lunedì 29 aprile 2019

La Llorona - le lacrime del male




- Premessa 1: Il regista (ma anche sceneggiatore, produttore, direttore degli effetti visivi) Michael Chaves nel 2016 confezionava questo cortometraggio, che vinceva allo Shriekfest il Super Short Film Award


Nel 2019 Chaves realizza questo videoclip per la cantante Billie Eilish


Si evidenziava già in queste piccole opere un particolare gusto nella scelta delle inquadrature e dettagli, nelle location e nell'uso della fotografia. Un particolare feeling nel realizzare qualcosa di inquietante quanto "patinato", grazie anche alla giusta scelta del cast e trucco (ma quanto è gnocca Alia Raelyn?). E "patinare", al netto di una certa confortante "plasticosità della confezione", se da un lato rende il prodotto "meno maledetto ma anche più innocuo", di sicuro lo rende anche più vendibile al più ampio pubblico che si affaccia all'horror, un pubblico che vuole divertirsi con qualche spavento senza però essere costretto a immergersi nelle atmosfere disturbanti tipiche soprattutto delle produzioni più underground. Chaves puntava a costruire un horror "classico" quanto curato e per questo non sorprende che, dopo averlo scovato e apprezzato, James Wan (Saw, Insidious, The Conjuring e il recente Aquaman, passando per Fast 7) abbia già designato Michael Chaves alla sedia di regia di The Conjuring 3, saga che per molti versi ha un gusto concettuale simile, una fascinazione che ammicca all'horror più "vintage" della Hammer. Come peraltro non sorprende che Platinum Dunes (che si legge come "Michael Bay produce i suoi film minori, le tartarughe ninja e qualche horror", etichetta dietro al rilancio "meno sporco" della serie Texas Chainsaw Massacre fino al nuovo sorprendente A Quiet Place, passando per la patinata saga de La notte del giudizio) abbia già arruolato Chaves per un progetto dal titolo The Reckonig. Ci stanno puntando tanto questi grossi produttori su Chaves, anche in ragione del successo della sua web serie Chase Champion (e dirigere una serie significa anche essere affidabili come essere versatili, siccome parliamo di un prodotto commedy sceneggiato in alcune puntate anche dal regista stesso), e il buon Chaves ha quindi davvero la possibilità e i fondi  (nonché l'onere) di entrare tra i nuovi nomi forti (anche economicamente) del cinema horror come Mike Flanagan (Oculus, Ouija 2: L'origine del male), David F.Sandberg (Lights out, Annabelle Creation, il nuovo cinecomic Shazam!), Corin Hardy (The Hallow, The Nun), Jordan Peele (Get-Out, Noi). Insomma, se sono rose fioriranno e La Llorona è il banco di prova per una verifica delle potenzialità di Chaves su una pellicola horror "lunga", e per facilitarlo il buon "James Wan - produttore" ha voluto pure che questa pellicola rientrasse nel Conjuring Cinematic Universe al pari di Annabelle (questa estate il terzo film in sala), Nun (già un sequel e un prequel nei progetti) e del futuro "Uomo storto". Forse anche i Warren si confronteranno presto con la LLorona? Di sicuro c'è un personaggio della saga che fa brevemente capolino nella pellicola suggellando la continuity. Di sicuro la Llorona funziona perfettamente all'interno del Conjuring Universe, rispettandone il contesto "religioso-fantasy", ogni regola sulla costruzione dei mostri e il contesto narrativo, in genere serio/realistico. Se andrete a vedere La Llorona in sala molto probabilmente prima della pellicola assisterete pure al trailer di Annabelle 3



-Premessa 2: la Llorona è un notissimo personaggio del folklore dei paesi latini. Come è accaduto per Coco della Disney, in cui Pixar rielaborava "Il giorno dei morti" dei paesi latini, La Llorona è una rielaborazione e "sintesi" delle molte leggende che girano intorno alla Llorona, che a tutti gli effetti è qualcosa di simile, per noi occidentali, all'uomo nero. L'uomo nero a cui, nella ninna nanna la mamma, se il bambino continua a fare i capricci e non dormire, "lo darà un mese intero". Nei paesi latini il bambino che non fa il bravo è minacciato di essere dato alla Llorona, lo spirito inquieto di una donna che, tradita dall'uomo che amava e accecata dall'odio, affogava in un fiume i suoi figli per poi, rendendosi conto della tragedia, suicidarsi anche lei nelle acque. Come accaduto per Coco, La Llorona ha portato al cinema praticamente tutti gli spettatori di cultura latino americana e spagnola. Il film è di fatto già uno straordinario successo, costato 9 milioni in 10 giorni ne ha incassati nel mondo oltre 65 e sta sopravvivendo anche al "ciclone Avengers". Ma com'è alla fine questo film?
- Micro-sinossi: un'assistente sociale (Linda Cardellini), vedova con due figli piccoli è chiamata ad intervenire in un caso di violenza su minori. Una donna tiene i suoi figli rinchiusi nell'armadio di casa e si oppone alla richiesta di liberarli. I bambini presentano sulle braccia degli evidenti segni di maltrattamento, ecchimosi che dimostrano che sono stati strattonati con la forza da mani adulte. L'assistente sociale allontana la madre dai bambini e li porta in un luogo sicuro, ma durante la notte i due bambini scompaiono e il giorno dopo ricompaiono senza vita sulla sponda di un corso d'acqua. La madre arriva sul posto e maledice l'assistente sociale. Le dice che stava proteggendo i suoi figli da uno spirito demoniaco, la Llorona, e per colpa del suo intervento ora erano morti. Poiché l'assistente sociale aveva permesso alla Llorona di ucciderli, la madre malefica i suoi  i figli, pregando la Llorona di prenderle loro e restituirle i suoi. Da allora una figura spettrale tormenta i bambini dell'assistente sociale, fino a che arriva a manifestarsi e ad attaccare direttamente la madre. Spaventata e consigliata da un prete, la donna decide di affidarsi alle cure di un ex prete, che ora è diventato uno shamano, un "curandero". 


- Una nuova caccia al demone è aperta: ogni film della serie Conjuring, ma si può dire lo stesso anche per la serie parallela Insidious, mette in scena, in un contesto sempre realistico, una famiglia comune (salvo poche eccezioni) tormentata da un mostro, fino all'intervento di uno specialista in grado di contrastarlo o almeno di "provarci". Ogni film ha una struttura il tre atti: nel primo il mostro irrompe silenziosamente nel quotidiano, nel secondo la creatura si arrabbia e manifesta in tutta la sua brutalità, nel terzo avviene lo scontro tra il professionista e la creatura, con l'esperto che tratta la creatura con un certo distacco professionale, come fosse una estetista intenta nello schiacciare i brufoli. Sono per questo film che in un qualche modo esorcizzano le paure, dove il male trova sempre un significativo avversario, dove un ordine consolatorio viene sempre ristabilito alla fine delle vicende. Il male è visto come l' allegoria di una malattia, fisica o mentale, che però si può combattere, sono film consolatori in un certo senso, al netto di molte scene che sanno regalare ben più di un brivido. 
Gli sceneggiatori Mikki Daugthy e Thobias Iaconis , che hanno scritto insieme  anche il buon A un metro da te, recensito anche qui sul blog poco tempo fa, si confermano qui molto bravi nella scrittura dei personaggi. In più danno corpo a una Llorona che come mostro risulta davvero affascinante e complesso (vi rimandiamo a un paragrafo qua sotto per i dettagli). La Llorona ricorda un po' la bambina del film giapponese Dark Water, ma ha elementi che possono ritenersi comuni anche alle creature di un paio di pellicole portate di recente in Italia da Midnight Factory (la pellicola russa The Bride e la persiana Under the shadow). Forse l'effetto "novità" sarà meno forte per chi ha già visto questi ottimi film horror, ma la filosofia del Conjuring Universe non è mai stata stupire, quanto intrattenere con classe, aspetto che riesce alla perfezione anche al film di Chaves. Lo scontro tra la Llorona e la famiglia, con il successivo intervento del curandero, funziona ed è divertente. Lo spirito si nasconde spesso tra le pieghe delle tende, fa capolino nel riflesso degli specchi, avverte della sua presenza con un lamento forte e potente quanto il vento. La lotta contro di lei è come una partita a football americano, in cui si combatte metro per metro per difendere il perimetro dell'abitazione dall'influenza demoniaca, ed è di sicuro qualcosa di diverso rispetto alle sedute di esorcismo già viste nelle alte pellicole. Il regista fa correre la telecamera dappertutto, la fa vorticare, non lesina i jump scare e crea un ritmo narrativo forsennato, senza sosta. L'interpretazione generale è convincente (in lingua originale a mio parere moooolto più convincente), la Cardellini conferisce credibilità e cuore all'intreccio, Raymond Cruz è un curandero truzzo ma simpatico, fascinoso, implacabile, con il fuoco "latino" negli occhi del classico eroe di Robert Rodriguez. La Llorona, interpretata dalla brava Marisol Ramirez, sorprende per la sua pazzia quanto per la sua inaspettata, profonda, tenerezza. È una creatura infelice, destinata per sempre a ricercare e distruggere la sua dimensione materna, afflitta da un vuoto incolmabile. Un mostro tragico quanto indimenticabile. Le musiche, dell'ormai imprescindibile Joseph Bishara, armonizzano ed elettrificano il consueto tappeto sonoro del Conjuring Universe. Rimaniamo ancorati nel film patinato, nel film di genere nella sua cornice più raffinata quanto forse, a mio avviso, "innocua", con il piccolo, consueto, brivido lungo la schiena di assistere ad eventi forse tratti da """storie vere""". Film come Suspiria di Guadagnino, Hereditary di Aster, Il sacrificio del cervo sacro di Lanthimos, The VVitch di Eggers, Goodnight Mommy di Franz e Fiala, sono film horror moderni che scavano, disturbano, regalano un'inquietudine davanti alla quale il Conjuring Universe appare per lo più come una innocua attrazione a tema di un luna park (al netto dei due film con protagonisti i Warren, che rimangono un paio di spanne al di sopra del resto della produzione grazie alla incredibile chimica che sanno sprigionare insieme Farmiga e Wilson, combinato alla classe sopraffina di Wan). È però intrattenimento di lusso, confezionato con stile e curato nei dettagli. Se nel Conjuring Cinematic Universe Annabelle è la bambola maledetta e Valak è dracula, la Llorona è la sua dama femminile piangente. Se la sceneggiatura del terzo Conjuring andrà come si pensava qualche tempo fa, avremo presto i lupi mannari e sono curiosissimo di rivedere "l'uomo storto", la cui natura sembra essere legata alle fiabe (anche se il suo progetto è ancora avvolto nel mistero). E poi via di team-up stile Avengers (come lo era di fatto un po' anche Conjuring 2), con Annabelle 3 che già ci fa pregustare la liberazione di un piccolo esercito di nuovi mostri di cui ancora non sappiamo nulla. Se la giostra continuerà a essere bene oliata, rinnovata e resa accattivante, sarà sempre un piacere farci un giro, armati di popcorn e con tanta voglia di saltare sulla sedia al primo spaventarello. La Llorona dimostra che questa attrazione da luna park funziona bene ancora.

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- Anamnesi del mostro e del cacciatore: io degli horror amo i "jump scare", amo lo splatter, le atmosfere lugubri, amo moltissimo l'interpretazione dei personaggi, la "ritualità di alcuni generi (su tutti lo slasher), ma personalmente trovo che uno degli aspetti più affascinati dei film horror sia la "costruzione del mostro". Che sia un diavolo, un orco, uno psicopatico, un fantasma o un folletto, la creatura per me funziona se ha un modus operandi credibile per quanto elaborato, se ha un suo linguaggio e una sua finalità. I film di James Wan, che qui è produttore, hanno sempre dedicato molto tempo alla costruzione di ottimi "mostri", quanto allo sviluppo dei "cacciatori di mostri" che sono destinati ad affrontarli. Quella che segue è un'analisi di mostro e cacciatore, ma vi consiglio di leggerla solo dopo la visione della pellicola. Peraltro quello che segue è sotto SPOILER 

La Llorona è uno spirito con le fattezze di una donna in veste bianca, non dissimile esteticamente (e anche per certi altri aspetti, come il fatto di agire secondo "maledizione") da tante donne maledette della tradizione asiatica come Sadako e Kayako. La Llorona è una creatura dalla forma e dall'animo duplice, racchiusa in un continuo "loop emotivo" che ne definisce le azioni. Si presenta ai margini dei fiumi, sulla riva, nelle sembianze di una donna ancora giovane e affranta, in abito bianco sporco e sdrucito simile a quello di una sposa. Una figura che commuove e strazia il cuore per il suo pianto alternato all'invocazione tenera e affranta ai suoi "ninos scomparsi". Sembra una madre che cerca i suoi figli. L'altra faccia, che appare una volta che ha scelto due nuovi bambini da "accudire" (nel momento iniziale si esprime verso le vittime con un tenero e gioioso "ninos bonitos!!") e li ha vicino a sé (prima di "trovarli" si aggira piangendo nelle vicinanze), è quella della stessa donna, ma con il viso trasfigurato dalla rabbia e dalla pazzia. Un viso diventato cinereo, con occhi rossi avvolti da lacrime rosso sangue, che si dicono "incandescenti" al punto che le solcano fino a bucare le guance. Una donna con un vestito ancora più sporco e logoro, con mani lunghe, appuntite, annerite e deformate. Quando riesce nell'intero di affogare in un corso d'acqua le vittime, lo spirito sembra dimenticarsi di quanto appena avvenuto, e ritorna la figura triste e apparentemente innocua, una donna piangente. Sembra che un modo per evocarla esista, e consiste nel pregare per lei promettendole dei bambini che prendano il posto dei suoi scomparsi, in genere i bambini di qualcun altro, che così viene maledetto. Scelte le sue nuove vittime, queste sono all'inizio le uniche persone in grado di vederla, per lo più attraverso i riflessi di vetri, specchi, corsi d'acqua. Allo stesso modo le vittime sono le uniche a sentire il suo incessante pianto, sono le uniche che, a un certo punto, potranno essere da lei toccate, marchiate e da quel momento progressivamente, con un rafforzamento della maledizione, divorate psicologicamente, fino a che saranno trascinate verso un corso d'acqua dove infine verranno affogate. Il potere della Llorona all'inizio è scarso e può giusto accrescere momentaneamente con l'arrivo delle tenebre. Le sue manifestazioni sono limitato alla sfera sensoriale delle vittime, ma più né assorbe il potere più può manifestarsi in modo sempre più prolungato e rendersi visibile anche ad altre persone, fino a che può agire anche contro queste ultime. La sua "caccia ai bambini" consiste nel portarli al di fuori del loro "rifugio" (che può essere una casa ma anche un'auto) fino al primo specchio d'acqua in cui annegarli. Può agire in modo "spiritico", entrando ovunque e attraversando muri (questo aspetto a scapito di molta energia probabilmente), puntando a spaventare i bambini fino a possederli e farli uscire, come zombie, da soli, dal loro "rifugio". Può agire con la forza, affrontando le persone che proteggono i bambini, aprendo porte e finestre con il suo "pianto stordente" o menando direttamente le mani, dal tocco arroventato, ma l'azione fisica dura per breve tempo. Non è specificato nel film, ma è probabile che tra un attacco e l'altro, che sia di natura spirituale o fisica, la Llorona si ricarichi di energia spiritica nell'acqua, il suo elemento naturale, probabilmente nel luogo vicino alle vittime dove ha deciso di affogare poi i bambini. Di fatto può seguire le sue vittime ovunque dopo che ha stretto il "legame" con loro, ma per attaccarle ha bisogno di ricaricarsi. L'acqua è infatti l'elemento che ha "accolto le sue lacrime" mentre affogava i suoi figli per poi togliersi la vita. Quando è particolarmente debole, la Llorona lascia come segno del suo passaggio delle gocce d'acqua. Un'altra peculiarità della Llorona sembra essere la sua necessità per attaccare di avere un contatto visivo con le vittime, forse per poter gestire al meglio la sua capacità offensiva in ragione di una energia limitata di attacco. Da qui la predilezione tattica di spiare le vittime dalle finestre o la necessità di attacchi fisici per aprire porte e passaggi di vario tipo. Sembra (lo dice il personaggio del dilm che ha le maggiori informazioni sul mostro, ma che non le condivide interamente con gli altri) che la Llorona abbia un periodo di tempo limitato per agire dopo l'evocazione, oltre il quale non può più attaccare i suoi bersagli che quindi si liberano della maledizione. Il modo più sicuro per salvare i bambini sembra essere rinchiuderli in un armadio, magari coperto da simboli di protezione che li rendano ancora più invisibili a lei. 
Il "cacciatore" designato a salvare la situazione non è in questo caso un prete, ma un "curandero", tecnicamente uno stregone sciamano dell'America Latina, e questo porta ad interessanti novità (per chi non conosce queste figure, perché c'è pure se volete una bella serie Netfix che parla di curanderi che vi consiglio Diablero, con una bella prima stagione completa) per quanto riguarda la caccia, o se vogliamo la cura dei poveri bambini. Il curandero, in buona sostanza, crea barriere  perimetrali, che usa per rilevare la presenza del mostro, per protezione ma anche come trappola (usando magari esche umane per attirare lì il mostro), facendo uso dei vari strumenti mistici che porta con sé, tra cui i crocefissi della fede cristiana, in quanto il curandero rimane comunque legato alla fede cattolica. La sua "arma finale" contro la LLorona è un oggetto mistico potentissimo, una (bellissima) croce di legno rosso intagliata "nell'albero di fuoco". Questo particolare albero dal tronco rosso era piantato sulla riva il giorno che la Llorona annegava i suoi figli e pertanto le sue radici si sono imbevute delle lacrime della donna.  Le scaglie di questa preziosa croce tracciate davanti alla porta di una abitazione rendono il luogo del tutto invalicabile per la Llorona. 
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giovedì 25 aprile 2019

Shazam!: la nostra recensione del nuovo film DC Comics!




C'è un mago misterioso (Djimon Hounsu), con un magico bastone, all'interno di una grotta magica. Sembra appaia solo ai bambini con il cuore puro, trasportandolo dalla realtà in una magica dimensione avvolta da nebbie magiche misteriose. Li sfida, li mette alla prova facendoli tentare dai sette peccati capitali, cercando tra loro il bambino con il cuore più puro, quello che diventerà il suo campione ed erediterà i suoi poteri. Alla fine la prova non la passa nessuno, il mago respinge tutti e i bambini hanno davanti a loro anni di incubi, terapia psicologica e farmacologica. Peggio di Freddy Krueger, il mago crea piccoli disagiati. Forse bisogna partire "già abbastanza disagiati" per affrontare la prova magica. Forse serve trovare qualcuno che ha già sofferto, perché riesca a superare la prova. Il piccolo Billy Batson (Asher Angel) forse è abbastanza "sfigato" da farcela. Perde, piccolissimo, la  madre mentre è con lei al tiro a segno di un luna park, passa la vita da una famiglia adottiva all'altra e ora, all'ennesimo bravata per cercare dove è finita chi lo ha messa al mondo, finisce a Philadelphia, la città di Rocky, in una casa famiglia. Mentre Billy cerca di integrarsi nella nuova scuola e nella nuova casa, che sembra per una volta un posto caldo e accogliente grazie alla coppia che la gestisce (Marta Milans e Cooper Andrews) e ai sei bambini con cui la condivide, il mago appare anche a lui. Lo sceglie, e Billy si trasforma subito, dopo aver pronunciato la parola "Shazam!", in un adulto palestrato con un costume francamente ridicolo (Zachary Levi),  il "campione" del mago, con la forza di Ercole, il coraggio di Achille, i fulmini di Zeus, la velocità di Ermes ecc. ecc. Ma come può gestire un bambino il corpo e i poteri di quello che appare a tutti gli effetti un supereroe adulto? E quali poteri possiederà? Grazie a Freddy (non Krueger, ma il suo nuovo compagno di stanza nella casa famiglia, interpretato da Jack Dylan Grazer), fanatico dei supereroi e subito improvvisatosi suo "manager", Billy cercherà di gestire poteri e fama, a partire dalla ricerca di un "nome fico", fino alla pubblicazione su YouTube delle sue performance. Qualcuno però è alla ricerca dei poteri e della magia di Billy. Qualcuno che conosce molto bene la caverna magica, perché ci è già stato da piccolo (Mark Strong).


Arriva finalmente al cinema Captain Marvel. Certo, non è un refuso ve lo assicuro, perché il nome storico del supereroe in cui si trasforma Billy Batson, nato fumettistiacamente nel 1939, nato da penna e matite di artisti di culto C.C.Beck e Bill Parker, è proprio "Captain Marvel", solo che poi la Marvel di Stan Lee (quella nata come etichetta nel 1961, mentre prima si chiamava Timely Publications) ha pensato che quel "Marvel" facesse in effetti confusione e, battaglie legali dopo, si è "appropriata del nome", per altro ora usandolo per un personaggio che fino all'altro ieri si chiamava Miss Marvel (che è appunto poi il Captain Marvel ora al cinema). Insomma, alla fine sono arrivati 2 Captain Marvel nelle sale, più o meno nello stesso periodo e da case di distribuzione diverse, un po' come ai tempi di Vulcano e Dante's Peek, Antz e A bugs life o Hercules: il guerriero ed Hercules: l'inizio, Biancaneve e Biancaneve e il cacciatore, la, scampata, recente "combo" Il libro della Giungla e Mowgli. Ce ne sarebbero altri milioni di questi casi, ma ve li risparmio, sta di fatto che, chiamiamolo  Captain Marvel o Shazam, il personaggio richiamava la "meraviglia", il "magico". Un magico avvolgente e ingenuo quanto Babbo Natale, citato fin dai colori (e in un certo senso personaggio ricorrente nella pellicola), così caratteristici quando "impossibili", kitch e arretrati quanto classici ed eleganti, del costume del nostro supereroe. Fuori dal tempo, come se il prossimo film di Batman si tornasse ad usare il costume di Adam West, eppure funziona, come la corporatura forzosamente resa da "maciste", come le decorazioni in oro di stivali e cintura, come la mantellina avorio e il fulmine sul petto che si illumina di luce propria come un giocattolo. Complice una scelta dei materiali, scenografia e fotografia molto curata, lo Shazam cinematografico "fa come respirare" molte delle pose classiche e plastiche di alcuni dei disegni  più riusciti sul personaggio, le tavole di Alex Ross. Questo pupazzone rosso, avorio e oro, questo ingenuo giocattolone antropomorfo, che gioca scorretto tra celebrazione e parodia supereroistica, è quindi perfetto, come babbo natale, per una storia sui più forti "messaggi natalizi": l'accoglienza e la solidarietà, il saper accogliere i bambini, il cercare di costruire o ricostruire una famiglia. Poteva sulla carta essere un compito stucchevole e dolciastro, ma la sceneggiatura si dimostra invece sul punito solida, stimolante, per nulla patetica. Ed è qui che il film vince davvero, anche perché di creare pupazzoni che volano ormai sono capaci tutti (sebbene la voce effetti speciali qui non sia davvero niente male). Con facilità ci appassioniamo alla storia di Billy, Freddy e tutti i bambini della casa famiglia e temiamo per loro alla comparsa del personaggio di Mark Strong, un cattivo davvero imponente, implacabile, crudele senza mezze misure, stemperato solo in parte dai diavoli sghembi, disegnati un po' alla Mignola, che si porta dietro. E Billy, nonostante con la trasformazione abbia l'aspetto di un indistruttibile e sornione Levy palestrato digitalmente, in modo quasi caricaturale, è un bambino. Si avverte l'ingiustizia di questo adulto crudele  che se la prende con un bambino quanto fa tenerezza vedere il modo in cui il piccolo Billy cerca di fare "azioni eroiche" senza avere una chiara idea sul da farsi (dalla "ricarica dei cellulari" all'utilizzo, per lui salvifico, di un materasso per attutire la caduta di un autobus che sta precipitando dal ponte). Il rapporto tra Billy e Freddy diventa subito molto simile a quello tra Tom Hanks e Jared Rushton in Big di Penny Marshall (che tanto doveva alla fonte "non accreditata, Da Grande, con Renato Pozzetto), c'è pure una scena che richiama lo storico tappeto a pianoforte, c'è il luna park e stregone Shazam originale un po' assomiglia per fascino e mistero al vado vecchio Zoltar. La piccola Faithe Herman interpreta una Darla dolcissima. Non è difficile voler bene a questa pellicola e c'è davvero da applaudire David.F. Sandberg per il modo in cui è passato da bravissimo regista Horror (Lights out, Annabelle 2: Creation) a bravo e sensibile regista di questo supehero-movie carico di buoni sentimenti. Shazam! scorre via che è un piacere per tutti i suoi 130 e rotti minuti. La parte "drammatica" della storia è davvero molto buona, il baby-superhero-buddy-movie alla Big funziona, gli effetti, le scenografie è la cornice di Philadelphia convincono. Il possente e ridicolissimo Shazam ha saputo con questa pellicola trovate il suo posto al sole nel DC Comics Cinematic Universe e già si parla concretamente di Sequel e della presenza di The Rock come Black Adam (una specie di "Vegeta", per capirci tra i non addetti ai lavori). La pellicola appena può ce la mette tutta a infarcire la scena di piccoli riferimenti agli altri supereroi DC, il gioco al rimando è molto divertente e gustoso. In attesa del prossimo Joker, vi invito senza remore alla visione di Shazam! in sala. Per tornare un po' bambini non c'è niente di meglio.  
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lunedì 22 aprile 2019

The prodigy - il figlio del male: la nostra recensione del nuovo Horror di Nicholas McCarthy




- Premessa: è difficile parlare di un film con questo titolo in questo periodo. Anche perché non è esattamente Bohemian Rhapsody né un film che celebri il mito del troppo presto scomparso, poco più di un mese fa, Keith Flint. Quindi, colgo l'occasione. Ciao Firestarter, hai dato voce alla mia rabbia adolescenziale e mi hai accompagnato nelle mie gare di Whipeout sulla vecchia play.


- vabbeh, partiamo.  Siamo nel classico "bambino pazzo movie". E da qui non ci muoviamo: i primi 4 minuti del film. Miles (il piccolo Jackson Robert Scott che abbiamo poco più di un anno fa visto interpretare il piccolo Jordie in It) ha la sfiga di venire al mondo nel momento in cui viene freddato a morte il serial killer Edward Scarka (Paul Fauteux). Secondo regole ultraterrene un po' a caso ispirate da film come Insidiuos di Wan, The eye 2 dei fratelli Pang, qualcosina di Omen e tanta Bambola assassina di Don Mancini, il piccolo Miles e il serial killer, per un problema interno di servizio (probabilmente di "formattazione incauta di un videogame/aggiornamento automatico Di sistema /sospensione del servizio di Telecom") si trovano a condividere lo stesso corpo, se non addirittura la stessa anima. Questo è successo, e di sicuro tutto questo non sarebbe accaduto nel 999999999999,9 % degli altri casi (tipo se nell'aldilà si usasse Linux o Apple, ma se lo dici al reparto burocrazia infernale poi ti prendono alternativamente per estremista nerd o,che è peggio, per fighetto, modaiolo, superficialone e alla fine il sistema informatico non te lo cambiano mai e sono ancora lì con Windows 95 plus). Certo ci sono teorie poco accreditate (illustrate dal film e dal forum di aldilàincompetente.org) per cui dietro a questo casino c'è una mezza ragione logica, ma i genitori di Miles prima o poi avranno a che fare con questo problema, perché sembra che dopo una certa età, dopo che il pupattolo tutto sommato ha finito la fase che va all'asilo, sia entrato di diritto nelle schiere dei " bambini maledetti" ( marchio registrato) alla "Maccaulay Culkin anni '90". Il nanerottolo inizia a parlare lingue strane, fa discorsi inquietanti, a volte pare che trasfiguri in volto e non c'è verso, suona orrendamente quel maledetto flauto dolce della cacchio di recita scolastica, a tutte le ore, sempre male, sempre svogliato, una vera rottura di pall... scusate forse questo ultimo aspetto non c'è nel film, ma di sicuro è un bambinetto e anche se non strettamente uno dei "bambini maledetti" (marchio registrato) prima o poi il flauto dolce lo tirerà fuori, e tu allora maledici tutta l'istituzione scolastica italiana, quel maestro menoso coi boccoli che ha fatto il conservatorio, la recita e le note, maledette pure loro, di quello schifo di Primavera del bastardo di Vivaldi, vomitate a calci nel culo tutto il giorno, con fastidio, sputate in quel brutto e sudicio pezzo di plastica chiamato flauto, da ogni nano di età scolare. Ma ora vi prometto che torno sul pezzo, giuro. Forse.
Segue, il resto del minutaggio del film, momenti vari in cui i genitori prima vanno dal neuropsicologo, poi devono capire come salvare il pargolo dalla "possessione", poi devono ragionare su chi affidarsi come "esperto" (esperto che probabile, per "liturgia" finirà morto ammazzato), infine dovranno fare i conti con la loro "responsabilità genitoriale". Nel mezzo dell'intreccio, il piccolo Miles zompetta nell'ombra e crea assurde strategie di morte e distruzione come la bambola assassina, dimostrando ne farlo una forza del tutto proporzionata a livello di bimbo, che non viene mai contenuta in alcun modo perché i genitori sono seguaci del metodo Montessori. Cioè, diciamolo già qui e chiaro, il film è abbastanza inquadrato nel genere. Però...


- Però è un film di genere di lusso: Nicholas McCarthy come regista è un nome da tenere sott'occhio (ottimo il segmento da lui diretto di Holidays, film horror a episodi di Blumhouse). Jeff Buhler come autore si sta facendo conoscere nell'underground di lusso (Abc of The death) e ha già una bella gatta da pelare (il remake di Pet Sematary, e tengo aperta parentesi perché c'è dell'interessante. Il nuovo adattamento di King fa già discutere per l'assenza del bambino - zombie in ragione di una sorellina più grande, e qui, in The prodigy, abbiamo quasi un bambino zombie comunque... chissà quale sceneggiatura è stata partorita prima e se dietro c'è una sorta di "compensazione "). Le musiche, che in un Horror fanno tanto, spesso tantissimo, sono di Joseph "Red demon" Bishara, che pure qui giganteggia. I produttori sono "sul pezzo", con a curriculum robette di lusso come Il Rito e L'esorcismo di Emily Rose. Andando poi all'essenziale, Taylor Schilling, da Orange is the new black, dimostra di gestire benissimo le atmosfere thriller-horror e il suo personaggio risulta davvero riuscito e sfaccettato. Peter Mooney è un bisteccone che per fare il ruolo del bisteccone va bene, il piccolo Jackson Robert Scott (e non capirò mai quale è il nome e quale il cognome) funziona, funziona bene e detto da me, che odio un po' "i nani", significa che mi ha davvero predisposto bene. Non un bambino attore americano medio che risulta sempre fintissimo in ogni faccetta, non un bambino attore americano mostro che dimostra tre volte la sua età anagrafica. Jackson, o Robert o Scott, o come cavolo si chiama, è un bambino quasi "autentico", non eccede in smorfie, dimostra un attaccamento interessante e ambiguo (come trama vuole ) con la "madre", sa mettere inquietudine con solo lo sguardo.



- Rimane il problema di fondo, è un film sui "nani": serve particolare convinzione ed empatita, per molti almeno, nell'accettare un film in cui la principale minaccia è un bimbetto. Certo è lo stesso discorso che si può applicare ai film di nani (Leprecauni o roba mistico - spaziale come  Critters, Gremlins, o i Folletti di nascosti nel buio ecc.) e bambole assassine varie (non Annabelle ovviamente), ore e ore di pellicola in cui i personaggi scappano via urlando da dei puffi, quando gli basterebbe affrontarli a calci e scaraventarli via come palloni. Ma quando il "mosto è un bambino" entriamo davvero in un territorio sacro, perché il bambino di fatto non è mai mostro e anche solo ipotizzare di sedarlo, pure in un contesto di finzione, pure in qualsiasi forma finta e assolutamente non violenta (l'alternativa non è nemmeno "pensabile"), è comunque un comportamento censurabile all'istante con querele sonanti. Perché questi film funzionino, serve che gli attori siano genitori credibili e trasmettano al massimo l'amore per il figlio, la difficoltà di accudimento, la speranza di aiuto, la disperazione di una situazione senza uscita (spesso metafora di una malattia). A The prodigy questo riesce con abbastanza naturalezza, per me riusciamo a "partecipare ai loro sentimenti", ma rimane il fatto che per qualcuno l'immagine del bambino "inarrestabile per troppo amore", croce e delizia di progetti come The Omen, possa non piacere. Soprattutto per chi non è genitore e guarda gli horror con i parametri dei videogame (che è sempre un approccio sbagliato). In sintesi, se non sopportate gli horror con bambini protagonisti, questo non è il film che vi farà cambiare idea.
-Finale: The prodigy non punta a stupire quasi mai, ma risulta fatto con cura sotto ogni voce, si segue con interesse, regala un paio di momenti davvero inquietanti. Un pacchetto completo, un regalo per tutti gli amanti del genere, con tanto di fiocco rosso sangue come decorazione. Per i non addetti ai lavori, un film godibilissimo, che sa farsi apprezzare anche sul lato più squisitamente tecnico-scenografico
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domenica 21 aprile 2019

Captive State: la nostra recensione del nuovo film di fantascienza di Rupert Wyatt, regista de L'alba del pianeta delle scimmie




In un futuro prossimo, o in una distopia abbastanza coerente ai nostri giorni, gli alieni ci hanno invaso e hanno vinto. Gli omini verdi sono i nuovi padroni del mondo e ci hanno accettato come sudditi a patto di uno strettissimo sistema di sorveglianza da gps ficcatoci in corpo (stile il mitico L'implacabile di Glaser), telecamere ovunque (stile Ready Player One di Spielberg) e una polizia militare stile Germania dell'Est (e qui la mente torna al grande Le vite degli altri di Von Donnersmarck). Una resistenza comunque ha cercato di formarsi, e punta tutto su azioni disperate e suicide. Chi nella polizia "lavora per gli alieni", come il personaggio di John Goodman, William, si sente sempre un po' un traditore ma al contempo la leva giusta per mantenere lo stato delle cose. Gabriel (Ashton Sanders) è un ragazzo sveglio ma un po' problematico che vuole percorrere la strada "rivoluzionaria" intrapresa dal fratello Rafe (Jonathan Majors, spesso ritratto sui palazzi con un appeal da Che Guevara). Gabriel è però anche un protetto di William, che cercherà in ogni modo di tenerlo lontano dai guai. 
Si respira un'aria di tensione costante, in Captive State, con momenti di interessante malinconia da detective story e un pizzico di Casablanca, tutti aggraziatamente sottolineati dalla presenza del misterioso personaggio della sempre bellissima Vera Farmiga. Gli alieni sono misteriosi, sempre per lo più nascosti allo spettatore. Sembra perseguano obiettivi e abbiano costumi non codificabili per l'uomo, a parte la "conquista di potere e risorse". Vivono nel sottosuolo, dove l'aria per gli umani è così rarefatta da necessitare di respiratori specifici. Hanno robot e mezzi da guerra che presidiano la superficie, ma in pochi li hanno davvero visti, sembra che si muovano rotolandosi, dalle storie che si raccontano e per alcune testimonianze dirette, probabilmente si accoppiano e nutrono in modi disgustosi, spesso alla presenza dei sudditi umani.
Sono "diversi", criptici, predatorii, ma al contempo la perfetta metafora di uno stato forte ed oppressore, contro il quale si può agire solo con "la guerriglia e le armi dei poveri", se non accettando la sottomissione. Un messaggio importante, di fantascienza "sociale" (come lo era d fatto la saga del Pianeta delle Scimmie), che fa mettere lo spettatore, americano in primis, nei "panni" di chi, per lo più inerme, combatte per sopravvivere a un paese fortemente capitalista e tecnologicamente evoluto come il loro. Una riflessione che si espande alla filosofia dell'arte della guerra, coinvolgendo nel discorso semantico (la parte più gustosa del film) anche i poemi omerici. Ci sono un paio di ottimi colpi di scena, compreso un finale che se forse non del tutto inaspettato è da standing ovation per "coolness". L'atmosfera è quella giusta, le scene d'azione sono ben gestire, la tensione è palpabile e gli attori, Farmiga e Goodman su tutti, giganteggiano ogni volta che possono, "mangiandosi" letteralmente tutte le loro scene, elevandole a piccoli capolavori di stile e recitazione. 
Manca però qualcosa all'insieme, qualcosa che si può sospettare sia stato tatticamente lasciato da parte per sviluppare il film come una saga, farne un brand prima del tempo. La natura low budget del progetto non aiuta molto poi in termini di spettacolarità, e questo per alcuni fan degli effetti speciali può essere un problema, così come la scelta di alcuni personaggi un po' sotto le righe (quello di Ashton Sanders su tutti) rende alcune parti della pellicola meno appassionati. Captive State sarebbe uno straordinario episodio pilota di una serie TV di lusso. Vorremmo vederne di più, anche con la consapevolezza che molto del fascino del film risiede nella nostra personale interpretazione dei misteri legati alla trama. 
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P.S: vi consiglio comunque di recuperare anche Moonlight, per vedere un Sanders davvero in forma.

sabato 20 aprile 2019

Noi - la nostra recensione del nuovo film di Jordan Peele




Sembra ieri che usciva in sala Get Out - Scappa, il film di esordio di Jordan Peele, regista e sceneggiatore per i tizi di Blumhouse. Un Thriller dalle venature sociali, intrigante, divertente quanto sagace, ansiogeno quanto basta, irresistibile anche ad una seconda visione. Grande ritmo, una bella idea di fondo, un po' mutuata da un capolavoro scritto da Charlie Kaufman, ma abilmente "reinterpretata", la voglia di spaventare e far ridere lo spettatore a tempi alternati, che riesce solo ai più grandi, come a Landis in Un lupo mannaro americano a Londra. Bravi tutti, un Oscar alla migliore sceneggiatura a Peele stra-meritato, ed eccoci al secondo importante banco di prova, quello della "conferma", quello che decide se di nuovo grande autore del thriller si parla, o arriva la "smentita", quella che avrebbe certificato che il caso Get out era solo un fortunatissimo fuoco di paglia. Ma, ve la taglio breve, qui nel post visione, siamo alla conferma di un grande talento che, più o meno con gli stessi ingredienti e toni già sperimentati, sa espandere e migliorare sotto ogni punto di vista. Non voglio dirvi una sola parola sulla trama, perché vi rovinerei parte del divertimento già in parte rovinatovi dai trailer. Accenno solo a un paio di "suggestioni". Il ritorno a una casa delle vacanze senza la presenza rassicurante dei nonni, un trauma infantile al cui centro c'è una attrazione da luna park come la "casa degli specchi", una strana situazione di home-invasion che si trasforma presto in match gladiatorio tra persone normali e quelli che sembrano i loro gemelli cattivi, una grande manifestazione collettiva di uomini e donne che si stringono la mano in fila, come le decorazioni con gli omini di carta, per un numero infinito di chilometri. A voi unire i puntini e comprendere il nuovo rompicapo di Peele, con la rassicurazione di trovarci di nuovo in un film dalle forti connotazioni Thriller quanto fanta-sociali, a cui si aggiunge tanto humour, un ritmo indiavolato e un'idea visiva di boogieman che già potrebbe furoreggiare al prossimo halloween (speriamo nella variante con "forbici di gomma arrotondate"). Come brevemente accennato, ogni personaggio principale ha un doppio "oscuro" ed è intrigante scovarne similitudini e differenze comportamentali. Bravissima Lupita Nyong'o, tanto nel ruolo di una madre protettiva e tosta quanto una novella Ripley, tanto in quello di una creatura "rotta", ma vitale come Red. Basici e maldestri, al punto da apparire quasi intercambiabili, i "gemelli" di Winston Duke,  l'attore che strappa in assoluto più risate. Invece vulnerabile l'una quanto inquietante l'altra, le "gemelle" interpretate dalla brava Shahadi Wright Joseph. Il piccolo Alex Evan ha però la palma del migliore, dando corpo e anima all'introverso e vulnerabile Jason, quanto al bestiale e silenzioso Pluto. Ci sono un paio di plot twist davvero notevoli, c'è una componente "sanguinolenta" ma piuttosto contenuta, se non appena suggerita; tra le molte location suggestive, c'è almeno una ambientazione veramente da incubo che tra scale mobili, corridoi spogli, sanguinolenti e pieni di conigli, mi è davvero entrata in testa (ricordandomi pure qualcosa di Silent Hill). Sono inoltre molto contento di aver assistito a uno spettacolo con una sala piena di ragazzi molti giovani e tutti con la bocca aperta e zero schermi dei telefonini accesi. A differenza del 95% degli altri horror, questo Noi (non so poi quanto sono stato "formulato" per assistere a un tale evento), è riuscito a catalizzare l'attenzione dei giovani dall'inizio alla fine. 
In conclusione, andate in sala per divertirvi e spaventarvi con il nuovo horror di Peele. Se ancora non lo conoscete o dopo Noi volete conoscere di più questo regista, buttatevi poi a pesce su Get-out: scappa e poi fatemi sapere. Buona visione e tanti consigli crudi per tutti. 
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mercoledì 17 aprile 2019



Ciao Monkey, grazie per averci regalato il tuo fantastico mondo pieno di donne da infarto, samurai silenziosi, pistoleri malinconici e ladri gentiluomini.

Grazie per aver deriso e infranto il tabù del sesso nei fumetti.

Grazie per averci mostrato come il vero coraggio, l'onore e l'amicizia, nasca anche dal sorriso sbilenco e irresistibile di un furfante dall'animo nobile.

Buon viaggio Monkey, ovunque tu sia diretto so per certo che Zenigata e le sue manette non ti prenderanno mai.

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giovedì 11 aprile 2019

Hellboy : la nostra recensione del nuovo film tratto dal fumetto di culto di Mike Mignola




- (premessa) Hellboy di nuovo al cinema: sono passati 11 anni da Hellboy: The Golden Army, eppure pare ieri. Il cinema è stato invaso dai supereroi, ma il piccolo anti-eroe cornuto, scorbutico e malinconico, nato dall'animo poetico di un grande artista cresciuto nell'underground si è sempre trovato la sua fetta di pubblico, un po' come le Tartarughe Ninja.  E anche di recente, come priva dell'onda lunga dell'affetto dei fan, Hellboy è apparso nei videogame, in Injustice 2, come personaggio giocabile di un videogame di combattimento dedicato ai supereroi DC comics. Una guest-star di lusso, (insieme alle Tartarughe Ninja) da scegliere per combattere contro Batman, Superman, Wonder Woman e Aquaman, in attesa di una nuova pellicola, per lungo tempo favoleggiata, agognata e rimandata (chissà che pure per le Tartarughe Ninja...). Almeno fino a quando sono iniziate a circolare le prime, risicatissime voci circa questa nuova produzione, sempre sotto egida della Dark House Entertainment (Divisione cinematografica della Dark Horse, anche produttrice del fumetto di Hellboy), della Laurence Gordon Pictures (storico produttore delle saghe di Die Hard e Predator). Questa volta la produzione è in collaborazione con i tipi della Millennium Films (filale della Nu Image di Avi Lerner, con Focus per i direct-to-video e produzioni europee, tra cui le saghe di Expendables, Attacco al potere, l'ultimo Conan con Mamoa, l'ultimo Hunter Killer), che prende il posto di Universal  Pictures e Relativity Media. Si sono fatte da subito infinite speculazioni sul progetto.


Neil Marshall, regista di piccoli horror di culto come Dog Soldier e Descent, è chiamato a portare sullo schermo uno dei più celebri archi narrativi della graphic novel di Mike Mignola con protagonista il diavolo antieroe dalle "corna-rasate". Parliamo di Wild Hunt, storia  arrivata anche nelle nostre fumetterie,  grazie a Magic Press,  con il titolo La caccia selvaggia, testi cruentissimi e sempre ironici di Mignola e disegni di un ispiratissimo, ultra - gotico e ultra-rosso-sangue Duncan Fegredo. A impersonare la terribile e sensuale antagonista della vicenda, Nimue, la regina di sangue, è stata chiamata la divina "scream-queen", ma anche molto "kick-ass-queen" Milla Jovovich. Una scelta che appare subito azzeccata.  A indossare i panni del gigantesco  e complesso Hellboy, creatura gioiosamente anarchica e "asimmetrica" nella rappresentazione visiva (secondo i canoni di disegno super-eroistico quindi "ambiguo e maledetto"), drammatica quanto autoironica, è oggi David Harbour, che virtualmente raccoglie la possente "mano del destino" dal grande Ron Perlman, primo attore a ricoprire il ruolo di Hellboy al cinema. Una eredità non semplice, perché Perlman era così tanto Hellboy da sembrare Hellboy anche senza trucco. Se il precedente e amatissimo dittico cinematografico di Hellboy, diretto da Guillermo del Toro, rimane quindi orfano di un capitolo che chiudesse in modo ideale la storia (per ragioni in effetti non molto chiare tuttora... e questo vale di fatto pure per un terzo film delle Tartarughe Ninja... ok, la smetto di parlare qua dentro di Tartarughe Ninja...forse), questo nuovo capitolo, benedetto sempre dalla supervisione di Mike Mignola, rappresenta una specie di soft-reboot o starting-point o, in ogni caso, un nuovo inizio per avvicinare (se possibile) nuove legioni di fan al personaggio e per raccontare ancora tante altre storie. Se  qui non compaiono ancora personaggi storici del fumetto, in ragione di nuovi comprimari anche abbastanza interessanti, siamo contenti di re-incontrare il "nuovo" vecchio Trevor, il "papà di Red" che qui viene interpretato dal bravo Ian McShane, raccogliendo il ruolo del mai troppo amato e indimenticabile John Hurt. Tutto il resto, siamo onesti, complice pure l'assenza di un produttore grosso come Universal Pictures, prima della visione in sala appariva come abbastanza oscuro, con lo spettro di un regista visionario e gotico come Del Toro, in pratica "nato" per dirigere Hellboy, che aleggiava malinconico su tutto, il  grande assente.
- ( sinossi fatta male) Red deve andare in Inghilterra ad ammazzare dei giganti, ma viene coinvolto in eventi legati alla resurrezione di una strega potentissima, alla spada excalibur, alla fine del mondo. Fine.


- Il diavolo e la regina di sangue, secondo il regista di Dog Soldier e Descend: quando si parla di trasposizioni cinematografiche di personaggi nati sulla carta, in genere l'imprinting aurorale ha un certo peso. I Batman di Tim Burton offrono una visione molto riuscita e definita dell'eroe DC Comics, tanto da essere considerata per anni come "punto di riferimento" tanto per i disegnatori, quanto autori e registi che si sono occupati in seguito dell'uomo pipistrello (in primis ha influenzato la bellissima serie animata anni '90 prodotta da Sunrise). Ma lo stesso si è detto in seguito del Batman cinematografico di Nolan, che pur nelle estreme differenza con l'immagine burtoniana è diventato altrettanto iconico e di riferimento. I personaggi di carta possono quindi vivere interpretazioni tanto diverse quanto apprezzate ed appassionate. Se Del Toro sembrava nato per dirigere Hellboy nel suo lato più fantasy, scenograficamente ricco e malinconicamente hard boiled, Marshall, da sperimentatore degli anfratti più lugubri e sanguinolenti del genere horror, avrebbe potuto farci sprofondare tra le pieghe più bestiali, inquiete e splatter delle pagine di Mignola. Una visione diversa ma ugualmente fedele alla materia originale. Marshall con un gusto più "punk" nella gestione dei dialoghi, una maggiore urgenza nella rappresentazione dell'azione (buona e abbondante, ma spesso a scapito della uniformità narrativa), decide di mettere in campo soluzioni visive esagerate in stile heavy metal, roba da Ash vs Evil Dead mixata a scene quasi riprese di peso da videogame come Diablo e manga come Berserk. Del Toro e Marshall hanno entrambi a cuore le relazioni umane, ci fanno affezionare ai protagonisti. I mostri di Del Toro sembrano creature tentacolari lovecraftiane, folletti, maghi, orchi ed elfi usciti da favole molto dark, creature dotate di crudeltà quando gentilezza. Marshall verso i suoi mostri ci fa sentire (tendenzialmente) una "distanza", indaga la brutalità e imprevedibilità delle creature più selvagge (come i lupi mannari in Dogsoldier), ci fa temere i demoni che si annidano minacciosi e senza forma nell'oscurità (come in Descent), ma ogni tanto (e meno male) sa giocare anche sulla leggerezza (come per il demone cinghiale), con l'improbabilità della minaccia  (come nel corto sulle "zucche assassine" del film a episodi Tales of halloween, da noi in home video per Midnight Factory). Sono piani interpretativi diversi, ma Mignola non chiude la porta, nelle storie di carta, a queste possibili letture e quindi immaginare un "nuovo" Hellboy cinematografico è possibile, sfruttando ingredienti diversi. Solo che Marshall è forse troppo distante da Del Toro e quasi scolastico nel leggere alla lettera Mignola (il vol.9 nel fumetto nell'esattezza). Quello che ne risulta è, al netto di un paio di sbadigli, un film imperdibile per chi ama le opere gioiosamente splatter, sopra le righe e senza troppe pretese, adatte ad una serata disimpegnata. Il comparto visivo è di grana molto artigianale ma ruspante, fedele alla fonte, e con un paio di personaggi davvero ben concepiti (come Baba Jaga), gli attori si divertono un mondo ad abbattere schiere di mostri colorati nella maniera più esagerata possibile, ci si diverte e ci si spaventa, un paio di ambientazioni sono decisamente evocative e la musica viaggia sempre a tutto volume, per lo più con trascinanti brani rock. Se cercate una costruzione narrativa efficace quanto stimolante, una delicatezza di tocco nell'affrontare le tematiche della diversità, lo stupore di un mondo narrativo sfaccettato che si arricchisce sempre più di spessore...beh, non è il film che fa per voi e non è certo il terzo Hellboy di Del Toro, anche se è facile immaginaria che, con i dovuti adattamenti, quello che accade in questo film sarebbe potuto accadere anche nel terzo film di Mignola, al netto di una epicità che qui è ridotta del 200%. Insomma, per usare una metafora che spero quelli della mia età potrebbero capire, vedere questo Hellboy targato 2019 è stato come passare da Batman Returns di Burton a Batman Forever di Schumacher. Non è che Batman Forever non fosse divertente e, sticazzi, ancora oggi ha una colonna sonora da urlo e un riuscitissimo Enigmista, a monte di tanta azione colorata e una Drew Barrymore vestita da angioletto che è entrata negli annali dei sogni erotici per almeno un decennio. Però il comparto narrativo burtoniano era altra cosa. Michael Keaton era altra cosa, lo sviluppo del personaggio era altra cosa. Harbour è Hellboy non meno di Pearlman, dà del diavolo rosso una interpretazione forse più rock, ma ci siamo, come ci siamo su quasi tutti i personaggi, salvo una Jovovich sempre divina ma un po' sacrificata nel ruolo. Altro punto a sfavore è la trama, che se per il  primo tempo regge va sempre più per sfilacciarsi fino a incasinare le dinamiche di tempo e spazio sul finale, a cui per altro arriva con il fiato un po' corto. Ma quello che davvero pesa alla fine è tutto il potenziale epico inespresso, materia che Del Toro trattava con i guanti bianchi e che Marshall getta alle ortiche non sapendo bene cosa farsene. E questo è un po' grave se cerchi di fare un film sulla mitologia della fine del mondo, anche se non letale se prendi la pellicola solo come un intrattenimento leggero dal quale non aspettarsi di più che un paio di ore di azione a rotta di collo.


- Conclusioni: se, come me, amate i mostri, lo splatter, le sparatorie, le battutacce e una azione concitata da videogame, amerete questo Hellboy come si può amare un onesto e curato film di genere, al netto delle differenze con le pellicole precedenti e, se siete fan del fumetto, trovando pure un'opera pure più vicina e coerente alla visione di Mignola. Questo Hellboy "ci sta", in una ipotetica mini-maratona, a fianco di The last Witch-hunter con Vin Diesel, di Hansel e Greatel- Ammazzavampiri, Constantine con Keanu Reeves e La leggenda degli uomini straordinari con Connery (per gradire aggiungerei pure un Uomo dai pugni di ferro e magari un Ghost Raider). Se la prospettiva di una simile scelta di titoli non rientra nelle vostre abituali preferenze, a questo giro il diavolo rosso di Mignola non fa forse per voi. In caso contrario, via di Popcorn con la mia benedizione. 
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mercoledì 10 aprile 2019

A un metro da te - la nostra recensione



Stella (Haley Lu Richardson), Will (Cole Sprouse) e Poe (Moisés Aris), sotto l'occhio vigile dell'infermiera Barb (Kimberly Hebert Gregory), sono lungo degenti in un ospedale americano dei gironi nostri, tutti colpiti da una malattia genetica che prende il nome di Fibrosi Cistica e che tende a rovinare i polmoni in pochissimo tempo, richiedendo dei trapianti. Ad aggravare la situazione, chi soffre di fibrosi cistica non può aver nessun contatto ravvicinato con chi è malato della stessa patologia, motivo per cui l'empatia tra i pazienti si può creare solo a distanza di sicurezza, facendo in modo che non si avvicinino l'un l'altro per più di un metro. Stella è una ragazza vitale, molto attiva sui social, dove condivide con i followers sogni e le complesse ruotine di cura giornaliera, cercando di portare un punto di vista positivo nell'affrontare la malattia. Poe è il migliore amico di Stella, la spalla su cui poter piangere se fosse possibile avvicinarsi più di un metro. La tiene su di morale, le dà consigli sull'alimentazione e, pur a distanza, le fa da angelo custode. Will è un ragazzo appena arrivato nel reparto. Gli piace disegnare fumetti e sta vivendo con angoscia la sua condizione di malato. Stella lo ispira, presto i due si incontrano e si innamorano. Stella si impone una speciale disciplina per gestire al meglio il loro rapporto, frequentandolo rigorosamente tenendolo a distanza di una scopa che sempre porta con se. 
A un metro da te è una classica storia dell'ormai florido filone che esplora l'adolescenza "rubata" dalla malattia. Sono storie di amore, coraggio, speranze e qualche lacrima. In genere storie anche utili, per informare, abbattere lo stigma che spesso si associa alle malattie, spingere qualcuno a interessarsi e magari collaborare alle cure e alla ricerca. A un metro da te affronta con realismo e molta umanità il tema, grazie soprattutto alla bravura di una interprete come Haley Lu Richardson. Il resto del cast è piuttosto funzionale alla trama, che scorre su percorsi per lo più noti, ma la visione diverte ed appassiona fino all'epilogo, che farà tirare fuori il fazzoletto ai più sensibili. Ormai il finale di questi film si affronta come il classico finale di un film horror, non so se sia davvero un bene, ma la meccanica qui funziona bene. Se siete adolescenti e amanti delle love story, A un metro da te è un film gradevolissimo e commovente per passare una serata in sala. 
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martedì 9 aprile 2019

Una giusta causa (On the basis of sex): la nostra recensione del nuovo film con Felicity Jones, ispirato a una delle pagine legali più interessanti della Storia Americana



Ruth Bader Ginsburg, nella sua straordinaria quanto complessa carriera, passata dall'essere una delle  poche donne ammesse nel '56 ad Harvard fino a ricoprire la carica di Giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti d'America, ha dedicato tutta la vita alla lotta per i diritti delle donne e per la parità di genere. È l'autrice del primo libro di legge sulla discriminazione sessuale. Nell'America degli anni 59/60, in cui vigevano ancora molte leggi che ponevano uomini e donne in condizioni di disuguaglianza  (in sintesi: l'uomo lavora - la donna accudisce i figli e la casa), anche in ragione di una visione del mondo che riconosceva ancora a pieno i ruoli e compiti "di genere", come illustrati dal sociologo Talcott Parsons, la Ginsburg ha rappresentato un faro verso il futuro. Al centro della trama del film c'è uno storico processo del 1972, Charles E. Moritz vs Commissioner of Internal Revenue, una questione di importante rilevanza sociale e politica, i cui "effetti" hanno stimolato il dibattito, ancora attualissimo, sui diritti di chi si prende cura dei familiari malati, in gergo "caregiver". In sostanza, essendo Charles E. Mortiz un uomo, la legge dell'epoca gli impediva di percepire un sussidio (concesso invece alle donne, perché "per ruolo" le uniche preposte all'accudimento dei malati, bambini, anziani e cura domestica, secondo una sorta di "tradizione non scritta") per occuparsi a casa di sua madre, gravemente malata e allettata. Nessuno voleva difenderlo anche per timore di incorrere nelle ire della terribile commissione tributaria americana. Quindi parliamo di fatto di una legge che discriminava sulla base del "sesso" del caregiver, ma grazie a una particolare circostanza "lessicale" (che il film brevemente illustra), il tema della sessualità è stato sostituito negli atti del processo con quello del "genere". Il processo si è così espanso di significato ed è diventato il capofila di alcuni provvedimenti sulla parità di genere. La Ginsburg ha dedicato tutta la vita ad abbattere leggi come questa e come altre che ponevano dei paletti di ruolo e trattamento per lo più fissati in base a teorie sociologiche antiquate. È stata una autentica rivoluzionaria, e se volete approfondire vi consiglio la visione  di un bellissimo documentario, dal titolo "RBG" del 2017, oltre alla lettura di una considerevole pioggia di libri che ne approfondiscono i lavori. 


Doveva accadere, quindi, con la Ginsburg ancora in vita e ancora combattiva, che prima o poi arrivasse una pellicola in grado di farla conoscere al grande pubblico. Il film diretto da Mimi Leder con la Jones è il risultato logico di questa aspettativa ma va al di là del compitino ben svolto. La storia parte dagli anni di Harvard e della Columbia per poi analizzare il ruolo della Ginsburg come madre e poi attivista e poi agguerrito avvocato, in un periodo nel quale le donne non erano solite essere ammesse nei tribunali. La cornice storica è squisitamente impreziosita da una scenografia dai colori tenui, che si caricano per contrasto dei colori femminili che si fanno via via spazio a partire dai vestiti della protagonista. Armie Hammer interpreta il marito come un uomo che, in anticipo sui tempi, inizia a fare un "passo sociale indietro", occupandosi in prima persona della casa e dei figli e permettendo alla moglie di affrontare le sue battaglie sociali. Di particolare interesse il ruolo di Cailee Spaeny, che interpreta la figlia maggiore della coppia, che vive un rapporto con la madre molto sofferto, conflittuale, realistico. Il pregio più grande di una pellicola come questa, che si potrebbe ritenere già sulla carta come profondamente auto-celebrativa, è proprio la misura con cui vengono descritti i rapporti famigliari, il rigore narrativo con cui traspare che non tutto è coperto di zucchero filato e la nostra eroina dei diritti civili non ha avuto una vita facile, né dentro né fuori dalle aule del tribunale. Molto interessanti sono quindi le scene che riguardano l'aula, dove nella cornice del più classico legal drama americano viene messo alla sbarra un modo di pensare attuale quanto divergente, che cerca di farsi strada all'interno di una dogmatica autoreferenziale quanto liturgicamente accettata. Sem Watherson, direttamente da Law and Order, con le sue sopracciglia cespugliose e dall'atteggiamento ecumenico quanto ruvido, rappresenta lo sguardo più classico dell'istituzione americana, dotando il suo personaggio di gustosi tic e un pizzico di senile misoginia. 
Una giusta causa funziona, passa veloce grazie a un buon ritmo narrativo ed evita (pur nei limiti del possibile) di cedere il passo alla celebrazione senza curarsi del realismo storico, anche agrodolce, che ha caratterizzato la vita Ruth Bader Ginsburg. La composizione è piuttosto ordinata e anche se ci troviamo di fatto in un film di genere legale (per altro parecchio tecnico in alcuni frangenti), la visione è comunque gradevole anche per lo spettatore occasionale. 
Comunque, per sicurezza, mi dicono dalla regia: "la visione della pellicola è del tutto sconsigliata alle persone meno sensibili sulle tematiche dell'uguaglianza di genere". Per gli altri, buona visione. Talk0

lunedì 8 aprile 2019

Dumbo: la nostra recensione del nuovo film di Tim Burton, adattamento del classico animato Disney



Dumbo è una delle favole animate Disney più celebri, una lettera d'amore e speranza per tutti coloro che, almeno una volta nella vita, si sono sentiti esclusi, discriminati, "diversi". Temi che sono certo cari anche a Tim Burton, che proprio in Disney, come animatore, ha iniziato la sua ascesa fino a diventare il registra di alcune delle più importanti favole dark moderne come Edward Mani di Forbice, come Nightmare before Christmas, come, forse, Beetlejuice. Film dalla parte dei diversi, dei dimenticati, di chi è prigioniero di un corpo e un ruolo che non è il suo. Il circo, da sempre nell'immaginario luogo legato agli animali in gabbia, ai palloncini, al brivido, quanto alle donne barbute, uomini forzuti e fachiri, è certamente uno dei luoghi più cari a Burton, già affrontato, spesso trasversalmente, e a volte anche più direttamente, in pellicole come Batman Returns, come in Big Fish. Così abbiamo il pacchetto completo, già sulla carta. La torta delle aspettative dell'appassionato di cinema medio è soddisfatta: Burton era forse il regista ideale per Dumbo, quello che poteva capirne nel modo più intimo la poetica, "tradurla all'oggi" preservandone i passaggi chiave e senza roba naïf come corvi parlanti italoamericani, con una visione del circo più "sostenibile" (ma al contempo più critica di quella proposta da un The greatest showman). Burton era l'unico che poteva credibilmente trasporre su schermo dei rosaelefanti-scheletrico-zombie-a-tre-teste-frutto-della-droga, senza che sembrasse una forzatura. Se poi dal progetto passiamo alla realizzazione pratica, ci riscalda il cuore vedere nel cast Michael Keaton e Danny De Vito, di nuovo insieme in un "circo burtoniano" dopo lo struggente e indimenticato secondo e ultimo film di Batman di Burton, avvolto dalla neve di Gotham. Ci sono a tratti gli stessi colori, quasi gli stessi costumi, la musica del solidale Elfman, la malinconia e tutto si sposa bene con i colori pastello e il concept del classico Disney del 1941. E, se ci penso, anche travolgendo la consecutio storica,  la scena dell'abbraccio tra Dumbo e la madre, già del 1941, (che avviene in modo struggente attraverso la proboscide di mamma elefante che, dall'ombra di una porta chiusa, esce dallo spiraglio con sbarre da prigione, per sollevare il figlio coccolandolo, quasi la versione "dolce" di un tentacolo di Chatulu), era già allora una "summa" di tanto cinema Burtoniano, e oggi, con questo remake, quella stessa scena quasi "ritorna al futuro". 


Un plauso al modello poligonale di Dumbo, davvero tenerissimo, dolce e indifeso come deve essere. Se non avete ancora in casa un pelouche di Dumbo, dopo il film ne vorrete probabilmente uno. Sistemati setting e colori, deciso che lo scenario sarà la Gotham di Batman Returns con il 70% di park giochi freak e palloncini in più, arriva l'idea di inserire nel cast Colin Farrell, cowboy senza un braccio, la divina Eva Green acrobata angelica, e i piccoli Nico Parker e Finley Hobbins. La nuova storia duetta con i tempi classici del cartone animato, strizzando l'occhio forte, più volte, in direzione dei veri fan, che decodificheranno le mille citazioni visive. Tutto gira bene, per almeno il primo tempo, poi il meccanismo si appesantisce. Perché di fatto il primo tempo corrisponde come storia  a tutto il Dumbo animato, mentre il secondo esplora uno scenario nuovo, un Dumbo 2 apocrifo ambientato in una sorta di Gardaland carica di freak e animali in gabbia. Tutto visivamente eccelso, ma con un trasporto emotivo più contenuto e con questa ossessione un po' naïf per cui tutti i protagonisti, a un certo punto, cercano di cavalcare il Dumbo volante, come fosse una giostra di Disneyland. Forse troppo naïf, pure per gli standard burtoniani. 
Insomma, il film convince sotto molti aspetti, ma la magia non dura per tutti e due i tempi. Anche se nel complesso è intrattenimento di lusso e tutta la visione scorre tranquilla e placida come la ninna nanna di una mamma elefante dedicata al suo piccino dalle orecchie giganti. 
Talk0