Buck è
un cagnone irresistibile, enorme e buffissimo, che vive da principino
viziatissimo in un piccolo paesino nella provincia americana. Essendo il cane
del giudice (Bradley Whitford), tutti lo viziano e tutti lo temono, tutto gli
è permesso e tutto rompe, mangia tutto, sbava su tutto, fino a che un bel
giorno arriva una bella sgridata, una notte al freddo e al gelo per punizione e
un bruttissimo tiro della sorte fa finire la pacchia del tutto. Rapito da
uomini senza scrupoli, Buck arriverà nel Klondike, dove i cercatori d'oro usano
le slitte trainate dai cani per percorrere le lande ghiacciate, spesso
rimettendoci la pellaccia. Buck imparerà con il tempo a vivere a contatto con
altri cani in quella natura selvaggia, incontrerà più padroni, tra cui il
simpatico Perrault (Omar Sy) e presto sentirà il richiamo dello spirito di un
enorme lupo nero (forse il leggendario Fenrir dei miti vichinghi?), con grandi
progetti per il suo futuro. Se Buck compie un viaggio che lo spinge sempre più
verso la natura selvaggia, in quel mondo di confine ci è già invischiato il
solitario John Thornton (Harrison Ford), forse in fuga da se stesso più che
dal mondo. L'incontro tra John e Buck cambierà la vita di entrambi.
Chris
Sanders, regista e sceneggiatore di Lilo e Stich, Dragon Trainer e i Croods, ma
anche sceneggiatore di cartoon Disney indimenticabili come La bella e la
bestia, Aladdin, Il Re Leone e Mulan, riadatta per il grande schermo del 2020
The call of the Wild, classico dei classici di Jack London (papà anche di
Zanna Bianca), una delle opere letterarie più seminali di tutti i tempi,
scritto nel 1903 e ancora oggi famosissimo, adattato al cinema già 14
volte.
La
tecnologia recente permette una effettiva "recitazione" degli
animali, tanto che il cagnone Buck è "interpretato" da uno
straordinario attore di performance capture di nome Terry Notary, che si è
fatto le ossa creando le movenze per la scimmietta Rocket (nella recente saga
del Pianeta delle Scimmie), per lo scimmione King Kong (Kong: Skull Island),
per l'amabile uomo-pianta Groot (Avengers: Infinity War). Buck è un
amabile pasticcione che durante la pellicola cresce, scopre le sue qualità,
interagisce attivamente con i personaggi umani e al contempo salta e corre in
paesaggi innevati resi iper-realistici e vorticosi come montagne russe dal
meglio della tecnologia digitale odierna. Il film è un autentico prodigio
visivo vicino per complessità e messa in scena a Revenant di Inarritu e 1917 di
Mendes. Insieme a Buck siamo anche noi ad immergerci sempre più in una foresta
che ci chiama, sospinti dalle musiche del veterano John Powell, nella cui
sconfinata carriera figurano perle come Happy Feet, Dragon Trainer e L'era
glaciale. Se il comparto visivo e sonoro è stellare, la sceneggiatura di
Michael Green (Logan, Blade Runner 2049) funziona molto bene nella prima e
seconda parte, per poi perdersi un po' in un finale troppo repentino. Facendo
un parallelo con l'interessante ma un po' diabetico War Worse di Steven
Spielberg, Il richiamo della foresta si può idealmente dividere in capitoli
caratterizzati dal rapporto tra il cane Buck e i differenti padroni che si sono
susseguiti nella sua avventura. Ogni capitolo in qualche modo ci porta delle
"suggestioni narrative" che sono proprie dell'opera di London ma che
il Cinema ha scisso e declinato in diverse pellicole. È un overture
interessante. La vita con il giudice impersonato da Whitford ha echi della
commedia leggera Beethoven di Brian Levant, il periodo con Omar Sy è un
ottovolante infinito con curve a gomito che richiama il cartoon action Balto di
Simon Wells, la storiaccia brutta con Dan Stevens dura poco ma ha i toni horror
de La cosa di Carpenter e la follia di un Urlo dell'odio di Lee Tamahori. Poi
arriva Harrison Ford è Buck è subito Chewbecca, la pellicola si distende tra
magnifichi quadri naturalistici alla Revenant e delle felici contaminazioni in
area Alba pianeta delle scimmie di Rupert Wyatt. Questo "c'era già tutto
in London e torna a London", per mezzo di Disney, insieme alla mitologica
figura del lupo nero che aleggia su tutta la narrazione e che per i più piccini
assomiglierà tantissimo al Mufasa del Re Leone (1998) o al Grande Cervo di
Bambi (che comunque è del 1942). Omar Sy è travolgente per simpatia e umanità,
Whitford indossa bene la maschera comico silente e lunare, Harrison Ford quando
arriva in scena si divora tutto, diventa il "suo film", una delle
sue interpretazioni più belle, sofferte e malinconiche, diventa il "suo"
Revenant, orso compreso. È molto commovente e non pensiamo per un attimo che
stia parlando con un cane digitale. Dan Stevens purtroppo non ha un personaggio
ugualmente ben scritto e il suo tempo su schermo è poco convincente, con delle
ricadute sul finale, se vogliamo il momento in cui la pellicola non è proprio
al top, che arriva come una mannaia mentre saremmo stati ancora una buona
mezz'ora in compagnia di Buck. Pur con questo piccolo difetto, Il richiamo
della foresta è una pellicola meravigliosa, elegante, divertente e malinconica.
Personalmente lo ritengo il più riuscito film Disney live action dai tempi de
Il libro della giungla di Farvreu. Come Revenant, è un viaggio visivo nella
natura da gustare a pieno su grande schermo, con il miglior impianto sonoro
disponibile.
Davvero
un paio d'ore niente male.
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