mercoledì 31 luglio 2019

Nevermind - la nostra recensione della commedia nerissima e surreale di Eros Puglielli



 Uno psicologo viene investito da un camion, perde la memoria e la sua capacità di aiutare i suoi pazienti. Come La segretaria di uno studio legale angustiata da un avvocato inspiegabilmente ossessionato dal comportarsi in modo perversamente lurido, come un aspirante chef amante della precisione perseguitato da un collega di lavoro superficiale, molesto e inspiegabilmente adorato da tutti. Per colpe indirette comunque riconducibili sempre allo psicologo "non più funzionante", una coppia si trova sul lastrico ed è costretta ad accettare lavori assurdi, come fare da babysitter a un bambino che forse non esiste, o a riallacciare i contatti con vecchi amici diventati quanto più inquietanti nel loro richiudersi nella più chiusa delle province italiane. 
Già il titolo di questo film, Nevermind, che tradotto significa "non pensarci", prepara lo spettatore a non stare troppo a cadere negli schemi logici, invitandolo a godersi il tuffo in una commedia nero pece amabilmente scorretta quanto inquietante a livelli kafkiani. 
C'è una massima di Aristotele, riportata ingegnosamente all'inizio del film, che recita più o meno: "Se c'è una soluzione/rimedio, perché ti preoccupi? Se non c'è una soluzione/rimedio, perché ti preoccupi?". La frase è un invito a non fare quello che fanno i personaggi di questa commedia. "Nevermind", non dobbiamo preoccuparci troppo, spendendo nella preoccupazione/comprensione tempo che si potrebbe destinare a fare l'unica cosa possibile "sopravvivere e adattarsi" a una situazione. Esattamente come in un horror. Certo che il mondo descritto dal film di Puglielli è un vero agglomerato di Leopardiana natura matrigna in cui anche la fuga (reale quanto psicologica) non è permessa. Mi viene quasi spontaneo (ma da paraculo) affiancare, a supporto di questo ragionamento, anche una frase tratta dall'Amleto di Shakespeare: "È una bella prigione, il mondo". Non a caso un testo che parla di pazzia. Questo mondo surreale (e quindi la vita dei personaggi di Puglietti) è davvero una bella gabbia di pazzi nella quale, "pur preoccupandosi", è difficile scovare un senso che poi magari "un senso non ce l'ha" (direbbe Vasco). Anche Bacone, davanti alla follia degli "aguzzini" di Nevermind, avrebbe da precisare come: "Il mondo è stato fatto per l'uomo, non l'uomo per il mondo". Ci dobbiamo quindi adattare pure all'assurdo, pure al folle, con il conforto di Seneca che chioserebbe: "Vuoi ottenere la vera libertà? renditi schiavo della filosofia!". E così, perpetrando questo gioco di citazioni invero facilissimo ai tempi di internet (andate a spulciarvi l'interessantissimo sito"filosofico.net") si potrebbe tornare circolarmente ad Aristotele e alla sua affermazione: "La filosofia non serve a nulla, dirai; ma sappi che proprio in quanto priva del legame di servitù (a qualsiasi folle regola di un mondo di pazzi) è il sapere più nobile". Ed ecco che arrivo alla mia confessione più intima, la "filosofia" che ha sempre retto il mio stile di vita, la cosiddetta "legge di Murphy" del maestro Arthur Block: "Se qualcosa può andare male, andrà male". Come a dire, la sfiga (che può manifestarsi benissimo nel dover vivere a fianco di persone scriteriate, non solo nella proverbiale buccia di banana su cui cadi) è vera! Tenetene conto e almeno preparatevi, sempre, ad avere un piano di riserva!! E pensate che mentre vi parlo di queste fesserie, ho appena preso il treno sbagliato e sa Dio e Arthur Block quando arriverò a casa trovando le giuste coincidenze. Questo perché il piano di riserva ti servirà sempre nel momento in cui non ne hai elaborato uno, e quindi sadico, ma anche un po' sarcastico, Block ci ricorderebbe: "Se qualcosa doveva andare male, ci andrà". 


Questo è il senso del film non-sense di Puglielli; il fatto che è da cretini perdere tempo a trovare un senso nelle cose... perché siamo in un film non-sense, cavolo!!! Cercare qualcuno che fornisca delle soluzioni per capire il mondo è sbagliato e futile, e non a caso i custodi "del sapere e della conoscenza" presenti nella pellicola, gli psicologi, vengono periodicamente neutralizzati. Cercare di trovare degli schemi mentali o dei "rituali" che possano avere un qualche effetto è ugualmente futile, perché se funzionassero dimostrerebbero che una pur strana logica è possibile. Cercare di assecondare la pazzia, porta solo ad altra pazzia. Rendere evidente che una cosa è folle, non aiuta in alcun modo alla comprensione del perché quella storia è folle.
Non ci resta che guardare agli amabili e sfortunatissimi eroi della pellicola di Puglielli come a degli indomiti titani fantozziani. Prossimi all'inevitabile fallimento, cercano una medicina per migliorare il loro mondo o per lo meno si sforzano di capirlo. Non siamo lontani dal titanismo del recente e riuscito Il grande salto di Tirabassi, anche se la struttura ad episodi scelta da Puglielli dà un sapore diverso per ritmo e "spietatezza", avvicinandosi per carattere se vogliamo di più a quel manifesto di umane pazzie che fu I Mostri di Dino Risi. Difficile scegliere l'episodio più gustoso del film, perché mi piace pensare che a certe "coordinate" un po' tutti siamo capitati nella vita davanti a situazioni che se non sono state assurde come quelle della pellicola, poco ci mancava.  Rimane impresso per me più di tutti l'episodio della babysitter del bambino "invisibile", per via della incomunicabilità dei sentimenti, ma anche lo sconfortate e nichilista segmento sulla provincia e l'episodio dello studio legale, quello dal taglio più "politico" se vogliamo, sono decisamente sulfurei e abrasivi. L'episodio dello chef poteva essere quasi un film a sé stante, qualcosa dalle parti di Ai confini della realtà. È probabilmente il meno cattivo, salvo un colpo di scena finale davvero spiazzante. L'episodio dello psicologo investito ha più il sapore di una lunga barzelletta cattiva, ma funziona benissimo nel legare tutti i fili narrativi e nel trarre la morale finale... che ovviamente è in linea con la premessa iniziale. Un buon ritmo narrativo, attori decisamente ispirati e delle idee scenografiche non banali, coprono in parte una fotografia forse troppo convenzionale e alcuni sfilacciamenti generali che non permettono alla pellicola di essere un cult. Ma Nevermind rimane un film carinissimo, sulfureo e dallo humor inglese che non mancherà di attirare a se gli orfani del ragionier Fantozzi e della commedia italiana cattiva che fu.
In genere delle commedie italiane ammiro l'impegno nella scelta dei contenuti e nella sinergia tra gli attori, ma sono poche quelle che mi fanno davvero sbellicare dalle risate. Nevermind mi ha fatto (cattivamente) ridere molto e ve lo consiglio se anche voi non vedete l'ora di vedere un film che vi faccia ridere (cattivamente). 
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martedì 30 luglio 2019

Midsommar- il villaggio dei dannati: la nuova sconvolgente pellicola del regista del Cult Horror Hereditary



"È estate, che c'è di meglio di una bella sagra di paese dove ubriacarsi e fare gli scemi con le ragazze? E se la sagra fosse di 9 giorni, piena di gnocche svedesi bionde, birra e funghetti allucinogeni per tutti?" Con questa allettante aspettativa, quella merda di Pelle (Vilhelm Blomgren), che fa tanto il ragazzino hippy da comunità "tutto biologggico, un saccobbbuono!" di Bianco, Rosso e Verdone, infila i suoi amici di università in una specie di girone dantesco, popolato da una setta di matti adoratori di oscure divinità agresti che ne faranno davvero di ogni. Nel gruppetto degli sfigati, un ragazzo allupato che pensa di trovarsi in American Pie e due laureandi in antropologia che, porelli, cercano pure di comprendere usi e costumi di 'sti fanatici per farci una tesi (pure dopo che hanno visto cose pazze tipo "martelloni"), nonché una ragazzina (Florence Pugh) che è da poco passata poco indenne da una situazione familiare allucinante. Come finirà? Come in Hereditary, primo film (e capolavoro) dello stesso regista, Ari Aster, di questo Midsommar: finirà malissimo!!! Una messa in scena sontuoso, un ottimo cast, inquadrature magnifiche ed ispirate. Una fotografia che sa descrivere paesaggi naturali quanto quasi alieni, scenografie magiche quando eretiche, l'ennesima prova di indiscussa bravura di Aster nel saper creare tensione. Dietro a tutti i mille meriti di una pellicola numero due potente, terrorizzante quanto magistrale, c'è qualcosa di davvero straniante in questo Midsommar. È film che non si capisce davvero se "ci è o ci fa", una pellicola che sa comprendere i limiti emotivi del pubblico e giocarci. Cosa intendo? Mi spiego con una mia teoria, cercando di rimanere il più criptico possibile per non rovinarvi nemmeno una delle mille sorprese che il film di Aster regala. 

Con Hereditary il regista 34enne di New York aveva creato una autentica perla della paura, carica di una tensione costante e mozzafiato in grado di annichilire lo spettatore medio. Il pubblico non sapeva come elaborare questo "stress emotivo", aveva paura di essere trascinato troppo in fondo dal terrore e per esorcizzare lo spettacolo fin da subito rispondeva con dei "ridolini isterici". Come era successo peraltro, in mia presenza, al pubblico se primo Blair Witch Project o del primo Paranormal Activity: diventava tutto una sfida a "non riuscire a essere spaventati", combattuta con le armi spuntate del trovare cose umoristiche ovunque, soprattutto dove non ci sono, per ancorarci sopra il coraggio. Per lo scrivente è in assoluto il modo più cretino per approcciarsi all'horror, una mossa da veri cacasotto incapaci di farsi travolgere dai sentimenti scaturiti dalla magia del cinema, ma è comunque una reazione "umana". Seguire Hereditary in sala era un supplizio a causa di questi "cacasotto rompicoglioni" che infestavano ogni cinema a ogni orario. Aster deve aver capito questo meccanismo dalle reazioni del pubblico al suo primo film  e in Midsommar, ha scientificamente cronometrato i "tempi dei ridolini" e ha voluto "giocarci sopra" con stile e un pizzico di genio. La sua idea è stata "prolungare i gridolini", con le armi del grottesco e dello splatter, elaborate (e rese grandi) da Herschell Gordon Lewis. Tutto Midsommar è un grande omaggio ai folk-Horror e nello specifico alla trilogia di Blood Feast di Lewis. Così quando il pubblico ride per "esorcizzare la paura", Aster infila qualche esagerato effetto splatter che fa esplodere i corpi stile cartone animato o "qualcosa di greve" stile ciccione nude, tizi che suonano il piffero o pecorelle che cagano. Aster "ride del pubblico con il pubblico", facendogli un assist o due per certificare che a ridere in un Horror (per quanto io la ritenga una cosa deprecabile) "non ci sia nulla di male". Da questo meccanismo scaturisce un film che vive di una continua sensazione di "ebbrezza emotiva" da parte di spettatori che, a fine visione, continueranno a ridere senza sapere il motivo per cui gli tremano ancora le mani per la paura. Midsommar è un film disperato e senza uscita, come Hereditary


Una autentica "esecuzione pubblica" in cui il pubblico si sente sempre e inevitabilmente vittima di un contesto da cui non può sfuggire e di cui non capisce davvero le regole. E fa "ridere angosciosamente". Geniale. Per me l'ennesima dimostrazione del genio di un regista che già dopo sole due pellicole si è imposto ai vertici dei migliori creatori di incubi del nuovo millennio. Un esercizio di stile unico e difficilmente imitabile da altri. Perché Midsommar è stile all'ennesima potenza. La dimostrazione del "come" prevalga sul "cosa" in modo netto, soprattutto quando parliamo di Horror, genere in cui la storia è da sempre un canovaccio che si ripete in modo quasi liturgico. La sceneggiatura è semplice in Midsommar. Quattro amici (i classici scemo, secchione, fidanzatino e traumatizzata/Final girl, con un paio di variazioni sul tema) in vacanza finiscono in un posto brutto, popolato da pazzi. Se vogliamo la trama reca un interessante spunto narrativo sul tema della scelta della vita o della morte in ragione del "libero arbitrio" o della accettazione (naturalista) di stare in un "predestinato vincolo naturale" (tematiche interessanti per un corso di teologia magari), ma spunto (gustosissimo) rimane. Se vogliamo il film può essere pure derivativo. Oltre alla trilogia di Lewis, Midsommar ha delle suggestioni di Burning Man di Robin Hardy, un tocco dello Shrooms di Paddy Breathnach, idee di body horror che pescano da Tobe Hooper e arrivano a Rob Zombie, una mezza voglia del Martyrs di Pascal Laugier. Senza dimenticare la deriva un po' scoreggiona dei cannibali di Deodato riletti da Eli Roth in Green Inferno (giusto per far ridere il pubblico). Senza dimenticare le scenografiche geometrie "argentiane" (nonché l'uso narrativo dei disegni infantili, come in Profondo Rosso) che Aster ha già dimostrato di amare e saper sfruttare facendole assurgere a rituali visivi sempre niente male (durante i pranzi della congregazione, inquadrati dall'altro, si realizza visivamente una sorta di "effetto domino" in ragione dell'ordine con cui i commensali possono accedere al cibo).  È decisamente un mix succoso per descrivere le avventure "tragicomiche" di questi poveri universitari che si calano gradualmente in questo mondo nascosto nella natura, popolato da Hippy pazzi e ultra religiosi di roba "strana", fino a partecipare alla loro sagra della morte, tra balletti popolari (spesso apparentemente buffi nel loro essere gioiosamente fuori dal tempo), droghe (in quanto la droga è tema portante di tutta l'ebbrezza narrativa) e riti di sacrificio. Ma il succo è che come film vuole e pretende di essere principalmente un "gioco". Un gioco malato (che in realtà compie un autentico mind ficking nel quale lo spettatore si perde negli appigli logici e anche se ride di questi hippy "buffi perché quando sono felici festeggiano muovendo le manine e sorridendo", questi ultimi lo fanno davvero cacare sotto!!!) davanti al quale lo spettatore deve scegliere di assistere (magari sperando di incappare nelle fesserie buffe che il regista ha messo dentro "per alleggerire") o abbandonare la sala. Questo può irritare qualche spettatore, ma io, ripeto, lo trovo geniale. Un modo geniale di spaventare chi di solito ride per non spaventarsi. Aster si concede comunque una firma stilistica che ci piace e rincuora, una attenzione amorevole ai ragazzini portatori di handicap, vista in Hereditary e che qui ritorna, designando i "puri" come gli unici depositari della ragione in un mondo che ne è del tutto privo. Se avete amato Hereditary, correte a vedere questo Midsommar. Se con conoscevate Hereditary, guardate Midsommar e poi recuperate. Se tutti questi "tizi pazzi delle sette" trovate che siano personaggi interessanti per un horror o un thriller, vi invito a fine visione a spulciare un paio di film, The Master di P.T.Anderson e Red State di Kevin Smith (se vedere quest'ultimo finirete per vie traverse a voler vedere pure Tush, che a qualche latitudine può ricordare qualcosa della fase finale di Midsommar... ma questa è forse un'altra storia). A tutti, buona visione. 
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sabato 27 luglio 2019

Il re leone live action: la recensione di B-Gis




- Premessa: Dormo in lenzuola col disegno del piccolo Simba che vuole diventare presto un re, la suoneria del mio iPhone è Circle of life, la ciotola per la pappa del mio gattino ha il disegno di Simba, ho i peluches di Simba, Pumbaa e Timon in scala e, spesso e volentieri, sono schierati in fila sul mio divano come se dovessero cantare Hakuna matata. Ho il peluches di Simba versione musical e, regolarmente, se si trova nelle vicinanze, obbligo mio fratello ad innalzarlo al cielo, a qualsiasi ora del giorno... Mai comprato gioielli Pandora ma, essendo uscita la limited edition Lion King... insomma: io AMO Il Re Leone
- Micro-sinossi: Simba è ancora un leoncino quando vede morire davanti ai suoi occhi il padre Mufasa, il re della savana. Per questo fugge dalla sua casa e inizia una vita spensierata in compagnia di un suricato e un cinghiale che si protrarrà fino all'età adulta. Ma un giorno il destino fa incontrare Simba con Nala, la leoncina che era sua grande amica quando era piccolo. I due decidono di allearsi contro Scar, lo zio di Simba e attuale detentore del trono, che ha svenduto la pace della savana dandola in mano alle terribili iene. Forse è il momento per Simba di tornare nella sua vecchia casa e affrontare da adulto il suo destino. 
- Tagliando corto, che la trama del Re Leone della Disney tanto la conoscono tutti:  Il rischio di mega schifezza col live action era dietro l’angolo ma, FORTUNATAMENTE PER ME, il film è bellissimo!!!!! Jon Favreau dopo Il libro della giungla confeziona, tre anni dopo, un nuovo ottimo  adattamento live-action di un cartone animato Disney. Le scene animate sono totalmente ricreate nel film, tranne che per i balletti perché, come caspita puoi far ballare un maiale selvatico??? Grazie ad un sapiente uso delle inquadrature lo spirito dell'opera non viene però perso e lo spettacolo risulta di ottimo livello. Niente cambi di parole ai testi delle canzoni, cosa che non sopporto negli altri film Disney tratti da cartoni, quindi sing-a-long obbligatorio. 


Le voci nuove di tutti i protagonisti sono azzeccate. Nota di merito a sua maestà Luca Ward che riprende il ruolo che in Italia fu di Gassman e che in lingua originale è ancora di James Earl Jones (voce storica anche di Darth Vader nonché re Joffy Joffer in Il principe cerca moglie di John Landis, uno dei film-culto di casa mia). La voce di Ward è talmente profonda che tremava il pavimento del cinema. Marco Mengoni perfetto. Perché ti aspetti da Marchino nostro tutte le timidezze e insicurezze che sfociano in una voce micidiale. Fresi e Leo new Pumbaa e Timon fanno ridere. Scar è interpretato da Massimo Popolizio, che di recente è stato al cinema Mussolini in Sono Tornato, una scelta coerente anche con l'idea citazionista legata al personaggio animato. Elisa non c’azzecca nulla con Nala. Ma proprio nulla. Ad ascoltarla sembrava che dovesse sempre uscire da un cespuglio la principessa Poppy dei Trolls... Rispetto al film ci sono solo un paio di scene aggiuntive, legate principalmente alla presenza di Beyoncé nel cast. Una canzone nuova durante il film e una sui titoli di coda. Film consigliato a tutti. Non è come temeva mio fratello una versione "Focus Channel" del Re Leone Disney, qualsiasi cosa (di insensibile) volesse dire. Gli animali sono  più realistici ma non per questo meno simpatici, su tutti il più buffo rimane quel prosciuttone di Pumba. Da vedere in 2D, in 3D, Imax, lingua originale. Insomma, promosso a pieni voti da una vera fan.
B-Gis

venerdì 26 luglio 2019

In ricordo di Rutger Hauer




Ci ha lascito a 75 anni dopo una malattia non molto lunga il grande attore olandese che ha dato il volto al replicante Roy Betty di Blade Runner, al mercenario Martin di L'amore e il sangue, all'autostoppista senza nome di The Hitcher, al cavaliere Navarre di Lady Hawk, all'ex soldato non vedente Nick Parker di Furia Cieca, al gladiatore Shallow di Giochi di Morte, al detective del futuro in Detective Stone, allo scalatore con balestra de Il nido dell'aquila, al senza tetto di Hobo with a gun. E questi solo solo alcuni dei ruoli di Rutger Hauer a cui sono maggiormente legato. Un attore eclettico, ma con una particolare predilezione per i ruoli complessi, sempre alla ricerca del lato più umano dei molti villain e antieroi che spesso ha interpretato. Poteva essere Robocop ma non ha voluto (e forse ha fatto bene, si poteva sovrapporre troppo Roy Betty), avrebbe voluto girare ogni 10 anni un seguito di The Hitcher, forse il suo ruolo più folle, non si è mai abbassato allo star System. Tra un film e l'altro girava il mondo, spesso in moto, per riempirsi il cuore di paesaggi e terre lontane. Me lo immagino ancora in viaggio adesso, verso le porte di Tannhauser. 
Per uno stranissimo gioco del destino siamo nel 2019, lo stesso anno in cui era ambientato Blade Runner, lo stesso anno in cui il replicante Roy Betty viveva i suoi ultimi momenti di vita sul cornicione di un palazzo, sotto la pioggia. 
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mercoledì 10 luglio 2019

Rapina a Stoccolma



È il film che vuole mettere in scena, in modo piuttosto libero, i fatti da cui si è parlato in psicologia della famosa "Sindrome di Stoccolma". Quella particolare affezione che una persona in ostaggio prova nei confronti di chi lo ha messo in costrizione, sulla base di particolari affinità emotive. Ne risulta un film su una rapina alla banca in Svezia dove il rapinatore ha il volto del simpatico Ethan Hawke e la cassiera della banca della stupenda Noomi Rapace. Hawke è più maldestro che molesto, più premuroso che insidioso. Canta vecchie canzoni, veste da cowboy, è insicuro e per nulla minaccioso. La Rapace è una amabilissima e bellissima madre di famiglia che si preoccupa che i figli a casa mentre è in ostaggio mangino il pesce rimasto in frigo. Dietro a degli occhialoni giganteschi che la fanno apparire buffa e a un vestitino da impiegata castigatissimo nasconde la potentissima componente sensuale per cui la Rapace è giustamente famosa (da Millennium a Seven Sisters). Da questa, in un gioco di sguardi che scruta anche il fisico asciutto e gli occhioni di Hawke, nasce forse quella particolare passione e complicità che studiamo nei libri. Il vero cattivo sembra essere il direttore della banca, incapace di tutelare gli ostaggi con il pugno di ferro della "tolleranza zero" nei confronti delle richieste dei criminali. Il gioco funziona, la carica sensuale tra i due protagonisti e i co-interpreti, come un Mark Strong in stato di grazia, conferiscono gusto al prodotto finale. Peccato che il piatto finale latiti di spezie e alla fine suoni come un prodotto ben confezionato ma con poco pathos. Non è Quel pomeriggio di un giorno da cani, purtroppo. Vorremmo essere travolti dalla componente emotiva, dalla complicità e voglia di intesa, psicologica ma  anche fisica, che dovrebbero far esplodere la testa e i corpi dei due protagonisti, spogliandoli degli abiti borghesucci della cassiera non più giovane e del rapinatore bambinone che vuole scappare con una macchina da film al tramonto come fosse un un western. Ma il film non ci vuole dare questo, Robert Budreau non è un regista così vulcanico da giocare con stile con un tema come questo come potrebbe farlo un Verhoeven, un De Palma, uno Scorsese, uno Scott, un Fincher o, perché no, una Patty Jenkins. Cosa avrebbe fatto Patty Jenkins con Noomi Rapace! Invece assistiamo a novanta minuti in compagnia di questi due attori bellissimi e sensualissimi che si scambiano un paio di sguardi di intesa senza dare davvero corpo a quel tormento interiore che la sindrome di Stoccolma dovrebbe far esplodere. Tranquillizzante e politicamente corretto, Rapina a Stoccolma risulta ottimo per un pomeriggio di rete quattro. 
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domenica 7 luglio 2019

Vigilante - My Hero Academia Illegals: puro amore



Nel mondo di My Hero Academia, dove la maggior parte degli esseri umani dispone di superpoteri, ci sono anche degli eroi "non così super", i vigilanti. Sfruttano le ombre della città, le tecniche di combattimento e la tattica per impedire il crimine a modo loro, senza essere riconosciti, lavorando dove nessuno vuole lavorare. Tra questi eroi non così super si annidano persone più adulte dei classici personaggi di MHA, sconfitte dalla vita, insicure, autoironiche. Eroi consci di poter fare la loro parte per le capacità che sanno di possedere e per i limiti che hanno già scoperto di avere. Ma eroi che non per questo combattono a testa bassa. 
Amo lo spinoff di My hero Academia, probabilmente più di My Hero Academia stesso. Perché se My Hero Academia è simile per molti versi ai fumetti degli X-Men e One Punch Man in qualche modo richiama il complesso di Superman, Vigilante è Batman, è Daredevil e Iron Fist (quelli belli su carta non gli svarioni di Netfix). E Batman non si batte. Hideyuki Furuhashi e Betten Court hanno centrato esattamente quello che mancava nel comunque ottimo My Hero Academia facendo l'equazione forse più semplice. Meno banchi scolastici, più detective stories, più ronde, più vite adulte e meno pippe mentali del protagonista (Deku di MHA coi sui piagnistei è insostenibile e il resto del cast cerca disperatamente di farci dimenticare di lui senza riuscirci). Più disillusione, quotidianità, botte senza fronzoli. Amo il ruvido ma elegante Knuckle Duster (che è un Batman/punitore, laddove Allmighty è ovviamente una interpretazione di Superman/Cap America), amo la dolce e complessata Pop Step (che è un equivalente idol di Colleen Wing), amo lo sfigato e amabile protagonista, che è sfigato per contratto come tutti i protagonisti dei manga, ma meno sfogato di Deku. Questi eroi sono dei looser in un mondo di super-tizi tanto buoni quanto cattivi, ma fanno la loro parte, coprendosi di cicatrici e sudore, per tener loro testa. E la sensazione è davvero quella di Batman che affronta Superman, quello sguardo dal basso, umano, che decide con più palle che testa di sfidare gli Dei sul loro campo di gioco. Quando compare qualche personaggio di MHA, cosa inevitabile data la natura da crossover dell'opera, mi viene nettamente da schierarmi con i vigilanti, anche se non trovo in genere per niente antipatici, Deku a parte, gli Eroi di MHA. Insomma, trame meno arzigogolate e soprattutto "pippose", una azione assolutamente ben rappresentata e che per chiarezza a volte è per me pure superiore a MHA, personaggi più adulti con cui empatizzare (per me). Mi sta divertendo un botto e aspetto di vedere un adattamento animato. 
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giovedì 4 luglio 2019

Ti presento Patrick - la nostra recensione del film sul carlino che piacerà molto alle vostre mogli, madri, sorelle e nonne




Sarah, un'insegnante single e un po' fuori forma, goffa e demotivata, che vive in un piccolo appartamento con un padrone di casa un po' stronzo, riceve in eredità dalla nonna il carlino Patrick. Da lì un'iniezione di fiducia senza pari, due spasimanti che se la contendono, una barca su cui vivere, un importante scopo professionale e morale facilmente raggiungibile e, ovviamente chilometri di verde e natura incontaminata in cui trascorrere le giornate nel migliore equilibrio corpo-mente possibile. E tutto grazie a un cagnolino che per la prima parte del film disintegra casa e sporca tutto, pur vestito spesso in completini adorabili.
C'è una chiara macro-categoria filmica che posso riassumere liberamente come "robe da donne che per lo più piacciono a mia madre, ma anche a mia sorella, difficilmente a me". Sono per lo più quei film del pomeriggio di rete 4 in cui le persone vivono problemi di vita in genere poco traumatici, scoppia l'amore tra coppie in genere depresse ma pronte a "riaprirsi alla vita", si "respira l'aria pulita" di ambientazioni ricche di verde, corsi d'acqua, cortesi vicini di casa e concittadini accoglienti e sorridenti. Tutto passa sotto un sole splendente e se c'è, per rispetto di un minimo di drammaturgia, qualche "microscopica sfida" che attende i protagonisti, la soluzione della stessa non occupa più di 6 strazianti minuti. Tutti vivono in regge faraoniche che curano personalmente in quanto "persone a servizio e altre forme di schiavitù sono bandite", tutti fanno sempre festa, se c'è uno stronzo prima della fine del film è diventato una brava persona. Mia madre parla in questi casi di "un film bello", nell'accezione di un film "Film bello con persone e posti belli, tranquillo, rilassante, positivo, senza sparatorie o alieni ed ammazzamenti, con la trama non troppo difficile da seguire (che se ti addormenti comunque sai che finisce bene) ". La materia di Rosamund Pilcher per intenderci, cui qui, nel film di cui parliamo oggi, si innesta florido (in quanto variante già "rodata", il classico"pet-movie". Il cucciolo o "animale-amico", che sia cane, gatto, cavallo o orca assassina, anche se i tempi di Free Willy sono passati), piace. Un  professore di psicologia una volta mi ha spiegato che è proprio una questione di "memoria genetica": in presenza di neonati e animali da compagnia, salvo gravi traumi personali a monte, tutti noi esseri umani siamo propensi a volerli coccolare, abbracciare, proteggere. È una combo letale contro la quale in pubblico femminile medio non ha speranze, spesso servita da una regia di stampo televisivo ritmata da una colonna sonora stile Amedeo Minghi in Fantaghirò. Le donne accolgono a braccia aperte questo tipo di prodotto quanto la programmazione di Food Network o Pomeriggio 5. Ti presento Patrick è a tutti gli effetti quello che per mia madre è un "bel film", e non fatevi ingannare dalla caratterizzazione della protagonista inglesina goffa stile Bridget Jones: i film di Bridget Jones o Sex and the city stanno in un diverso campionato perché sono "troppo sessualmente e lessicalmente accesi" e per questo non restituiscono la pace sensoriale/ esistenziale di circa un'ora e mezza che può fornire di solito un film "di genere bel film per mia madre". Allo stesso tempo, Ti presento Patrick è lontano da cose come Beethoven, Io & Marley o Hachiko dove il "pet" innesta meccanismi di convivenza ed empatia anche disfunzionali o tragici. Il pubblico dei film di "genere bel film" non vuole incazzarsi o deprimersi nel primo pomeriggio, del resto, o passerebbe a guardare chi ha in studio la Balivo. Questo filone di film è puro oro per la televisione italiana e quindi va analizzato ci gli occhi del pubblico che ha deciso di andarlo a vedere dopo la visione del trailer o solo la locandina. Ti presento Patrick quindi, anche considerandolo parte di questo particolare "genere", funziona. Non ci sono buchi di trama né particolari complicazioni della suddetta. Si lascia guardare grazie a un minutaggio non troppo eccessivo e a un ritmo non troppo soporifero. Gli attori sono simpatici e seguono tutti una "evoluzione al positivo" completa. È pieno di verde, di cuccioli, barche su splendenti corsi d'acqua e gente cordiale. E poi c'è il carlino. Con la sua facciotta buffa, dall'aria sempre malinconica. Le zampettine che saltellano, il codino batuffoloso. E i vestitini da "padrino" e "bay watch". Quando è il scena il buon Patrick ruba la scena a tutti e va ad insidiare per tenerezza nelle top ten il gattino Goose di Captain Marvel. Ti presento Patrick è un film di fascia pomeridiana di rete 4, godibile nella sua riconoscibile e "tranquillizzante" cornice di genere. L'impostazione generale è quella di un prodotto televisivo medio di genere, perfetto da degustare tra il caffè e la pennichella pomeridiana. 
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