Ci troviamo negli anni '70 nel New England, nella prestigiosa Barton Academy.
È un posto che sembra ideale per “plasmare giovani menti” ansiose di “”vivere con saggezza e in profondità, succhiando tutto il midollo della vita; sbaragliare tutto ciò che non è vita ecc.“ (citazione da L’attimo fuggente). Ma siamo sotto le vacanze di Natale, il posto è pressoché deserto, i pochi che ci sono costretti a restare vorrebbero essere tutti altrove.
Tutti ma non il professor Hunham (Paul Giamatti). Tarchiato, dallo sguardo strano, che emana uno strano odore anche se non si capisce di cosa. È trasandato e accartocciato nel modo di vestirsi, ha la voce irritante e una “risata” sinistra, ama parlare in latino senza un perché ed è in genere caloroso quanto un cubetto di ghiaccio. Regala i voti più bassi, ama i compiti a sorpresa e vedere il panico negli occhi dei suoi alunni, quasi si diverte a comunicare tutti i singoli errori in cui incorrono.
Non è un tipo socievole ma al contempo è “equo”: non ama coccolare i pargoli viziati dei principali finanziatori dell’ateneo e anche se c’è chi si è già lamentato lui non ha mai arretrato regalando indulgenze.
Non ha una famiglia e conduce una vita quasi di clausura dedicata al solo insegnamento; si dice non sia mai uscito dall’ edificio scolastico. Sta fuori dal tempo.
Tutti lo odiano, anche il preside che teoricamente è un suo amico lo odia e probabilmente per questo non farà mai carriera.
Purtroppo, per i pochi sfortunati ragazzini che sono costretti a soggiornare alla Barton a Natale, mentre tutti gli altri sono in vacanze sugli sci o al mare, Hunham è anche l’unico docente che rimarrà in istituto, insieme alla cuoca Miss Mary Lamb (la cantante e attrice Da’Vine Joy Randolph) e al bidello Danny (Naheem Garcia). Hunham ha in mente grandi progetti per questi sfortunati figli “dimenticati” (holdovers significa “residuati”) di genitori anaffettivi o troppo distratti o troppo impegnati o residenti in un qualche paese dell’Asia. Un ricco programma per persone sbalzate fuori dal tempo e dallo spazio come lui.
Il programma prevede preziosi esercizi ginnici all’alba, per riscaldare i corpi senza sprecare energia a gas per il riscaldamento generalizzato.
Segue un indispensabile piano di ripassi forzati da svolgersi nell’arco di tutte le feste per non perdere il ritmo, o per lo meno per acquisire un ritmo di studio mai manifestato da anni al suo corso di letteratura.
Seguono indimenticabili pranzi e cene in sua compagnia nel locale cucina, frugali momenti davanti alla tv nella saletta piccola attigua, tutti a dormire mai oltre le nove di sera in un paio di locali con letto a castello allestiti ad hoc in infermeria.
Lo sconforto è già grande quando i ragazzini “detenuti” sono in quattro o cinque.
Diventa autolesionismo allo stato puro quando rimane con il prof, il custode la la cuoca un solo, unico ragazzino.
Nello specifico parliamo del ribelle scapestrato Angus Tully (Dominic Sessa): ragazzo intelligente ma che non si impegna, rompiscatole di professione, casinista e tendente al maleducato, nonché figlio di una madre separata esasperata, che ha preferito passare le vacanze con il nuovo compagno in crociera e rivedere Angus direttamente la prossima Pasqua, sempre che nel mentre non ci ripensi.
Dopo un paio di giorni tutto precipita. I piani del professore saltano, la malinconia inizia a colpire la cuoca e il custode. Angus riesce a farsi malissimo in modo inconsulto nella palestra, minacciando di denunciare tutti per mancata supervisione dei locali e guadagnando di riflesso una piccola capacità contrattuale sulla gestione delle feste rimanenti.
Qualcosa cambia. Forse è la magia del Natale.
Studente e professore iniziano uno strano viaggio nella vicina Boston. Nasce una strana alleanza che forse diventa quasi complicità e qualcuno inizia a pensare di dare una bella sterzata alla propria esistenza. Cambiare tutto e sentirsi, fieramente, un holdover.
The holdovers ha tutto il fascino “cinematografico” del romanzo di formazione: profuma del Giovane Holden di Salinger quanto dell’Attimo Fuggente con Robin Williams, ha tutto l’anticonformismo e la spigliata satira dei romanzi grafici di Daniel Clowes.
Respiriamo la sinistra e assoluta solitudine di strutture enormi quando deserte e isolate tra la neve di Shining, mentre i nostri piccoli anti/eroi cercano di sopravvivere a un “nulla” più cosmico di quello di Michael Ende.
Ci commuoviamo per la forza e risolutezza di un personaggio “non protagonista” ma straordinario come la signora Lamb, reso reale, vulnerabile ma titanico da una straordinaria Da’Vine Joy Randolph.
Forse perché travolti da una folle convivenza forzata, forse perché pervicacemente arroccati ai rispettivi punti di vista fino quasi alla autodistruzione, minuto dopo minuto ci affezioniamo progressivamente sempre di più al destino di due assoluti looser, antipatici e narcisisti, come Angus e Hunham.
Giamatti e Sessa sembrano impossessarsi al 100% dei rispettivi personaggi. Amano punzecchiarsi e odiarsi carichi di profonda autoironia. Si rincorrono e irritano di continuo. Si giudicano e si condannano a vicenda. Perdono la calma passando da rispettive vittime o carnefice in pochi secondi. Sovente si ubriacano di birra e parole fino a scoprirsi vittime di una complicità genuina che contro ogni previsione li vede amici, al punto che gli scambi di battute si fanno caustici quanti fulminei e le intese arrivano con un solo sguardo. Più che alunno e insegnante, più che genitore e figlio, Giamatti e Sessa sembrano fratelli diversi di una stessa società matrigna: un posto ricco di opportunità di cui loro non potranno forse mai fare davvero parte, ma potranno sempre affrontare, da qualche angolo sfigato, con l’arma dell’anticonformismo, pervicacemente aggrappati a dei valori nobili quanto fuori moda, molto più preziosi di una preziosa bottiglia di alcol insapore.
Se sono bravissimi gli interpreti è merito anche della sceneggiatura e del soggetto firmati da David Hemingson: un autore al suo esordio nel lungometraggio ma attivo da anni in serie tv brillanti come American Dad e How I met your Mother. Un autore qui particolarmente incendiario, forse “troppo brillante”, al punto che The Holdovers si è beccato un +17 proprio per il suo linguaggio esilarante e anticonformista. Al fascino di The Holdovers ha contribuito per forza anche la straordinaria location nel Massachusetts, che durante quasi tutte le riprese è apparsa funestata da gelo e neve come l’Overlock Hotel. Un luogo che per gli attori è stato da vivere a strettissimo contatto anche sul lato più strettamente termico, avendo da parte una bella scorza di tempra quanto di ironia delle cose che ha permesso al gruppo di insaldarsi, anche sono per non congelate. Il freddo dei luoghi si sente quindi perché è incredibilmente autentico e la cattedrale nel ghiaccio dell’istruzione americana, così vuota e ciclopica, sembra ammantarsi di tutta la malinconia di una aliena “fortezza della solitudine”: eterea quanto scollegata dal mondo, dalla classe dirigente come dalla meritocrazia.
The Holdovers tra tragedia, ironia e autoironia si dipana armoniosamente lungo tutta la sua durata: senza momenti di stanchezza e spostando sempre l’attenzione narrativa più in alto, dai problemi dello studio a quelli della famiglia, della scuola, del lavoro e della società tutta. Suggestioni sempre più articolate che arrivano a parlarci, anche grazie al personaggio della cuoca, di argomenti ancora attuali come la guerra in Vietnam, che ancora aleggia come un fantasma nella coscienza collettiva.
Vengono sollevati temi come la salute mentale, si parla di fallimento, si parla di futuro negato.
Si parla e si affronta tutto con la giusta ironia e la giusta analisi, senza dare facili soluzioni ai problemi e anzi immergendo sempre più i nostri eroi in piccoli grandi casini che forse li faranno “crescere” o forse li convinceranno a mollare la presa e immaginarsi vite diverse.
È un film che diverte e fa riflettere.
È un film che fa stare bene.
È un film che è un peccato lasciarsi sfuggire e che magari potrebbe presto aggiungersi a quei fil stagionali “da vedere a Natale”, nei prossimi anni.
Tra Una poltrona per due e La vita è meravigliosa, alla ricerca del vero significato di “fratellanza”, pur a volte impossibile, che dovrebbe rappresentare il Natale.
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