Raffaele
Minichiello, nato a Melito Irpino nel 1949, dopo il terremoto del 1962 che gli ha distrutto la casa è andato a
vivere in America con la sua famiglia, a Seattle. Dopo un primo momento di
difficile integrazione, Raffaele decide di servire in prima persona il suo
nuovo Paese e a 17 anni e mezzo, con il
consenso firmato dai genitori, entra prima a far parte del corpo dei Marines e
subito dopo viene spedito come militare scelto in Vietnam.
È
un ragazzo di buon cuore ed è molto amato e apprezzato dai suoi commilitoni,
anche per l’alta preparazione tattica e militare. È il soldato modello con cui
scendere in campo, sicuri che ti coprirà le spalle e riporterà tutti a casa.
Sul suo elmetto non è scritto il nome della fidanzata, ma una frase c’è che è autentica sfida al nemico: “Kill me
if you can”.
Ma
gli orrori della guerra in breve tempo lo cambiano profondamente e in solo
pochi mesi. Dopo aver sviluppato una sempre più forte “indifferenza” davanti
alla morte ed essere diventato inconsapevolmente un assassino spietato che
affronta ogni missione a testa bassa, Raffaele si trova un giorno, incredulo,
a costruire delle sculture con le ossa dei cadaveri. Qui inizia ad avere una
crisi di coscienza su quello che sta facendo. A 19 anni ritorna in America con
la medaglia al valore militare di Saigon, ma non c’è per lui una accoglienza da
eroe. L’America è in larga parte contraria al Vietnam e per una curiosa forma
di ipocrisia ha sviluppato odio anche nei confronti dei soldati,
che sono le principali vittime americane del conflitto. Raffaele torna dopo
essersi reso conto di essere diventato un “mostro” e si sente abbandonato dalla
gente e in qualche modo anche “truffato” dall’esercito, quando lo Stato decide
di non pagarlo interamente per i suoi due anni passati a combattere. Compie una
bravata per cercare di riavere la parte mancante e in qualche modo
“vendicarsi”. Forza una porta di notte per rubare i soldi dalla cassa dello
spaccio militare, ma ubriaco si addormenta lì fino al giorno dopo, quando viene
trovato. Dopo dieci giorni di cella, con un caos indescrivibile nella testa, si
arma e decide di dirottare un aereo per tornare in Italia. È un evento che fa
il giro di tutti i notiziari del mondo, che subito si interrogano sulla
stranezza del gesto e sui modi perentori ma inconsuetamente “gentili” del
dirottatore. Il dirottamento dopo molte fasi di tensione riesce, facendo entrare Raffaele nella storia e portandolo dopo pochi anni di prigione a una
nuova fase della sua vita. Una fase in cui per la sua avvenenza e per l’animo
gentile diventa quasi una star del cinema, poi un particolarissimo barista e
poi benzinaio i cui clienti principali sono ambasciate straniere presenti a
Roma. In parallelo dando voce a una passione nata sotto le armi diventa un esperto
e istruttore di elicotteri, poi a seguito di un forte lutto vive una fase
spirituale che lo vede diventare un uomo di fede. Una persona molto amata che
per le cronache si sarebbe trovata spesso al centro, se non “a pochi metri di
distanza”, di alcuni dei più importanti fatti politici e di costume della
storia italiana romana degli anni '70 e '80.
Una vita troppo grande e curiosa per non essere raccontata, che ha
ispirato libri, film e ora un documentario diretto da Alex Infascelli in cui
Minichiello racconta i fatti di persona, con la sua voce e il suo volto non
troppo scalfito dal passare degli anni, insieme alle numerose testimonianze
delle persone che lo hanno conosciuto.
Alex
Infascelli esordisce al cinema come autore di thriller molto riusciti tra cui
Almost Blue (1994) e Il siero della Vanità (2004). Sviluppa serie tv
intriganti come Donne Assassine (2008) e Nel nome del male (2009), ma
conta anche una lunghissima e sfaccettata carriera da musicista, autore tv e regista di videoclip che prosegue con
successo dal 1993. Di recente è anche scrittore. Gradualmente, si è innamorato del genere documentario. È
una passione che lui stesso racconta cresciuta nel tempo dall’esperienza
televisiva per MTV, durante la conduzione di Brand:New nel 2006. In quel
periodo ha potuto incontrare e parlare con delle persone straordinarie quanto
uniche, con alle spalle delle vite anche più incredibili di quelle che si
potrebbe avere la fantasia di scrivere per un film. Vite che era interessante
raccontare anche attingendo alle fonti ufficiali, attraverso la ricerca di
materiali di archivio e l’ausilio di giornalisti e investigatori privati (per
poter ritrovare magari delle persone del passato di cui non si ha notizia da
molto tempo), in una costruzione narrativa spesso unica e eccitante, in
quanto figlia delle sfaccettature sempre uniche che gli potevano offrire i
materiali ritrovati. Come frutto di
questa esperienza è nato nel 2015 lo strepitoso S is for Stanley - Trent’anni
dietro al volante per Stanley Kubrick, sulla vita dell’autista personale del
grande regista, Emilio
D’Alessandro: una pellicola che vinse il
David di Donatello nel 2016 come migliore documentario. Infascelli rilanciò nel 2021 con Mi chiamo Francesco, sulla vita del calciatore Francesco Totti e
rilancia oggi con questo Kill me if you can, sulla vita di Raffaele
Minichiello, seguendo sempre lo stesso stile meticoloso quanto “dinamico” di
presentare i fatti. Fatti in questo caso in parte elaborati da quanto
raccontato nel libro Il Marine - storia di Raffaele Minichiello di Pierluigi
Vercesi, ma poi arricchiti dalla incredibile mole di documenti e video relativi
al dirottamento recuperato dalle Università americane, dal materiale
riguardante una “vita romana” molto descritta in rotocalchi e interviste
d’epoca (molte dall’Archivio Rai) e da numerose nuove interviste. Infascelli
ha ricercato i reduci del Vietnam commilitoni di Minichiello, le hostess e
piloti del volo dirottato, ha parlato con giornalisti che hanno scritto
articoli e libri sui di lui, ha trovato molti contatti con amici e parenti del
protagonista. Un meticoloso lavoro che su schermo offre di Minichiello un “quadro
umano” estremamente variegato, con una vita che ogni tanto viene descritta come
il film Rambo, ogni tanto assume toni simili a un capitolo della serie Airport,
ogni tanto diventa una fellinala La Dolce Vita e in alcuni casi ha pure il
sapore di un poliziottesco anni ‘70. A ogni passaggio Infascelli cerca di
mutare anche il linguaggio visivo e narrativo, adattandosi ai colori e stati
d’animo di ogni epoca, spostandosi fluidamente dai toni del dramma all’action,
dai toni del film più “politico” al registro romantico. Minichiello ci viene
descritto come ragazzo, uomo, soldato, imprenditore di se stesso, marito e padre,
cercando di farci decifrare un volto che quando è in primo piano nel racconto
rimane sempre composto, enigmatico e forse timido. Al termine della visione le
domande su questo strano Marine irpino quasi si moltiplicano, nella sensazione
che ci sia ancora moltissimo da raccontare sulla vita di questa persona.
Domande che magari saranno approfondite da altre opere future, considerando
anche la mole di materiale che Infascelli ha raccolto e non utilizzato per
questioni di sintesi. Potrebbe essere anche una serie tv.
Kill me if you can è un documentario che descrive una sorprendente storia umana “bigger than life”, in grado di sorprendere e commuovere grazie alla grande cura con cui è realizzata in ogni sua parte. Attraverso un montaggio veloce e una narrazione molto ricca e cinematografica, i novanta minuti della pellicola scorrono in modo davvero piacevole, incuriosendo e sollecitando lo spettatore a saperne di più sul mondo con cui Minichiello è entrato in contatto. Una pellicola fatta con passione che conferma il talento di Infascelli nel raccontare attraverso il cinema la vita di persone con esperienze fuori dal comune.
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