Ricordo Pantani che volava in bici
davanti al Santuario di Saronno, durante il Giro d’Italia. Stava a tre metri da
me ed era come vedere Superman dal vivo. Ho ancora nel cuore quell’immagine tra
i ricordi più cari. Tornava in bici dopo un grosso infortunio, che aveva
affrontato con grande senso dell’umorismo cantando la sigla di un programma
sportivo di Italia 1. Era al massimo, erculeo e sorridente come un eroe greco,
come Alberto Tomba, la gente era travolta dalla sua carica.
Marco Pantani, “il pirata”, è entrato
nel cuore di milioni di persone, sapeva essere indimenticabile.
Poi Pantani è stato “ucciso”, più volte.
Prima a Madonna di Campiglio nel 1999, per uno scandalo dai contorni ancora
confusi, che gli troncava la carriera al suo apice con già in tasca a un paio
di tappe la vittoria del Giro, con una giustizia sportiva che ha giudicato a
senso unico, alla ricerca del “caso esemplare per combattere il doping”, senza
ascoltare repliche, come ai tempi delle inquisizioni. Poi c’è stato lo scandalo
mediatico, con tutti i giornali contro di lui con tale violenza a senso unico,
un tale livore, che da allora la Gazzetta dello Sport non è più entrata in casa
mia. Non sono mai stati cattivi quanto con Pantani con nessuno, nemmeno con
Armstrong. Dopo di che il pirata è morto ancora, cadendo in una depressione che
ne ha corroso l’animo, incrinando gli affetti, portandolo a negare se stesso e
ad avvicinarlo alle brutte frequentazioni. Un giorno è morto del tutto, a
Rimini nel 2004, a San Valentino,
in una vicenda ancora non chiara, e già
un minuto dopo la stampa lo uccideva di nuovo, interpretando gli eventi come il
“normale decorso di una vita sbandata già nota dal 1999”. I fan hanno sempre
continuato ad amarlo e difenderlo, anche perché il pirata ha sempre combattuto,
si è sempre rialzato nonostante tutto, proprio come fanno i veri eroi. Ma anche
perché c’erano troppi conti che non tornavano, sia a Madonna di Campiglio che a
Cortina, “conti“ documentati da una lunga serie di atti ufficiali
misteriosamente dimenticati in qualche cassetto.
Il film, scritto e diretto da Domenico
Ciolfi, è costruito sulla base di un lungo lavoro di ricerca che ha coinvolto
persone che conoscevano Pantani, quanto esperti in materia giuridica e medici.
Non c’è solo la ricostruzione storica dei momenti più difficili della vita
dell’atleta, non c’e solo un’analisi sul lato umano e degli affetti, ma anche
la possibile interpretazione degli stessi alla luce della enorme
documentazione raccolta e spesso ignorata negli anni, che oggi proprio grazie
al film può portare a una nuova visione d’insieme che possa portare a una
riabilitazione dell’uomo. Ciolfi costruisce quindi un film unico con tre
“anime”. È documentario, per la presenza di spezzoni di telegiornale. È
un film drammatico-biografico per la scelta di raccontare Pantani attraverso
l’utilizzo di attori che mettono in scena momenti raccontati da chi lo ha
conosciuto, prima di tutti la mamma Tonina. È infine una ricostruzione
innovativa dei fatti di Madonna di Campiglio e Rimini, ad uso della
magistratura, per poter riaprire i fascicoli archiviati.
Come in Io non sono qui di Todd
Haynes, il protagonista è narrato attraverso l’uso di più attori. C’è un
Pantani giovane interpretato da Marco Palvetti, un Pantani del periodo di
Madonna di Campiglio interpretato da Brenno Placido, un Pantani del periodo di
Rimini interpretato da Fabrizio Rognone. In un gioco di specchi continuo,
favorito da una narrazione che sceglie il montaggio alternato sovrapponendo più
piani temporali, ognuno degli attori riflette una sfumatura diversa
dell’immagine del campione, fisica quanto emotiva. Come contrappunto a questi
tre Pantani, che diventano 4 considerando il vero attore presente nei filmati
d’epoca, Monica Camporesi interpreta sia Christine, la donna a lungo amata,
quanto Helena, la donna che lo ha accompagnato negli ultimi anni. Pantani
nel film confonde Helena con Christine, rivivendo un momento della sua vita più
felice, e lo spettatore cade nello stesso abbaglio, si perde in nuovi specchi e
riesce a empatizzare ulteriormente. È una scelta di casting affascinante,
supportata dalla presenza di attori come Giobbe Covatta e Francesco Pannofino
che sanno rendere ulteriormente frizzante la narrazione, anche se il piatto
forte del film risiede nella maniacale ricostruzione storica che arriva a
riportare le frasi degli inquirenti, fino a sviluppare, specificando che si
tratta di una ricostruzione possibile, una versione diversa dei fatti.
Un lavoro di ricostruzione encomiabile per coerenza, plausibilità e impegno. Un docu-film imperdibile per tutti i fan di Pantani, anche se si basa principalmente per scelta sugli “omicidi”, sui momenti più dolorosi della vita dell’atleta, al posto che soffermarsi sui molti momenti sportivi e umani più felici. Sogno un film sul tour de France, sul confronto tra Armstrong e il pirata, tappa dopo tappa, dove si senta fatica e velocità. Ma è giusto raccontare anche questi duri momenti della vita di Pantani, perché si faccia luce su quei fatti e stimolare chi di dovere a intervenire. Anche se alla fine si esce di sala un po’ con il magone.
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