“C’era
una volta” Massimo Troisi. Era nato da un ferroviere e una casalinga, a San
Giorgio a Cremano, provincia di Napoli, dove oggi c’è una piazza, una statua e un museo a lui dedicati.
Era
un ragazzo riccioluto e un po’ segaligno, con uno sguardo profondo e
malinconico, con un sorriso triste un po’ tirato sul lato, con le dita della
mano che giocherellavano ogni tanto lungo il sopracciglio. Un ragazzo a cui era
facilissimo volere bene e difficile volere male, dalla salute cagionevole,
timidissimo ma pieno di domande sul mondo, poco interessato al calcio e alla
mondanità ma molto attento al mondo femminile meno esteriore, alla gentilezza e
alla poesia. Da giovanissimo vinse un premio di poesia ispirato a Pasolini. A
quattordici anni, mentre studiava all’istituto per geometri, iniziò con un
piccolo gruppo di amici a salire sul palco del teatro parrocchiale della Chiesa
di Sant’Anna, scrivendo e interpretando tra le molte cose anche una sua
versione moderna di Pulcinella, un personaggio che vedeva sempre “stanco e
spompo”. Quando fu “censurato” per dei temi ritenuti non troppo adatti alla
realtà parrocchiale, continuò a esibirsi al Centro Teatro Spazio, un piccolo
“teatro Off” come direbbero gli americani. Il crescente successo, unito alla
bravura del gruppo di attori con cui si esibiva, prima il quartetto de I
Saraceni e poi il trio de La Smorfia,
gli offrì la possibilità di andare in tv e poi al cinema. Ebbe in queste sedi ulteriore successo perché
con il suo linguaggio espressivo lento, pensoso e tortuoso riusciva a
sovvertire tutte le “regole di dinamicità e immediatezza”, richieste e
ricercate dalla comicità soprattutto negli imminenti anni ‘80. Era in
controtendenza. Parlando di continuo e al contempo analizzando i dettagli, con
ironia, autoironia e molta malinconia, Troisi aveva deciso di vestire sulla scena (in tv come al cinema), con
passione quasi psicanalitica, la personale maschera che lui definiva dello “scontroso fino all’eccesso”. Un ragazzo degli anni ‘80, appartenente alla
nuova classe piccolo borghese, che avrebbe in seguito trovato delle felici
assonanze, mai prima esplorate, con il mondo contadino toscano espresso dalla
comicità di Benigni. Con timidezza e divertente vis polemica, ma anche con una
garbata richiesta di affetto, Troisi mostrava al mondo lo sguardo inedito,
sveglio, ironico e disincantato di una nuova generazione di attori. Quando nel
1981, con Napoli ancora scossa dal terribile terremoto del 1980, Troisi
arrivava al cinema con la sua prima pellicola, Ricomincio da tre, il film non
solo fu accolto da un grande successo, ma riuscì a dare una voce fresca e forte
a quel pubblico giovane che non si era ancora sentito rappresentato al cinema. Ricomincio da tre divenne un cult oggi ancora
attuale, che sarebbe stato citato battuta per battuta da tutte le nuove
generazioni che da allora se ne imbattono e se ne innamorano. Merito del punto
di vista “dolcemente scontroso” di Massimo, ma anche della sua co-autrice, Anna
Pavignano, che avrebbe seguito artisticamente l’attore per tutta la vita, facendolo dialogare nei suoi film con donne
moderne, spesso forti ed emancipate, cresciute culturalmente nell’epoca dei movimenti femministi e
interessate alla psicanalisi e alla crescita interiore. Un universo femminile
verso il quale Troisi è sempre stato affascinato. Donne come Anna Pavignano ma
ancora prima come Valeria Pezza, che quando faceva parte con Massimo del gruppo
I Saraceni gli aveva fatto vivere esperienze di “vita comune” vicine alla
sensibilità dei movimenti hippy, mettendolo a contatto nella sua abitazione con
un viavai di filosofi, musicisti ed esperti di arti orientali. Influenze e
ragionamenti che tornano con Anna, che oltre che collaboratrice è stata amica,
per qualche anno compagna di vita, musa e per sempre “compagna artistica” del
comico.
Martone
attinge molto in questo documentario dalle mille informazioni e documenti che
gli offre proprio Anna Pavignano. Una vecchia registrazione su audiocassetta in
cui Massimo si racconta a lei come a una seduta dallo psicologo. I diari su cui
Massimo annotava ogni cosa, comprese le poco felici parentesi di vita in cui
era costretto a subire degli interventi cardiaci. La raccolta di idee e frasi
che l’attore scriveva su pezzetti di carta e poi raccoglieva meticolosamente in
una scatola, che sono spesso diventati parte dei suoi film, ma sono oggi ancora
in parte inediti. Frammenti che forse hanno ispirato Martone nell’elaborare
un’interessante lettura unitaria di tutti i lavori del comico napoletano,
svelata fin dalle prime scene di questo documentario.
Massimo
Troisi secondo il regista Mario Martone è stato quasi un “Antonie Doinel
italiano”. Antoine Doinel era il personaggio scelto da Francois Truffaut come filo conduttore di tutte le sue opere
cinematografiche, interpretato fin da bambino, ne I 400 colpi, dall’attore
Jean-Pierre Leaud. In ogni film Antoine è lo stesso personaggio che cresce,
prende posizioni, evolve, si innamora e invecchia. Un po’ come Troisi, che dal suo primo film all’ultimo
si racconta, descrivendosi negli anni in una personalissima parabola artistica
ma anche umana, esistenziale quanto satirica, sincera quanto profonda. Martone cerca di indagare come il legame tra
Truffaut e Troisi arrivi a essere anche squisitamente tecnico. Il regista
evidenzia, attraverso la comparazione incrociata di alcune pellicole di
entrambi gli autori, dei momenti in cui si fa largo quasi un “comune sentire”:
una similare cura della rappresentazione dei sentimenti e una vicina scelta di dettagli nella costruzione
della scena. Tra questi, i molti momenti in cui il personaggio di Troisi/
Doinel si confronta con la sua stessa immagine davanti allo specchio, avviando
un dialogo nel quale fatica a “riconoscersi”. I momenti di silenzio e
malinconia nelle notti insonni. La stessa pungente ironia nel leggere il mondo.
Un’ironia caustica che nel 1982 spinge Troisi a creare per la tv dopo il
successo del primo film un documentario sulla sua morte, Morto Troisi, viva
Troisi!, quasi per farsi beffe del suo cagionevole stato di salute, “archiviando
in anticipo la pratica”. Un “gioco” che porterà avanti anche nel film Non ci
resta che piangere, dove il suo personaggio, finito nel medioevo, veniva
redarguito per strada (forse, in quanto percepito come troppo spavaldo o
superbo, per via di un abbigliamento un po’ eccentrico) con la frase “ricordati
che devi morire!”. Frase cui il personaggio di Massimo rispondeva con un
tranquillo “Sì, sì, ora me lo segno”. Nel documentario trova spazio l’amore
travagliato che Troisi negli anni manifesta per la città di Napoli, la sua
passione inespressa per la politica, il suo amore della poesia come strumento
di sintesi per comunicare al meglio dei concetti per i quali lui si spendeva in
troppi giri di parole. Ci sono filmati d’epoca in cui è assieme a Pino Daniele
e Maradona, c’è l’intervento di Sorrentino che analizza un particolare stacco
di regia che ha provato a copiare a Massimo. Numerose interviste nuove e d'epoca
anche a Lello Arena, Scola, Valeria Pezza, Ficarra e Picone e tanti altri.
L’opera di Martone ci parla di quasi tutto il cinema di Troisi in una
retrospettiva ricca di tante piccole perle di repertorio, aneddoti e
interviste, riflessioni sulla vita, le donne, la politica, la poesia. Lascio a
voi scoprire questa “scatola dei tesori” che ci fa sentire l’attore ancora
tanto presente, attuale quanto necessario per il nostro cinema e la nostra
cultura, per poi darci la voglia di riguardare tutti i suoi film. C’è spazio
anche per commuoversi, ma “fuori dalla scena”, nel modo garbato in cui Troisi
era solito raccontare i momenti “troppo melodrammatici”.
Quaggiù qualcuno mi ama è un’opera piena di cura e amore che omaggia al meglio il cinema di Massimo Troisi. Un’occasione per scoprire o riscoprire uno degli autori più importanti degli ultimi quarant’anni attraverso moltissimi materiali inediti e la partecipazione di tanti personaggi del mondo dello spettacolo.
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