lunedì 26 febbraio 2024

Prima danza, poi pensa - Scoprendo Beckett: la nostra recensione del film di James March sulla vita del drammaturgo Samuel Beckett, impersonato da uno straordinario Gabriel Byrne

 


La massima onorificenza a coronamento di una carriera: il premio Nobel. 

Il grande drammaturgo Samuel Beckett (Gabriel Byrne) è seduto in platea, al fianco della moglie Suzanne (Sandrine Bonnaire), quando viene fatto il suo nome.

Partono gli applausi e gli sguardi si dirigono tutti verso di lui.  

“È terribile” è tutto ciò che riesce a dire e pensare Samuel in quel momento. Vorrebbe scomparire, magari riuscire a fare l’indifferente restando seduto, ma la folla chiama e reclama, lui deve alzarsi. Percorre la distanza verso il palco a testa bassa, sale verso il pulpito e non si ferma, con l’annunciatore che rimane sorpreso e perplesso. 

Prosegue verso le scale verticali in metallo oltre la scena, prima delle quinte, verso il soffitto del palco. Le sale, facendo maldestramente cadere un faro che esplode e fa sobbalzare la folla, arriva in cima, va oltre, fino a un passaggio stretto e surreale che si apre verso un pertugio oscuro. 

Varca il “confine” e si trova in un luogo oltre il tempo e lo spazio, una specie di nicchia contornata da pietre quasi megalitiche, al cui centro c’è…lui. 

Un “altro lui” (come in Godot), un altro se stesso, che si pone al dialogo come fosse in una sua opera teatrale: un Samuel Beckett che è suo doppio, forse la sua coscienza o forse la “morte stessa” che si burla di lui, mentre magari ha avuto un infarto seduto in platea. 

Samuel ci parla come fosse la sua coscienza e definisce subito la questione: non vuole quel premio, non se lo merita, non lui e di sicuro non “solo” lui . 

L’altro lo cerca di convincere: il Nobel comporta un premio in denaro, in fondo, e il drammaturgo potrebbe devolverlo a favore di una persona che davvero se lo merita, qualcuno a cui lui deve molto della sua fortuna, ma che non è mai riuscito a ripagare. 

Parte una sequenza di capitoli ognuno dedicato a una persona diversa “da encomiare al suo posto”, caratterizzati ognuno da toni e color differenti. 

La prima della lista è di sicuro l’austera e terribile madre, May (Lisa Dwyer Hogg), che quando era bambino (interpretato da Caleb Johnson-Miller) lo ha tormentato con lo studio e coperto di critiche feroci leggendo i suoi primi racconti, immedesimandosi con rabbia sempre nella “cattiva della storia”. Il padre William (Barry O’Connor) invece era tutto aquiloni rossi, spirito di libertà e frasi motivazionali come “combattere, combattere combattere”. Ma forse proprio senza la severità della madre Samuel non sarebbe andato da nessuna parte. 

Il secondo nome della lista è la figlia di Joyce (Aidan Gillen), Lucia (Grainne Good), che quando lui era ragazzo (interpretato da Fionn O’Shea) anche per dei brutti giochetti manipolatori della sua coppia di genitori, lo obbligava a ballare, mangiare gnocchi e fare passeggiate nel parco. Al posto di permettergli di stare a fianco del padre come apprendista e diventare scrittore, magari componendo il “suo” Ulisse. Ma la gioia e la pazzia di Lucia alla fine lo avrebbero forse ispirato più di ogni altra cosa e lettura.

Il terzo destinatario della somma di denaro al merito era poi, in graduatoria, sicuramente Alfred o “Alfy” (Robert Aramayo). Amico fedele e collega scrittore a cui Samuel sente di aver rovinato la vita, imbottendolo con sogni di libertà e patriottismo troppo elevati, convincendolo infine a morire in guerra tra le file della resistenza ai tedeschi, mentre lui stava nascosto a coltivare patate in una casetta nei boschi. 

L’amante Nora (Bronagh Gallagher), sua co-autrice, lettrice appassionati, complice e correttrice di bozze di lungo corso, meritava sicuramente pure lei un encomio, pur sempre in secondo posto rispetto a Suzanne.

La moglie Suzanne. “Suzanne del Tennis”, la “crocerossina” caritatevole che lo raccolse e ne aggiustò la vita, raddrizzandola dal degrado “bohemien”, dopo una aggressione notturna a base di alcol e papponi. La donna che coltivò con lui le patate durante la guerra, lo supportò nei momenti di crisi, cambio di case e allestimenti, fu sua musa e compagna di vita. Anche dopo la fine della passione, come manager e detentrice dei suoi diritti, dopo e oltre quel tradimento ingrato. 

Ma infine a tutti questi beneficiari, perché non considerare la possibilità di un fondo per giovani autori? In fondo il futuro non è più importante dei rimpianti? 

Perennemente distratto dalla vita, alla ricerca di un flusso geniale di coscienza che passa e non torna mai più, come quello cavalcato dal suo maestro Joyce con il suo Ulisse, Sam ha vissuto razionalmente forse troppo insoddisfatto di se stesso, per capire emotivamente quanto più di tutto deve a se stesso l’essere diventato quello che è. Forse ha troppo pensato e poco “danzato” con i sentimenti e le situazioni della vita. 

Tornerà sul palco a ritirare il premio, uscendo dal caldo ma disperato guscio interiore in cui si è confinato?


Il regista e sceneggiatore James Marsh, autore anche dell’ottimo La teoria del tutto, porta in scena una pellicola ispirata alla vita di Samuel Beckett che gioca con gusto e intelligenza con molti temi, ironia e suggestioni vicine al lavori teatrali dell’autore di Aspettando Godot

Gioca con il tema del “doppio”, con la centralità degli oggetti sulla scena (come L’aquilone rosso), con l’incomunicabilità “ironica“ dell’amore, con le disillusioni. E naturalmente mastica tutto con l’assurdo, di cui Beckett è stata una delle voci più originali e geniali. 

Byrne si impasta in Beckett e tutte le sue fisime in modo naturale quando leggero, impossessandosi dell’imponente ma ricurva fisicità dell’autore, rifuggendo “molto alla Woody Allen” ogni “gravitas” drammatica con la stessa leggerezza di cui era capace il drammaturgo.

La parabola umana, descritta attraverso gli incontri di Samuel con le persone che ne hanno influenzato la vita, ha un piglio quasi psicanalitico, quasi da psicologia archetipica di James Hillman. Sono infatti gli incontri, felici come meno felici, a plasmare l’animo dell’autore invitandolo a prendere delle direzioni emotive specifiche. Una madre severa e intransigente aiuterà a sviluppare, per contrasto, delle importanti capacità di ascolto e analisi. Un'amante, rinchiusa in una “gabbia emotiva” da cui non può scappare, lo aiuterà a ricercare un senso di gioia e libertà. Un amico devoto ed entusiasta lo farà scontrare contro la disillusione dei grandi valori sociali e morali dei tempi bellici. 


Marsh descrive questo percorso emotivo di crescita, con frustrazione annesse, attraverso piccoli quadri visivi con toni e sequenze sempre uniche nella forma e colori, ponendoci davanti quasi ad un film per episodi, che si rincorrono e scontrano l’un l’altro alla ricerca di un significato più strutturato del “senso della vita” del protagonista. 

Episodi che spesso ascendono visivamente in una sospensione estatica simbolica, come l’aquilone rosso o la luna piena. 

Pennellate di vita cariche di umorismo, di dramma come di sarcasmo ovviamente, come tradizione brechttiana impone, a cui contribuiscono attivamente e con slancio tutti i bravi attori coinvolti.

Una “cornice onirica” onnipresente, la cui origine ed epilogo rimandano a quella “stanza sopra il teatro” (ideale “stanza di psicanalisi”), che strizza l’occhio direttamente a un teatro classico, fungendo quasi da “tribunale dell’anima“ per il grande drammaturgo, calandolo quasi in una atmosfera da Settimo Sigillo.

Potente ma al contempo gentile, razionale quanto estroversa, la pellicola non perde mai un colpo nel suo montaggio perfetto, portandoci dalla stanzetta buia della casa tetra alle scenografie naturalistiche calde e aperte quanto un pomeriggio d’estate dell’infanzia. Dalle mille luci della città infinita, notturna quanto euforica, che accompagnano l’adolescenza fino ad arrivare alle piccole casette del periodo dell’isolamento. Dalla guerra, verso altre stanze sempre più piccole e segrete, d’albergo, del periodo di tradimento, in contrasto con i grandi teatri in cui sono rappresentati i suoi lavoro. Marsh, come l’ultimo Miyazaki,  gioca con gli spazi. Ci fa viaggiare attraverso le passioni da luoghi immensi a piccolissimi e viceversa, per poi farci tornare più volte al di là della stanza sopra il teatro, attraverso un passaggio elevato e stretto come un cordone ombelicale. 


In tutti questi passaggi “a imbuto” la telecamera, anche grazie alla fotografia di Antonio Paladino, si muove visivamente in modo così  “organico”, “sensoriale”, da ricordare il processo di continua “nascita e rinascita” di Povere creature! di Lanthimos. 

Ma quello che più affascina di questa pellicola è il modo di Marsh di cogliere appieno il “Beckettaino”, pur rinunciando quasi del tutto alla sua rappresentazione attraverso citazioni dirette ai suoi lavori, di cui comunque respiriamo aromi noti in più occasioni. Non è un film biografico tradizionale, non è una mera celebrazione. Diventa per il regista, pur nelle necessarie semplificazioni della messa in scena, il manifesto del pensiero specifico e potente, che è poi alla base del motivo per cui ancora oggi Beckett è Beckett: la scelta di porre al centro delle storie la vitalità dei personaggi prima del contesto. La volontà di vivere gli eventi, e anche le lunghe attese, senza farsi dominare dalla paura degli stessi. 

Un ottimo film per accedere a Beckett e poi avvicinarsi ai suoi lavori. 

Un rispettoso e gentile omaggio a un autore senza tempo, da una produzione e da un cast in stato di grazia. 

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