America dei giorni nostri.
Il giovane e affascinante Julian (Bryce Gheisar) è irrimediabilmente un bullo.
Non contento di come sono andate male le cose nella vecchia scuola cittadina (eventi raccontati in Wonder nel 2017), il ragazzino sembra essere tornato a perseguitare gli studenti più deboli anche nel nuovo istituto, debitamente supportato da un nuovo piccolo branco. Anche se ora si trova in un collegio blasonato di New York in cui tutti indossano una uniforme, la musica non è cambiata.
Sembra essere più forte di lui il desiderio di schiacciare chi è diverso e in genere più debole: quasi una missione volta a costruire un mondo unicamente pieno di persone belle e felici.
Con i genitori che non riescono in nessun modo a intervenire efficacemente per modificare il carattere di Julian, una sera decide di occuparsene personalmente la nonna francese (Helen Mirren), la sua “grandmere” Sara, una famosa artista in visita in America per partecipare a un importante evento pubblico come ospite d’onore.
La nonna racconta a Julian di quando era piccola (l’attrice che la interpreta è Ariella Glaser) e viveva in Francia, dove frequentava anche lei, in una città meravigliosa circondata da un bosco come nelle favole, una scuola blasonata piena di studenti bellissimi in uniforme. Una scuola perfetta in un posto perfetto, rovinata solo dalla presenza di un ragazzino brutto e zoppo, figlio e saltuario aiutante del responsabile del locale sistema fognario. Per il suo modo di camminare claudicante e a scatti, per l’aria dimessa, la schiena sempre abbassata e per il fatto di essere il più povero e insignificante della scuola, il ragazzo veniva chiamato da tutti in un modo disumanizzante: “il granchio” (Orlando Schwerdt).
Il granchio non piaceva a nessuno e nessuno si fermava anche solo a guardarlo, come comportasse una sorta di maledizione. Gli unici che erano attivi nel tenerlo in considerazione, almeno per deriderlo e pestarlo, erano i bulletti locali, capitanati dal biondo e affascinante Vincent (Jem Matthews). Sara aveva una vera passione per Vincent, i cui lineamenti era quasi principeschi. Spesso amava ritrarlo a matita nel suo quaderno da disegno, insieme a mille schizzi sulla natura e gli animali che destavano sempre molta ammirazione tra studenti e professori.
Vincent amava vedere se stesso ritratto su quel quaderno e di conseguenza offriva svogliatamente qualche scampolo del suo tempo a Sara, che letteralmente pendeva da ogni suo cenno.
Le cose però cambiarono in fretta: quando in città arrivarono i nazisti e molti studenti, Vincent compreso, iniziarono a guardare Sara, i cui genitori erano ebrei, come se fosse una creatura non dissimile dal “granchio”. I ragazzini più bravi nel collaborare al “nuovi corso”, come Vincent, ebbero dai nazisti divise nuove e armi per aiutarli attivamente nella caccia agli ebrei, stanandoli casa per casa grazie alla conoscenza diretta di ogni casa e granaio. I ragazzini ebrei vennero per un po’ nascosti con i loro genitori dalla scuola e poi dai preti sulla torre, ma presto fu impossibile aiutarli senza subire conseguenze terribili. Le razzie non tardarono e le famiglie furono disperse.
Un giorno Sara si trovò del tutto sola.
I nazisti la avrebbero presto uccisa o portata su un camion in un luogo sconosciuto. Fu allora che il granchio portò Sara con sé tra i labirinti del sistema fognario e poi nel sottotetto riparato in un fienile isolato. Sara si nascondeva di giorno e la sera il granchio le portava cibo e i compiti della scuola, che comunque aveva continuato la sua attività didattica nonostante i banchi vuoti e i professori ebrei ora sostituiti da nuovi professori.
Passarono giorni e giorni. Mesi.
Sara diventava sempre più brava a disegnare, rispettava le regole di prudenza e aiutava il suo nuovo amico con i compiti.
Insieme la sera passavano molto tempo a giocare fantasticare sul futuro: sedendosi fianco a fianco su di un’auto mezza rotta e mezza coperta dal fieno, accendendo i fari e immaginando di essere al cinema. Un giorno il ragazzo portò nel granaio anche una pellicola comica e un piccolo proiettore. Ma le cose erano destinate a cambiare di nuovo: Vincent e i suoi amici, come i lupi famelici che si diceva da secoli abitassero tra i boschi intorno alla città, stavano per scoprire il granaio.
Marc Forster, regista di film drammatici come Monster’s Ball, film “biografici su autori di favole” come Finding Neverland e Christopher Robin, ma anche action come 007 Quantum of Solace e World War Z, incontra i racconti della scrittrice R. J.Palacio.
La Palacio scrive per un pubblico molto giovane, ama giocare con i meccanismi della favola per raccontare storie anche piuttosto drammatiche e attuali, riserva una particolarmente cura nella costruzione di personaggi che pagina dopo pagina si fanno sempre più sfaccettat e “umanamente imperfetti”.
Nella saga di Wonder più volte la Palacio con molto garbo cambia il punto di vista nella descrizione di una situazione specifica, facendoci percepire il racconto della prospettiva di un personaggio diverso e spesso in antitesi con l’iniziale protagonista.
Comprendiamo così come ognuno è in qualche misura “figlio” dei propri genitori quanto dell’ambiente in cui è vissuto, figlio delle sue frequentazioni e piccole ambizioni, figlio delle paure legate al suo inconscio: c’è sempre un piccolo mondo emotivo da decifrare con i pochi strumenti offerti dalla giovane età, dietro i piccoli eroi di Palacio.
Il tema della “diversità” è spesso al centro di tutte le opere legate a Wonder.
Palacio racconta che l’idea del primo libro le è venuta osservando la reazione di suo figlio al passaggio di una ragazzina con una deformità facciale: il bambino si è messo a piangere all’improvviso, senza nemmeno capire perché lo stesse facendo e forse ferendo involontariamente la persona che aveva davanti.
Wonder è diventata così un’opera che invitava ad andare oltre le apparenze, un’opera che potesse sollecitare tra i più piccoli il “muscolo” dell’empatia verso un personaggio esteticamente sfortunato come Auggie, ma che aiutasse al contempo a guardare in modo non banale le reazioni di chi lo circonda: il pubblico poteva riflettersi nel dolore ma anche nella cattiveria, nella superficialità come nella voglia sincera di conoscere chi ci è diverso. Questo invito a “mettersi nei panni” di persone diverse colpì molto i piccoli lettori della Palacio. Colpì al punto da chiedere loro stessi, tramite lettere e messaggi, che l’autrice scrivesse delle appendici di tutto il racconto con la prospettiva degli altri personaggi della storia: Julian, Charlotte e Christopher.
Non è un caso che dopo un libro dedicato a un bambino coma Auggie, con deformità facciali ma con una vita e un mondo interiore particolarmente ricchi e generosi, Palacio decise proprio di raccontare il punto di vista del suo “bullo personale”, Julian, andando a esplorare le aridità e contraddizioni, il “vuoto interiore” che possono nascondersi dietro il volto di un ragazzo esteriormente percepito come carino e a modo.
Non abbiamo avuto una trasposizione cinematografica di A Wonder Story: il libro di Julian, anche se nella pellicola di Stephen Chbosky ci sono dei passaggi che in qualche modo riportano a quel testo, ma arriva a noi oggi questo White Bird, che costituisce un tassello essenziale del “diventare adulto” e forse meno bullo di Julian.
White Bird ci dice che l’essere bulli è “genetico”, una triste circostanza legata all’essere umano. Tragicamente viviamo con la mente a “risparmio energetico”: dividiamo il mondo tra chi è simile a noi e chi percepiamo come diverso per etnia, politica, religione o fede calcistica. Chi è diverso è una minaccia anche solo perché mette in dubbio quelle tre certezze sul mondo che possediamo. La Palacio ci mostra una “bulla” le cui tre certezze sul mondo cambiano di colpo con l’arrivo del nazismo, trasformando lei stessa in bullizzata dall’oggi al domani, facendole subire un etichettamento repentino quanto crudele. Certo a monte c’è l’ideologia, la propaganda. C’è l’atteggiamento psicologico quasi bipolare di personaggi manipolati come Vincent, interpretato dal bravo Jem Matthews, che impugnano il fucile con un sorriso maligno ma con gli occhi che lacrimano. Sara vive per la prima volta nei panni di una persona odiata, ma forse per questo, oltre alla disperazione, riesce anche a sperimentare la solidarietà e la vicinanza di chi da sempre è considerato diverso.
Anche lo spettatore e in specie gli spettatori più piccoli, a cui l’opera è principalmente rivolta, sperimentano attraverso gli occhi di Sara questo spaesamento. Sono portarti a ragionare sulle dinamiche di branco dei giovani “soldati” quanto sulle strategie di attacco dei lupi che circondano e “proteggono” il piccolo mondo di Sara. Sono spinti a guardare al “granchio” sempre più in ragione delle qualità interiori, rispetto ai limiti estetici che lo caratterizzano.
Wonder White Bird è un film nella struttura semplice, forse anche un po’ zuccherino per un pubblico più smaliziato e che certo non ambisce a raccontare la complessità del secondo conflitto mondiale.
Ma al contempo è un film che riesce ad arrivare dritto al cuore degli spettatori più piccoli, aiutandoli a riflettere sulla insidiosa natura del male e su quanto è facile e veloce trovarsi dal giorno alla notte sulla barricata sbagliata della storia.
Marc Forster dirige un gruppo di attori molto bravi e affiatati, rispettando bene nei ritmi e gestione dell’azione la struttura e l’atmosfera quasi favolistica dei lavori della Palacio.
La fotografia di Matthias Koenigswieser è molto calda e contribuisce insieme alle musiche di Thomas Newman alla sensazione di farci vivere in un mondo sospeso. La sceneggiatura è stata adattata da Mark Bombjack, autore di recente per Matt Reeves delle ultime pellicole sul Pianeta delle scimmie, che qui riesce a trovare una giusta sintesi rispetto al testo originale.
White Bird è un piccolo film destinato a un pubblico giovane, ma in grado di suggerire alcuni spunti di riflessione importanti sulla Storia, sulla natura dell’odio e sul bullismo. Un film ideale da presentare alle scuole specie in questa settimana della memoria.
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