Siamo a Newark, New Jersey, in una notte
di autunno dei giorni nostri, in un ospedale del centro. La psicoterapeuta Rose
(Sosie Bacon, figlia di Kevin Bacon) a causa di uno sfortunatissimo cambio
turni con il collega Joel (Kyle Gallner), che collabora abitualmente con le
forze dell’ordine per i crimini violenti, si trova davanti alla giovane
Laura (Caitlin Stasey). La ragazza, reduce da quello che sembra un forte shock
post traumatico e al momento in preda ad allucinazioni, decide di suicidarsi
davanti a lei, aprendosi il mento con i cocci di una tazza da the. Lo fa
guardando Rose negli occhi, sorridendole sinistramente. La terapeuta da quel
momento cade anch’essa in un vortice di angoscia, vuoti di memoria e
allucinazioni, iniziando a sentirsi costantemente perseguitata dallo stesso
“mostro che sorride” che diceva di vedere Laura. Scoprendo infine di essere
anche lei vittima di una vera e propria maledizione, la cui origine è
sconosciuta ma risalente molto indietro nel tempo, Rose decide per sopravvivere
di affrontare il “mostro sorridente” quanto i suoi personali demoni, superando
in questa lotta tutti i confini tra mondo razionale e interiore.
Prendete una atmosfera alla The Ring USA
version by Gore Verbinski, innaffiate con un high-concept visivo semplice e
diretto (possibilmente a basso costo) sullo stile Obbligo o Verità di
Blumhouse o It follows di Mitchell, aggiungete gustose suggestioni
psicoanalitiche da Nightmare 3: i guerrieri del sogno e condite il tutto con
infamissimi “bubu-settete” sonori e visivi direttamente da Le verità nascoste di
Zemeckis. Potrebbe uscire un brutto mostro di Frankenstein e invece, se saprete
prenderlo bene, il film scritto e diretto da Parker Finn è una piccola mina. Un
piccolo horror certamente e dichiaratamente derivativo, ma in grado di
cavalcare con gusto le sue già ben codificate influenze narrative, regalare
qualche sano e tremendo brivido “a sorpresa” e magari aprire la strada a un
possibilissimo franchise “box Office piacendo”. Parker Finn, regista e
sceneggiatore alla sua opera prima cinematografica dopo un paio di illuminati
corti horror, sceglie di affidarsi a un mostro che vive nella mente delle sue
vittime e grazie a questo, lavorando tra piano reale e suggestioni come il buon
Freddy Krueger insegna, costruisce una pellicola in cui per fare paura “vale
tutto”, perché lo spavento può nascere in ogni circostanza e momento. Parker
Finn è consapevole di questo stato di “onnipotenza creativa” e decide
gioiosamente di scatenare contro gli spettatori tutto l’arsenale narrativo,
visivo e sonoro di cui il cinema horror enciclopedicamente dispone da sempre.
Finn applica lo “spavento leggero”, quello da “bu bu settete” delle casa delle
streghe del luna Park e di molti slasher: le porte che sbattono
all’improvviso, una presenza inquietante che appare per un istante al buio in
un veloce cambio di inquadratura e poi riappare dietro alla protagonista, vari
rumori disturbanti che ci stordiscono nel silenzio come il miagolio improvviso
di un gatto, una macchina che frena o il suono di un clacson. Lo spavento
leggero è quello che “dopo essere stato subito” fa più ridere e al contempo
incazzare il pubblico, che in qualche modo si sente “truffato
emotivamente”.
L’horror è poi anche una faccenda di
carne, per lo più recisa o disarticolata in forme raccapricciati a ricordaci
della fragilità e caducità umana. Finn di certo non manca di scontentare gli
amanti dell’horror più “fisico ed estetico”, riempiendo appena può la pellicola
di truculenti scene splatter, cadaveri trovati in condizioni orribili (che ricordano da vicino il lavoro fatto da Rick Baker per The Ring), mostruosità oniriche
mutanti e deformazioni diaboliche assortite, in un gioioso crescendo
“emoglobinico e artistico” da incubo, che ci porta sul finale quasi dalle parti
“più dantesche” dove finiva lo spagnolo Rec.
Come ciliegina sulla torta, non ancora
contento di spaventarelli e angoscia, sangue e mostri, Finn sceglie di
mettere in campo fin dall’inizio la cosiddetta “liturgia della paura”:
quella magnificamente descritta da David Lynch nella scena della tavola calda
di Mulholland Drive, presente nei dialoghi tra madre e figlio in Nightmare il
nuovo incubo di Craven e presente come struttura interna in molti horror
orientali. Prima delle forza delle immagini truculente in Smile è quindi la
pura narrazione a farsi strada nello spettatore, nel senso della suggestione
scaturita dai “racconti di paura intorno al fuoco” (omaggiati nel cinema
recente da Scary Story to tell in the dark di André Overdal). Secondo la
liturgia ogni storia dell’orrore che inizia deve giungere alla fine secondo un preciso
schema a tappe, già note e conosciute, che inesorabilmente dovranno ripetersi
dalla prima all’ultima in una sorta di infinto e immutabile destino. L’orrore
diventa così attesa di tappe inevitabili, scandite dal linguaggio del cinema di
Finn con precisi codici visivi e sonori, dal quale non è possibile
sfuggire: l’arrivo a una “nuova tappa” viene sottolineato con una precisa
distorsione audio, simile al rumore di una stazione radio fuori sincrono, dopo
la quale da spettatori sappiano sempre che accadrà qualcosa di spaventoso.
Finiamo per spaventarci quasi ”pavlovianamente”. Finn inoltre per tutta la
visione alimenta la mitologia dietro al “mostro che ride”, in un continuo
racconto del terrore che si carica di testimonianze, scritti, pitture che
ce lo fanno percepire come qualcosa di eterno, ineluttabile come Thanos.
Parker Finn ha studiato bene l’horror e
il suo Smile e si è messo nella condizione ideale per creare un esaustivo
saggio sulle conoscenze tecniche e stilistiche da lui apprese sul tema. Chi ama
l’horror a 360 gradi si divertirà un mondo nell’assistere e decodificare questa
pioggia incessante di trucchetti visivi, rumori improvvisi, splatter e
suggestioni varie atte a spaventare, trovando inoltre (e non è mai
scontato!!!) in Sosie Bacon una meravigliosa interprete, in grado di esprimere
al meglio e con credibilità il continuo turbinio degli stati emotivi in cui
cade il suo personaggio. Rose è affascinante ma dimessa, gentile ma
spaventata, si tiene sempre con un timoroso “passo indietro” da una realtà che
sa di non poter gestire ma che nonostante tutto dovrà affrontare, trovando una
forza interiore che non crede di possedere. Ricorda nello spirito il
personaggio della bravissima Lily Taylor nel sottovalutato e un po’ bistrattato
Haunting di Jan de Bont. Forse anche tutto questo Smile però ricorda un po’,
proprio per similari aspetti legati alla messa in scena, all’apparato
psicologico e al linguaggio scelto per spaventare, il sottovalutato Haunting.
Sono opere che pescano entrambe a piene mani tra le molte anime del genere
horror, tra il luna Park dell’horror e l’angoscia esistenziale, scegliendo “di
non scegliere” di seguire uno specifico filone. Ed eccoci dunque alla domanda
che può mettere in luce il più grande, possibile, limite della comunque gustosa
e ben confezionata opere di Parker Finn: cosa cercate voi, da spettatori, in un
film horror? Siete disposti a farvi spaventare da tutto questo arsenale visivo,
sonoro e narrativo “insieme”? C’è chi ha odiato Le verità nascoste di Zemeckis
(ma anche i Final Destination) perché c’erano troppi “spaventarelli”, da porte
che si aprono di botto e gattini che strillano, che “avrebbero ridotto il
fascino” del “vero horror” alla base del film. C’è chi non ha apprezzato
Hereditary di Aster perché era troppo angoscioso e non si rideva mai, come
anche in Rosemay’s Baby di Polanski, perché mancavano gli spaventarelli.
C’è chi ha voluto bocciare Rec di Plaza e Balaguerò, o pure Haunting, perché
il momento finale “non è compatibile con l’atmosfera generale del film” (secondo loro) e “non mi piacciono gli effetti speciali”. Si possono mettere
insieme in Smile tanti elementi narrativi diversi, senza scontentare
nessuno? Quali sono i vostri “gusti” in merito alla paura e dove invece la paura
cinematografica vi fa “reagire male” alla visione? È possibile poi, in qualche
caso, che qualcuno esca scontento dalla visione di un film horror (pur bello),
e si aggrappi di conseguenza a qualsiasi cosa per criticarlo ferocemente,
magari proprio perché il film horror è riuscito a spaventarlo per davvero (e
quindi fosse una sorta di lesione d’onore)? Qualunque sia la vostra risposta,
da amante in modo olistico di tutte le espressioni cinematografiche della
paura, dalle montagne russe emotive degli slasher ai corridoi silenziosi e tutti
uguali dell’Overlook Hotel, passando per le creature che si insidiano per
rancore nel buio del mondo interiore dei J-horror, vi invito ad abbandonarvi
alle mille facce della paura di Smile, sfoggiando anche voi un bel sorriso.
Qualcosa nel film di Parker Finn vi farà sicuramente incazzare, qualcosa vi
farà tremare di brutto, qualcosa vi lascerà magari indifferenti ma siete in un
all you can eat e alla fine qualcosa che vi sarà davvero piaciuto in questa
pellicola lo troverete e magari attenderete un bis. La formula c’è, il mostro
c’è, le premesse per raccontare almeno un’altra storia che possa effettivamente
arricchire l’immaginario di Smile senza battere le stesse strade ci sono. Certo
non è facile “abbandonarsi alla paura”, soprattutto quando si è sotto un attacco
incrociato che procede spedito su più fronti. Non è facile per qualcuno
guardare all’horror senza poterlo vedere come quella prova di forza iniziatica
di “dimostrazione di coraggio” per vivere la vita adulta. Non è facile per
qualcuno guardare all’horror senza aspettarsi per forza di trovarci una
finestra sul proprio mondo metafisico e interiore e certo non è per qualcuno
facile accettare di essere stati “spaventati a tradimento” da un gatto che
miagola. Smile ci interroga sui nostri limiti nell’affrontare la paura nella
finzione cinematografica e in questo è provocatorio non meno di Midsommar di
Ari Aster.
A sorpresa, operando un approccio
olistico al genere “della paura” e senza nascondere i molti omaggi al genere
che l’opera prima di Parker Finn sceglie di compiere, Smile è una pellicola
divertente, carica di suspence e suggestioni interessanti, molto ben recitata e
confezionata, che un fan dell’horror non dovrebbe lasciarsi scappare. Un buon
motivo per andare al cinema se si è giovani, magari portandoci la ragazza e
tenendosi per mano nelle scene che fanno più paura… in pratica per tutto il
film. Un bel modo per uscire dalla sala con il sorriso stampato dopo un
horror.
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