Ruth Bader Ginsburg, nella sua
straordinaria quanto complessa carriera, passata dall'essere una delle
poche donne ammesse nel '56 ad Harvard fino a ricoprire la carica di Giudice
della Corte Suprema degli Stati Uniti d'America, ha dedicato tutta la vita alla
lotta per i diritti delle donne e per la parità di genere. È l'autrice del
primo libro di legge sulla discriminazione sessuale. Nell'America degli anni
59/60, in cui vigevano ancora molte leggi che ponevano uomini e donne in
condizioni di disuguaglianza (in sintesi: l'uomo lavora - la donna
accudisce i figli e la casa), anche in ragione di una visione del mondo che
riconosceva ancora a pieno i ruoli e compiti "di genere", come
illustrati dal sociologo Talcott Parsons, la Ginsburg ha rappresentato un faro
verso il futuro. Al centro della trama del film c'è uno storico processo del
1972, Charles E. Moritz vs Commissioner of Internal Revenue, una questione di
importante rilevanza sociale e politica, i cui "effetti" hanno
stimolato il dibattito, ancora attualissimo, sui diritti di chi si prende
cura dei familiari malati, in gergo "caregiver". In sostanza, essendo
Charles E. Mortiz un uomo, la legge dell'epoca gli impediva di percepire un
sussidio (concesso invece alle donne, perché "per ruolo" le uniche
preposte all'accudimento dei malati, bambini, anziani e cura domestica, secondo
una sorta di "tradizione non scritta") per occuparsi a casa di sua
madre, gravemente malata e allettata. Nessuno voleva difenderlo anche per
timore di incorrere nelle ire della terribile commissione tributaria americana.
Quindi parliamo di fatto di una legge che discriminava sulla base del
"sesso" del caregiver, ma grazie a una particolare circostanza
"lessicale" (che il film brevemente illustra), il tema della
sessualità è stato sostituito negli atti del processo con quello del
"genere". Il processo si è così espanso di significato ed è diventato
il capofila di alcuni provvedimenti sulla parità di genere. La Ginsburg ha
dedicato tutta la vita ad abbattere leggi come questa e come altre che ponevano
dei paletti di ruolo e trattamento per lo più fissati in base a teorie
sociologiche antiquate. È stata una autentica rivoluzionaria, e se volete
approfondire vi consiglio la visione di un bellissimo documentario, dal
titolo "RBG" del 2017, oltre alla lettura di una considerevole pioggia
di libri che ne approfondiscono i lavori.
Doveva accadere, quindi, con la Ginsburg ancora in vita e ancora combattiva, che prima o poi
arrivasse una pellicola in grado di farla conoscere al grande pubblico. Il film
diretto da Mimi Leder con la Jones è il risultato logico di questa aspettativa
ma va al di là del compitino ben svolto. La storia parte dagli anni di Harvard
e della Columbia per poi analizzare il ruolo della Ginsburg come madre e poi
attivista e poi agguerrito avvocato, in un periodo nel quale le donne non erano
solite essere ammesse nei tribunali. La cornice storica è squisitamente
impreziosita da una scenografia dai colori tenui, che si caricano per contrasto
dei colori femminili che si fanno via via spazio a partire dai vestiti della
protagonista. Armie Hammer interpreta il marito come un uomo che, in anticipo
sui tempi, inizia a fare un "passo sociale indietro", occupandosi in
prima persona della casa e dei figli e permettendo alla moglie di affrontare le
sue battaglie sociali. Di particolare interesse il ruolo di Cailee Spaeny, che
interpreta la figlia maggiore della coppia, che vive un rapporto con la madre
molto sofferto, conflittuale, realistico. Il pregio più grande di una pellicola
come questa, che si potrebbe ritenere già sulla carta come profondamente
auto-celebrativa, è proprio la misura con cui vengono descritti i rapporti
famigliari, il rigore narrativo con cui traspare che non tutto è coperto di
zucchero filato e la nostra eroina dei diritti civili non ha avuto una vita
facile, né dentro né fuori dalle aule del tribunale. Molto interessanti sono
quindi le scene che riguardano l'aula, dove nella cornice del più classico
legal drama americano viene messo alla sbarra un modo di pensare attuale quanto
divergente, che cerca di farsi strada all'interno di una dogmatica
autoreferenziale quanto liturgicamente accettata. Sem Watherson, direttamente
da Law and Order, con le sue sopracciglia cespugliose e dall'atteggiamento ecumenico
quanto ruvido, rappresenta lo sguardo più classico dell'istituzione americana,
dotando il suo personaggio di gustosi tic e un pizzico di senile
misoginia.
Una giusta causa funziona, passa veloce
grazie a un buon ritmo narrativo ed evita (pur nei limiti del possibile) di
cedere il passo alla celebrazione senza curarsi del realismo storico, anche
agrodolce, che ha caratterizzato la vita Ruth Bader Ginsburg. La composizione è
piuttosto ordinata e anche se ci troviamo di fatto in un film di genere legale
(per altro parecchio tecnico in alcuni frangenti), la visione è comunque
gradevole anche per lo spettatore occasionale.
Comunque, per sicurezza, mi dicono dalla
regia: "la visione della pellicola è del tutto sconsigliata alle
persone meno sensibili sulle tematiche dell'uguaglianza di genere". Per
gli altri, buona visione. Talk0
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