio alla nuova mania di quel momento, i reality show. Così degli attori improbabili danno vita a dei proto-influencer ancora più improbabili, che vengono invitati da Busta Rhymes in persona a passare una notte, ovviamente sotto l'occhio delle telecamere, nella casetta abbandonata di Michael. Una situazione abominevole. Jason pur vestito da pagliaccio Power Ranger per Jason X del 2001 non era caduto tanto in basso. Il film in sé è pure divertente, ma si guarda con una tristezza infinita e giustamente fa affondare la baracca. Nel 2007 arrivava il reboot di Zombie ed Halloween tornava ad avere un cuore, al punto da piacere e generare un sequel autonomo nel 2009 (che sarà come tradizione vuole un mezzo passo falso). Il regista della Casa del diavolo prese Michael e lo reinventò, pur formalmente seguendo alla lettera il film originale. Zombie cercava di farci addentrare nell'animo di Michael, voleva farci vedere il suo mondo al di là del suo modus operandi da predatore. La sua ossessione per le maschere diventava una sorta di sfogo artistico, i suoi legami forti con il personale della clinica facevano intuire un'esistenza non del tutto terribile  (anche grazie a un enorme e umanissimo Danny Trejo a dare supporto morale), le rappresentazioni mentali con cui leggeva il mondo e che apparivano simili a quanto percepiva sua sorella, una  "nuova" Final girl che nasceva quindi imperfetta, malata (la bella e brava Scout Taylor-Compton). C'era anche un trascorso di abusi subiti abbastanza evidente, a opera degli strani amanti che la madre portava in casa. Era un uomo nero ancora più grosso e minaccioso, un gigante muto che però era cresciuto in un contesto familiare diverso dalla perfetta famiglia americana del primo film, con una madre presente ma forse non in grado di accudirlo, (la mitica Sherie Moon Zombie, nella sua parte più dolce). Soprattutto era stato un ragazzino difficile con problemi mentali non adeguatamente affrontati che diventano nella seconda pellicola qualcosa di peggio, delle vere e proprie "voci nella testa" che proiettavano una distorta immagine materna, forse un po' dalle parti (ma con meno metafisica) dello stesso tormento che muoveva il "collega" Jason di Venerdì 13. Questo Michael aveva intenti vendicativi legittimi verso chi si era approfittato di lui senza aiutarlo, ed il Loomis di Malcom McDowell è un ripugnante approfittatore. Insomma, la casetta nel verde della famiglia perfetta dove abitava una forza distruttiva senza forma e senso (ogni riferimento al Joker di Ledger è puramente casuale), diventava una lurida magione di periferia davanti alla quale l'assistenza sociale girava al largo (ogni riferimento al nuovo Joker di Phoenix è puramente causale). Visivamente sontuosi, i due film di Zombie, quasi fotocopia classico del 1978 il primo e del tutto matto e rivoluzionario ("zombiezzato") il secondo, portarono Michael da un'altra parte ancora, lo "universalizzano" nelle fasce più deboli della società. Nascosto tra gli homeless, pronto a rispondere e insorgere contro i privilegiati più insensibili, indossando una maschera bianca che tiene nascosta in una tasca della giacca (anche questo mi ricorda un Joker che indossa una maschera da Joker di un film recente). Michael può essere ovunque e può essere radicato in chiunque, contagioso e nascosto nel DNA di qualcuno. Non avvallato al botteghino come il film del 2007, Halloween 2, bello ma decisamente lontano al modello originale, non avrà un seguito. E così arriviamo al 2018.
Il film del 2018 torna al 1978, immagina un epilogo diverso con gli eventi del sequel mai accaduti e di fatto azzerando tutte le precedenti evoluzioni del franchise. Cosa combina? Già si stanno girando due seguiti, perché le cose sono andate bene e possiamo quindi fare dei felici paralleli tra l'Halloween originale e questo. 



- Il primo e ultimo Michael: a indossare la maschera del cattivo nel 2018 è Nick Castle, che riprende il ruolo dopo essere stato il primissimo Michael dell'Halloween del 1978. A dargli una mano con gli Stunt c'è James Courtney, ma il buon Nick, che è stato per anni un collaboratore di Carpenter, fa gran parte del lavoro. Castle è anche un regista e ha diretto una delle pellicole anni '80 a cui sono più affezionato, The last starfighter (Giochi Stellari in Italia). Il suo Micheal è una creatura gigantesca e terribile, ma anche silenziosa (si muove nel buio non facendo rumore), amante della tattica (ha spostato più cadaveri lui che Snake in Metal Gear, ama riempire di trappole i suoi terreni di caccia), attendista (segue la vittima per ore intere), spesso veloce ed essenziale nell'esecuzione (non è un esteta o un particolare sadico, punta al sodo), soprattutto intelligente (sa raccogliere indizi e usarli). C'è qualcosa di soprannaturale in lui, in qualche modo legato alla sua maschera, che riesce a "sentire a distanza" (è strano e terrificante il fatto che non emetta alcun rumore, ma quando indossa la maschera lo sentiamo "respirare con affanno", come se provasse imbarazzo o godimento da quel comportamento), ma di fatto è un incredibile combattente, una specie di Rambo che misteriosamente non ama le armi da fuoco. Il film del 2018 segue quindi per Michael lo stesso spirito dell'originale, senza indugiare in svelamenti identitari che forse lo depotenzierebbero. Michael fa paura perché è insondabile. 

- La sola (e triplice) Final girl: Jamie Lee Curtis aveva 20 anni nel 1978, era al suo primo film. Alta, di una bellezza androgina da infarto, intelligente, determinata nonché credibilissima come combattente di mostri. Quando fu scelta da Carpenter si stava allenando per entrare nell'accademia militare e dietro agli abiti castigati e il ciuffo di capelli gioiosamente vaporoso di Laurie Strode nasconde non troppo bene la determinazione di una tigre. Il povero Michael, dopo un filotto di vittime abbattute senza sforzo, si trova davanti qualcuno che sa smontare un attaccapanni per creare spuntoni cava-occhi, riesce a rubargli il coltello/fallico per pugnalarlo a sua volta e probabilmente sarebbe riuscito a strozzarlo (l'attore e il personaggio) se non che appare fuori campo qualcuno che spara al mostro, permettendogli fortunosamente di scappare. E non vi ho detto quanto è brava a raccontare le favole, creare zucche votive con un art attack, far rispettare ai bambini l'ora del pisolino e in caso di emergenza occuparsi di altri bambini, fare il popcorn e vigilare sul lavaggio dei denti!! È la babysitter definitiva che non si fa prima abbattere per poi vendicarsi come la collega protagonista, nello stesso anno del signore 1978, di I split in your grave (tradotto dalle nostre parti con l'ancora allucinante titolo/preghiera Non violentate Jennifer). Jennifer non si è ancora "messa a nudo" per Dan Aykroyd, accadrà nell'81, offrendoci con le sue grazie la massima prova dell'esistenza di Dio, nel 78 è solo un concentrato di acerbo coraggio ed elegante determinazione. 
Nel 2018 la Curtis se ne esce con una pubblicità a questo nuovo film che mi inquieta. Dice che non si parlerà più di Halloween, ma di "Hallo-women" (che si legge "allowimen"). È già in questo momento infernale, che spero finisca presto, del post "metoo", dove le donne si sono impossessate di ogni pellicola per urlare che sono meglio degli uomini in qualsiasi cosa, comprese quelle cose di cui alle donne non frega nulla. È una campagna pur legittima, ma che finirà se non contenuta per scatenare i più bassi istinti misogini anche in un santo. Peraltro Halloween è una saga che da sempre parla di donne forti, che riescono a essere eroiche quanto affettuose, gentili quanto letali. Non ci sono damine in pericolo, è semmai l'opposto. Pertanto le donne di Halloween 2018 non sono affatto le stucchevoli donne-so-tutto di Ghostbusters, MIB internazional, Captain Marvel, ma vengono toste dalla tradizione della Ripley di Sigurney Weaver, la Sarah Connor della Hamilton, la stessa Laurie Strode della Curtis, la Red Sonja di Brigitte Nielsen. Sono guerriere Laurie (la Curtis), la figlia Karen (Judy Greer) e la nipote Allyson (Andi Matichak), educate fin da giovani a combattere, al punto che sull'esasperazione di un infinito training i rapporti si sono logorati e hanno reso realisticamente le loro vite uno schifo. C'erano nonna, figlia e nipote anche in Halloween H20, ma la famiglia lì era qualcosa da cui fuggire, un peso da dimenticare. Nel nuovo Halloween la famiglia è un motore che faticosamente si tiene insieme e i suoi singoli ingranaggi, le "Final girl" agiscono con uno scopo, a un certo punto prendendosi gioco del loro aguzzino, fingendo di essere delle persone deboli, umane. Il finale è pura epica e si fa potente proprio per queste donne che agiscono insieme con un realismo e coerenza che le varie ghostbusters e altre farlocche varie non hanno. E far vedere che le donne sono forti, come in questo Halloween, è più utile alle donne che rappresentarle forti a parole ed effetti speciali. È ciò che passa tra il fare l'attrice in un film o essere una sorta di cartellone pubblicitario dei diritti femminili. E in tema di donne...



- Ragazzine che fanno le ragazzine, ieri come oggi: uno dei punti di forza dell'Halloween classico è il contesto realistico della provincia americana. Le babysitter di Carpenter potevano essere benissimo le vostre vicine di casa, un po' sante e un po' no, "vere" e coerenti nel loro piccolo mondo. Non erano stereotipi urlati e bozzettistici come il 90% delle vittime degli slasher, erano gente credibile la cui dipartita (siamo in un horror e le dipartite capitano) ti dispiace. Anche Rob Zombie aveva riposto particolare cura a questo aspetto, ma forse aveva esagerato in venerazione/replicazione al punto che le babysitter del suo personale Halloween avevano molto il mood di una celebrazione di quelle babysitter anni '70, come lo Psycho di Gus Van Sant. David Gordon Green e Danny McBride sono dei "bro" di James Franco e Seth Rogen. È gente dietro a robe come Suxbed - tre metri sopra il pelo, Lo spaventapassere, Strafumati on The Road e molta commedia scorreggiona. Non per questo si sono limitati alle risate grasse, lavorano anche a ottimi drammi come Stronger con Jake Gyllenhaal, ma la cifra migliore dei loro lavori risiede sempre in un modo molto spontaneo di rappresentare i giovani. Le babysitter del 2018 parlano e si comportano quindi come normali ragazze del 2018. Si fanno le canne, sono brave studentesse, convivono con la forfora, si occupano davvero dei bambini che curano, bevono, si preoccupano per la nonna che è troppo sola. Sono sensibili e fanno cazzate, come tutte le ragazzine, "zero stereotipi viventi" e centro pieno per il coinvolgimento emotivo. Un'altra regola aurea degli horror (dopo l'aumentare il numero di morti nel seguito) applicata da Tarantino nel suo omaggio al genere, Bullet proof- A prova di morte. Ve lo ricordate, in versione estesa? È uno dei miei film preferiti. Minuti e minuti in cui delle ragazze normali parlano di problemi normali fino a che arriva un mostro a distruggere la loro innocenza (Si, anche Jungle Julia alla fine è una ragazzona infelice, nonostante la super carica sexy, e ci dispiace per lei). Perché funzionano le babysitter come "ragazze normali", funzionano anche tutti i personaggi che ci gravitano intorno. I loro coetanei /spasimanti sono deficienti quanto basta, i bambini sono teneri e convincenti nel sentirsi spaventati e inadeguati (mitico il bambino che sogna di fare il ballerino), gli adulti hanno uno scopo per cui esporsi eroicamente o fare errori clamorosi. 


- La notte: Nella notte del '63 il piccolo Michael, con sul volto la maschera di un pagliaccio, prima spia la sorella nuda da dietro l'armadio (scena omaggiata anche dalla commedia horror Il ritorno dei morti viventi del 1985, da un bambino con però la maschera di Frankenstein), poi esce dal nascondiglio e la accoltella, con la testa (lo vediamo perché l'inquadratura è argentianamente in prima persona) che sembra andare da tutte le parti, non si capisce se per un rigurgito di vergogna, per odio o per una sensazione simile all'orgasmo. Di sicuro sono i corpi femminili quelli che nella sua vita più predilige come omicida, quelli con cui "gioca di più", ma da bambino rimane indifeso, viene fermato dai genitori e una volta smascherato si ferma, non proferirà più parola per 15 anni. Nell'Halloween del 1978 si respira aria di coprifuoco. Gli amori tra ragazzi sono clandestini, all'ombra di adulti assenti come su una striscia dei Peanuts. La notte delle streghe arriva piano, con il sole che scende e si accendono le poche luci dei lampioni, con le strade che si popolano di pochi bambini. Michael si nasconde e confonde con la vegetazione, esce dal buio e ritorna al buio dopo un'esecuzione. È un ragazzone in forma che gioca al gatto e il topo, freddissimo e quasi chirurgico nelle azioni. Ha ancora bisogno di una maschera per sentirsi bene mentre uccide, se nel passato aveva avuto un'unica vittima, ora punta ad averne tre, a triplicare il piacere. Non senza dimenticare la prudenza, calcolando piani fulminei per bloccare sul nascere chi disturba i suoi piani. La notte di Halloween del 2018 è un vero casino. Le strade sono più illuminate e popolare di Riccione, i ragazzi vanno alle mega-feste e le babysitter sono in meno anche se di razza, come la bellissima Vicky di Virginia Gardner. Se Michael non facesse un vero casino, nessuno si accorgerebbe di lui. Sembra quasi che patisca la presenza di tutta quella gente "a casa sua", lo fa agire per frenesia come fosse (ed in effetti è) un vecchietto a cui scoppia la testa per il troppo casino. Anche la maschera riconquistata non gli dà gioia come un tempo, anche le donne diventano un trastullo meno interessante. Sembra Grendel del Beowulf di Zemekis, una creatura che agisce con fretta e frenesia perché lo stanno stressando e questo lo rende meno lucido, più inutilmente brutale. 
È un'evoluzione interessante del personaggio, ce lo rende più """"vicino""" ai canoni umani vederlo così spaesato. Anche se l'old Michael semina un casino infinito, dieci volte peggio del 1978, spesso arranca, viene investito dalle auto, deve fare affidamento su aiuti inaspettati per riprendersi dopo l'ennesima botta e non riesce più a nascondersi come prima, al punto che quasi lo fa fesso un ragazzino e l'esecuzione più riuscita è quella di una massaia che guarda Barbara d'Urso. Pare di leggere Senilità di Svevo e un pelo si rimpiangono le fesserie da reality show di Resurrection, ma il nuovo Michael ci piace, insieme alla sua maschera ormai consunta che ha sempre più l'aspetto di una coperta di Linus. Magari invece di Loomis o dello psicologo nuovo (che dà comunque delle gioie, non vi rovino però la sorpresa), Michael vorrebbe parlare con la psicologa Lucy. E qui chiudo perché citare tre volte il fumetto di Schulz parlando di Halloween mi fa troppo strano.
-Conclusione: dopo mille tentativi di bissare il successo del 1978, questo è l'esito più bello, quello che convince di più. Addio a parentele attaccate pretestuosamente con lo sputo, addio ai bambolotti satanici, addio alle buffonate dei reality show. Michael facendo lo spacca montagne  torna a casa per avere un altro incontro ravvicinato con la miss "Seno d'America" Jamie Lee Curtis e come ogni maniaco che si rispetti viene menato da lei, da sua figlia e pure da sua nipote. Occasionalmente viene picchiato pure da altri. Il film ci parla inoltre di una bella e complessa storia familiare e sa tenerci vigili con un finale fulminante e sorprendente... che mi ha ricordato un po' l'epilogo dell'ultimo Rambo. Ma è normale, di Halloween non si butta via niente e tutti lo "omaggiano", direttamente o indirettamente. Ora siamo pronti ai nuovi round previsti per gli Halloween di 2020 e 2021. Siamo carichi.
Oggi grazie a Midnight Factory abbiamo un mega cofanetto da collezione con tutta la saga originale, compresi i capitoli all'epoca mai tradotti in Italia. E' un'occasione ghiotta per riscoprire uno dei mostri più fighi del cinema horror di sempre e constatare come Jason possa solo inginocchiarsi di fronte a lui.
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