venerdì 10 febbraio 2023

I nostri ieri: la nostra recensione del film di Andrea Papini in cui il cinema diventa uno strumento per smuovere la coscienza e sognare la giustizia riparativa

 


Italia dei giorni nostri. In un carcere moderno dove i detenuti possono svolgere molti lavori e attività anche all’aperto, Luca (Peppino Mazzotta), un giovante regista, viene incaricato dalla direzione di gestire un laboratorio sul cinema. Il primo giorno il programma ha per tema la visione di una sua pellicola, in cui un ragazzino che vive in un collegio negli anni ‘70 scopre che una suora conduce una relazione clandestina con l’uomo che si occupa della consegna della frutta. Il ragazzino racconta l’accaduto ai dirigenti e la suora è così costretta ad abbandonare in lacrime l’istituto, mentre lui la guarda con un forte senso di colpa. Luca a fine proiezione domanda alla platea i pensieri suscitati dalla visione della pellicola, con il dibattito che da subito inizia a ruotare sul “ruolo di spia” del ragazzino o “il non rispetto del voto di castità” per la donna, ma in realtà Luca vuole altro da loro. Vuole che si soffermino su una particolare tecnica di ripresa che ha usato: il green screen. Grazie al Green screen, che si realizza proiettando delle immagini su delle pareti dipinte di verde, Luca ha potuto inserire sulla scena degli alberi che non si trovavano nel contesto delle riprese. Partendo da questa suggestione, il regista partirà con il dipingere delle “pareti verdi” anche nel carcere, per poi rendere i detenuti realizzatori e protagonisti di piccoli film, le cui storie saranno ambientate al di fuori del carcere, oltre le mura, grazie alla magia del cinema. Con queste storie i detenuti potranno magari raccontare loro esperienze personali o esprimere al meglio il loro talento artistico, “evadendo” in qualche modo dalla loro condizione attuale. C’è già nel gruppo un detenuto (Marta Pizzigallo) che ha un grande talento per il disegno, in grado di realizzare a mano delle animazioni in sequenza che potrebbero diventare dei bellissimi titoli di testa. C’è chi ha esperienze di meccanica e potrebbe costruire dei set, c’è chi può occuparsi del trucco, chi può improvvisarsi attrezzista. Ma quando si chiede loro di raccontare la propria storia per costruire una trama, magari che racconti il motivi per cui si trovano lì, nessuno vuole parlare della questione e liquidano tutti con la frase: ”tutte le carte le hanno gli avvocati e il giudice, non dico altro”. Dapprima poco convinto del progetto, il taciturno camionista Beppe (Francesco Di Leva) prova comunque a farsi coinvolgere sul piano narrativo, anche perché in merito alla realizzazione della sua storia ha dei desideri specifici che vorrebbe che il regista realizzasse. Il primo e più importante è che Luca provi ad andare a casa di Beppe, per filmare la sua famiglia che non vede da molto tempo, così da avere loro notizie. Mentre è all’esterno per le riprese, il regista incontra su una spiaggia una giovane ragazza di nome  Lara (Daphne Scoccia), che porta un mazzo di fiori su una collinetta isolata. Tra i due nasce subito una buona intesa grazie alla comune passione per le riprese, che in poco tempo  diventa amicizia. Lei ha un impegno precario presso una panetteria e Luca le chiede se vuole per arrotondare collaborare al film che sta realizzando, che prevede anche l’uso di alcuni droni per i quali lui è poco pratico. Lara è incuriosita e accetta, ma le cose iniziano a farsi presto strane: è come se Luca la portasse “casualmente” a girare sui luoghi dello strano incidente in seguito al quale sua sorella è morta, con le indagini che sono arrivate a condannare un camionista. Il regista infine svela a Lara che il suo lavoro per i detenuti ha a che fare anche con la storia di sua sorella. Le chiede se se la sente di partecipare almeno alla proiezione della pellicola, una volta che sarà terminata, magari per poter in seguito  incontrare anche Beppe. Lara è molto confusa in merito a quella richiesta e non è sicura di voler partecipare, ma non dice di no, vuole  rifletterci. Da quando la sorella è morta ha vissuto situazioni difficili a livello emotivo che ancora la tormentano. Nel frattempo mentre tutti i detenuti sono chiamati a improvvisarsi sarti, animatori, esperti del suono, cameraman e scenografi, Beppe dovrà anche recitare da protagonista, avendo come partner di scena una attrice professionista. Replicare e rivivere  il momento in cui ha perso la testa e ha commesso il crimine per cui la sua vita è cambiata,  è per lui una sfida molto forte. Il suo voler affrontare con tutta la più sincera onestà, senza omettere i dettagli per lui più scomodi, lo espone a un forte stress emotivo che quasi mette a rischio tutta la produzione del film. Ma Luca decide di incoraggiarlo, perché sa di stare costruendo qualcosa di magari controverso ma che potrebbe essere importante e utile tanto per Beppe quanto per Lara. Per  tutto il periodo di questo lavoro “fuori dagli schemi” il regista ha trascorso poco tempo con la figlia Greta (Denise Tantucci), che potrebbe non vedere per molto tempo a causa di un corso di studi in America che sta per intraprendere. Riusciranno Beppe e Lara a fare i conti con il loro passato in modo proficuo, arrivando magari a parlarsi, forse perdonarsi e così “andare avanti”? Riuscirà Luca a non “perdersi troppo” nel suo lavoro, preservando la relazione con sua figlia Greta in un momento difficile, magari rinunciando di sognare attraverso il cinema a una relazione “impossibile” tra Beppe e Lara?


Il film affronta in un modo molto originale e interessante delle meccaniche relazionali vicine a una tematica sociale che sta molto cara a noi su questo blog, la cosiddetta “Giustizia riparativa”. Attraverso la giustizia riparativa  una persona che ha commesso un reato, scontata la sua pena, può reinserirsi nel tessuto sociale a seguito di un processo guidato di ascolto, riparazione del danno e perdono nei confronti della vittima.  L’esempio storico più importante della messa in pratica di questi principio è del 1995, attraverso la The Truth and Reconciliation Commission, voluta per il sud Africa da Nelson Mandela, allo scopo di creare una nuova società secondo le regole della non violenza. In quel caso le vittime erano spesso madri di un figlio ucciso per questioni legate all’apartheid , mentre i “carnefici” erano spesso dei militari che eseguivano degli ordini sulla base delle pre-vigenti leggi razziali. Vittime e carnefici venivano chiamati a confrontarsi e spiegarsi anche in diretta tv, per ricevere pubblicamente scuse e chiedersi perdono reciproco. Non era questo incontro un atto subito risolutivo, ma l’avvio di un possibile percorso di conoscenza e perdono che avrebbe giovato a entrambi. Più in piccolo e ancora in via molto sperimentale, si stanno sviluppando anche in Italia dei meccanismi per la gestione di una mediazione tra “un reo” e una vittima. È una strada lunga, tortuosa e sperimentale nella quale le scienze sociale investono molto,  ma che sembra accogliere dei primi risultati favorevoli anche grazie alle riflessioni che nascondo  proprio in percorsi come i laboratori didattici di recitazione proposti nelle carceri. Nelle carceri si avviano sempre più laboratori sul teatro (nelle sale c’è anche Grazie Ragazzi di Marco Milano, che parla di carcere e teatro)  e sul cinema,  proprio per stimolare la creatività e la socialità, ma anche con l’intento “terapico” di far uscire alcuni detenuti dal “perenne ruolo del colpevole” in cui spesso si auto-confinano, aiutandoli a immaginarsi, attraverso l’arte della recitazione, come persone diverse da quelle che un giorno sono arrivate a delinquere. Il fine non è la negazione o reinterpretazione del reato, quanto la considerazione che ci sia stato nella vita della vittima come in quella dei carnefice “ un prima e un dopo”. Uno “ieri”, un presente difficile e forse “un domani”. Andrea Papini fin dalle prime battute ci invita attraverso il personaggio di Luca a guardare Lara e Beppe al di là della storia di sangue che li lega, andando “oltre i confini degli status di vittima e carnefice”, grazie alla magia del cinema. Certo è un processo che può sembrare un azzardo, perché si basa sul dare fiducia (in primis a se stessi)e provare empatia con persone  con cui vi sono stati dei gravi trascorsi. Ma è un azzardo che qualcuno nella realtà potrebbe accettare, come fanno in questo film i personaggi di Beppe e Lara, interpretati con molta umanità e trasposto dai bravi Francesco di Leva (Visto anche come protagonista di recente nell’ottimo Il sindaco del rione sanità, versione cinematografia di Mario Martone di un classico di De Filippo) e Daphne Scoccia. Erano ruoli non facili e che vengono sviluppati in modo non banale e molto sfaccettato dai due protagonisti, esprimendo al meglio anche le  criticità e limiti emotivi della costruzione di un qualsiasi rapporto tra reo e vittima, che nel film riescono sempre a trovare voce . Il taglio narrativo scelto da Andrea Papini ha una struttura esteticamente quasi documentaristica, che riesce in pieno a descrivere una realtà che non vuole essere una specie di favola. Molto bravi anche gli altri attori, tra cui si segnala una bravissima Marta Pizzigallo. Interessati anche le scelte di montaggio, che strutturano una realtà in continua ricostruzione e analisi degli accadimenti, dando ai personaggi la possibilità di raccontarsi per gradi emotivamente via via più intensi e profondi. 


Certo rimane, purtroppo considerando la situazione Italiana delle carceri, la storia di un percorso che per molti contesti può sembrare  “di fantasia” anche solo per questioni burocratiche. Qualcosa che richiederebbe grandi sforzi sul piano delle strutture, dei fondi, degli operatori interni, della collaborazione con il territorio e della condotta dei detenuti. Ma sognare non è per forza una cosa brutta e i film servono anche a questo: a immaginare futuri migliori. I nostri ieri è quindi una pellicola ben recitata, che scorre senza intoppi  e  con un interessatissimo valore didattico intrinseco, specie se rivolta a un pubblico che intende formarsi nel campo degli operatori giuridici e sociali. Ma è una storia che per umanità e grazia della costruzione può risultare interessanti anche per un pubblico più generalista. 

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