domenica 4 febbraio 2024

Silent Night - il silenzio della vendetta: la nostra recensione del nuovo “silenzioso” action movie di John Woo, un revenge movie natalizio con protagonista Joel Kinnaman

Colpi di pistola e le risate, insieme a tutti i suoni di una vita felice, si spengono. 

Un palloncino rosso prende il volo, una piccola vita viene spezzata. Succede proprio a Natale. 

Il padre (Joel Kinnaman) lascia la piccola creatura nel parco dove stavano facendo un pic-nic e corre all’inseguimento di chi ha esploso gli spari: due auto sportive dai colori sgargianti guidate da uomini coinvolti a suon di mitraglia in una guerra tra bande. Corre disperato e furioso, con indosso un buffo maglione natalizio con al centro una buffa renna dal naso rosso. Ha al collo un campanello natalizio che tintinna gioiosamente, con un suono che sembra l’unico rumore distinto nell’aria, beffardo quanto amaro. 

Per un attimo, avvantaggiandosi di traffico e scorciatoie pedonali, l’uomo appare davvero vicino agli inseguitori. Gli è addosso. 

Poi tutto si fa buio. 

Poi tutto si fa ovattato. 

L’uomo ha avuto un grave trauma, ha un buco alla gola, è in ospedale e ora non riesce e non riuscirà più a parlare. Il suo mondo gli appare e ci appare, grazie alla particolare composizione sonora, in una perenne e strana bolla “emotivo/sensoriale”: è un luogo dove tutte le voci sono silenziate anche perché “non più importanti”. Un luogo dove solo i suoni e rumori sono per il padre “utili”, in quanto ancillari alle immagini, per accumulare dettagli che gli permettano di consumare la sua vendetta. 

La moglie presto “cede al silenzio” e lo abbandona alla sua solitudine. 

La casa, raschiata di ogni sentimento umano, diventa per lui una specie di palestra, tana e quartier generale dove lavorare meglio di come hanno fatto per lui, svogliatamente o troppo lentamente,  le forze di polizia. 

Nel silenzio passano i mesi e ci accorgiamo del tempo da tanti piccoli dettagli: il colore delle foglie che cambia, i calendari appesi al muro che si aggiornano scena dopo scena. I muscoli del padre si definiscono sotto lo sforzo di pesi sempre più grandi.  La sua esperienza ginnica nel corpo a corpo rende il sacco d’allenamento sempre più fiacco. Un bersaglio con reticolo millesimale con fori sempre più vicini al centro, certifica la progressiva precisione nel tiro con la pistola. 

Si avvicina l’anniversario della morte del bambino. Si avvicina il Natale. 

L’uomo ha indagato bene e ha trovato, da solo, il covo di chi ha iniziato la guerra tra bande. Ha pedinato di nascosto per mesi tutto il piccolo esercito locale del crimine, raccogliendo ogni genere di prove, abitudini ed itinerari. Ha blindato la sua auto come un carro armato, ha nascosto strategicamente per il quartiere ogni genere di armi ed esplosivi. 

Indisturbato, da “uomo invisibile”, da padre distrutto con lo sguardo sempre in basso di cui al mondo non frega nulla. Un singolo nel mucchio delle tante vittime accidentali della guerra tra bande. Non è stato mai considerato lontanamente un problema da nessuno ed ora è pronto per far saltare per aria tutta una città. 

Un altro palloncino rosso vola in cielo, la preda naturale è diventata cacciatore di grossi e arroganti signori del crimine. 

Sta per iniziare una notte molto silenziosa e priva di ogni canzoncina natalizia.


John Woo dirige un film dritto, cinico e disperato, carico di azione a rotta di collo e tutto guidato da un’unica idea estetica strana quando innovativa: il silenzio e i rumori di fondo come unici “marker” a definire sullo stesso piano i sentimenti quanto i momenti d’azione. 

Un filtro scomodissimo, difficile da ammaestrare, ma che dopo poche battute ci fa sentire da spettatori immersi nella scena: come se il cinema si trovasse sul fondo di una piscina, e noi in apnea con i pop corn.

L’idea è interessante e ha molto a che fare con la possibile evoluzione della “grammatica dell’action”: una materia che Woo negli anni ha contribuito più spesso a scrivere, ridefinire, rivoluzionare e rendere “umoralmente” tanto pop quanto melò. 

È un film tutto sullo stile, un ginnico e tecnico esercizio di sintesi da presentare ai posteri come esempio di poesia all’interno di un prodotto per molti considerato “di genere”. Poesia come la sequenza di Woo della bambina che sente Over the Rainbow durante una sparatoria (Face/Off). Come il momento in cui un uomo in cerca di vendetta indossa il cappotto crivellato di colpi del suo fratello gemello, come fosse il mantello di Superman (A better tomorrow 2), rinascendo e sovrapponendosi a lui. Come la torta di compleanno, sarcasticamente chiusa nella scrivania con tanto di candeline accese, di una donna poliziotto che fa tardi in ufficio senza cavare un ragno dal buco (Senza Tregua). Come le tante sequenze, di tantissimi film di Woo, questo incluso, che disegnano lotte a suon di pistola rallentate e quasi congelate, per tenere il ritmo e il loro incedere vicino  al battito d’ali di colombe bianche e piccioni, alla ricerca di un impossibile equilibrio zen tra uomo e natura, caos contro la normalità. 

È il mood, la “splash page” che si tatua nella testa dello spettatore oltre la cornice. 

La storia stessa è una cornice e deve restare classica, debitamente “escapista e sovversiva”. Può ricalcare nelle prime battute, anche felici, la genesi fumettistica caustica del Punisher di Garth Ennis, ma alla fine il succo è seguire le coreografie di combattimento nella loro evoluzione sincopata, fino a trovarci in un epilogo dove il volume dei proiettili e il cuore del protagonista battono veloci al ritmo della musica della discoteca del duello finale. 


Kinnaman è un attore grosso, simpatico anche se non particolarmente versatile, in possesso di quella certa atleticità che si richiede dagli action hero, ed in specie a chi viene diretto da John Woo, per essere un ottimo “ballerino tra i proiettili”. È bravo soprattutto nelle lunghe e complesse coreografie di quel “gun-fu” qui presenti nonché immaginate e codificate da Woo stesso anni fa: come “nuova arte di combattimento filmica”, incontro impossibile tra le sparatorie dei western americani e i duelli con la spada dei wuxia movie cinesi. Kinnaman è atletico ma anche in grado di rappresentare, con il volto più che il corpo, il lato più vulnerabile, a volte anche esasperatamente melodrammatico, degli eroi under-dog dell’action asiatico: quasi caricandosi, sui suoi denti stretti e su occhi così grandi e scavati che “quasi esplodono”, tutti i mali e dispersione del mondo. 

Ci sono le premesse per giocare con i temi natalizi e la “felicità estetica/plastica” in contrapposizione al dolore interiore. In modo amaro, alternando infelicità a preparazione al combattimento, fino a trasformare il nostro eroe in quello che Tsukamoto definirebbe un “Bullet-Man”, pronto a scontri forsennati a base di proiettili, pugni e sportellate, che lo vedono solo contro un esercito.

All’inizio l’ingranaggio gira, incanta, mostra tutti i suoi denti e pirotecnica: perché siamo nel mood giusto, sentiamo il “flow” che guida Woo nel suo surfare sicuro su registri e suggestioni, idee e mestiere. 

Poi arriva in secondo palloncino e nel disastro e sconforto generale ci rendiamo conto che sarebbe bastato quello: un corto cinematografico di lusso di una ventina di minuti, immagini ben ritmate e una colonna sonora/sensoriale così unica da poter fare scuola quanto essere il tech-demo definitivo per le casse di un nuovo impianto stereo, un interprete in parte, un montaggio a prova di bomba. 

Perché purtroppo dopo quel palloncino tutte le idee finiscono e pure il film, pur esteticamente superbo, finisce. Il flow di Woo finisce. 

Non ci sono giochi di maschere e ruoli come in Face Off a ravvivare quanto di già visto. Mancano sagaci invettive al patriottismo come in Project Broken Arrow o l’esasperazione estetico/feticista dei sentimenti (che vengono costruiti quasi come  beffardi momenti da “spot pubblicitario di un dopobarba”) di Mission Impossible 2 alla ricerca di un qualche sapore da aggiungere alla ricetta. Mancano per scelta, perché tutto deve filare dritto, l’ironia, lo sberleffo o anche solo il “cameratismo da action anni '80” di Windtalkers, mancano i giochi di prestigio di montaggio a scatole cinesi di Paycheck. Tutto quanto girato dal grande regista ad Hong Kong in termini di uso innovativo della macchina da presa, bromance, è tutto messo da parte didatticamente nell’esplorazione ed esposizione di questo nuovo esercizio di stile sul suono e le immagini. Che è bellissimo, unico, ma che non regge oltre i venti / trenta minuti di un mediometraggio. 


John Woo cocciutamente si spoglia di se stesso, dai suoi eccessi ai suoi marchi di fabbrica, confezionando un film che dopo mezz’ora si autocondanna a una pneumatica ripetizione/esecuzione di luoghi comuni, tutti a “sostegno della tesi” della duttilità (dubbia) dell’idea filmica, fino a un finale che purtroppo non lascia il segno. 

Anche perché oltre al protagonista i personaggi non esistono, e non possono esistere, proprio per la mancanza ricercata di qualsiasi dialogo. Anche perché, per l’ossessione di stare solo sul protagonista, dentro il suo unico mondo sensoriale/emotivo, non veniamo forniti di ulteriori punti di vista, che avrebbero trasformato la pellicola magari in qualcosa di più felicemente strutturato. Gli spunti c’erano e uno poteva essere la “ragazza del boss”: un personaggio che vive in equilibrio tra lo sballo degli stupefacenti, le armi da taglio e la musica disco. Un personaggio che avrebbe potuto, e magari dovuto, vivere parallelamente nella trama, in modo speculare al padre vendicatore, creando con lui un doppio balletto sensoriale/emotivo. 

John Woo è come rimasto ingabbiato nella affascinante trappola estetica alla base di questo progetto. 

Gli stunt fisici e con i mezzi funzionano, ma sono già stati visti e digeriti più volte, non ci appaiono “nuovi”. 

L’incedere del giustiziere verso lo scontro finale non possiede particolari guizzi, ripetendosi stranamente da topos a topos, fino a un cliffhanger che sul piano emotivo e visivo è troppo depotenziato: anche perché, come già sopra esposto, noi questi personaggi non li conosciamo e non siamo mai stati messi nella condizione di conoscerli. 

Il silenzio in sala diventa minuto dopo minuto sempre più soffocante, fino a voler urlare. 

Fa male dirlo. 

Fa male vederlo. 

Forse a qualcuno però questa dimensione può piacere, ma si poteva davvero fare tanto di più ed era alla portata di mano farlo. L’uomo che ha riscritto il genere action si è perso in se stesso fino a essersi reso quasi irriconoscibile, inseguendo un unico grande esercizio di stile, dimenticandosi quasi tutto quanto rendeva i suoi film freschi, divertenti ed adrenalinici. 

Un film di una mezz’ora racchiuso tra due palloncini rossi che volano in cielo e nulla più, avvolto in un vuoto statico-emotivo ridondante simile a un incubo di altri 80 minuti: che può piacere a livello di idea ma anche stancare presto. 

A meno che non ci si innamori pazzamente dell’idea di fondo, decidendo che tutto il resto può anche non esistere. È una scelta che qualche fan legittimamente può fare, ma da questa prospettiva Silent Night si guarda come una lectio magistralis universitaria e non come un action movie. 

Forse anche chi è in cerca di un dolby digital applaudirà il tech demo sonoro offerto dal film, magari sfoggiandolo con gli amici per una serata. Per gli altri c’è molto di meglio in giro, e il meglio viene in gran parte dallo stesso regista di questa pellicola. 

È bello che John Woo, in qualsiasi forma, continui ancora a scrivere la storia degli action movie.

È sempre bello trovarlo anche lontano da The killer, Red Cliff e gli altri blockbuster, magari pure in progetti piccoli o un po’ maldestri come La congiura della pietra nera, Paycheck o  questo Silent Night

Silent Night “è bello, ma non balla”. 

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