Dopo un lungo periodo dedicato alla famiglia e alla maternità, la giovane Ane (Patricia Lopez Arnaiz), figlia di uno scultore e di un'apicultrice, in un momento molto convulso della sua vita sogna di insegnare all’università e al contempo “continuare” insieme alla famiglia l’attività artistica del padre, creando repliche in cera d’api delle sue opere.
Recuperati dagli scaffali i suoi vecchi lavori universitari per crearsi un nuovo portfolio in vista di un concorso, Ane decide al contempo di ricreare con la cera anche “le silfidi”, statue raffiguranti giovani corpi femminili realizzate dal padre, ispirate a modelle con le quali probabilmente aveva in passato tradito la moglie.
Per il battesimo di Peiyo, figlio della sorella, Ane torna così per qualche giorno alla casa di famiglia immersa nella natura e al vecchio laboratorio paterno. Qui vivono ancora sua madre Lita (Itziar Lazkano) e la zia Lourdes (Ane Gabarain), impegnate nottetempo in strane e misteriose attività, come la cura delle api e la sartoria tradizionale.
In viaggio con Ane ci sono i suoi tre figli, il più piccolo dei quali si chiama Aitor (Sofia Otero) e sta vivendo in una situazione psicologica molto complessa.
Aitor ha otto anni, ma spesso viene chiamato da tutti Cocò. Ha lineamenti femminili e capelli lunghi, è taciturno, non vuole essere nemmeno sfiorato da nessuno, non vuole mostrarsi senza vestiti da nessuno, vuole dormire isolato.
Un pomeriggio, nella piscina comunale, Aitor insiste per andare a cambiarsi nello spogliatoio femminile e la sorella della mamma, prima perplessa, infine lo asseconda.
In famiglia tutti sembrano bisbigliare qualcosa sul conto di Aitor e il ragazzino si chiude sempre più in se stesso, ma la zia Lourdes in qualche modo riesce al ascoltarlo. Lo coinvolge giorno dopo giorno sempre di più nell’allevamento delle api, gli spiega che è tradizione antica di famiglia che risale alla bisnonna. Gli mostra le arnie, gli racconta la complessa dinamica relazionale delle api tra fuchi, api operaie, soldato e regina, lo fa assistere a una misteriosa forma terapeutica di agopuntura in cui si impiegano tradizionalmente proprio le loro api.
Lourdes parla con Aitor di tutto, anche di Santa Lucia. Il ragazzo è sorpreso da tutte queste storie e dalla calma e calore di quella casa e quei luoghi che sembrano coperti da una patina dorata. Impara velocemente e sente il suo cuore sempre più sollevato, come se per la prima volta si trovasse nel “posto giusto” del mondo.
Aitor infine si apre anche emotivamente alla zia.
Le racconta del risentimento che nutre per la madre che lo chiama Aitor o peggio con quel Cocò che sembra una presa in giro. Parla dei suoi compagni di classe che non lo capiscono, di tutti che non lo capiscono. Dice che ora, dopo aver conosciuto la storia della Santa, preferirebbe essere chiamato anche lui Lucia. Vorrebbe tanto che gli altri imparassero a chiamarlo così, con un nome scelto da lui per definirlo.
Nel frattempo Ana è come assente, immersa nel lavoro di calco e assemblaggio come nei suoi pensieri. Insegue e ricostruisce un po’ con rabbia i corpi femminili che il padre amava e che erano diventati le sue “Silfidi”. Corpi che sono stati l’emblema massimo della crisi della sua famiglia ma che ora possono sublimarsi a “qualcosa di positivo”, ma che al contempo possiedono forme di una bellezza e solarità a cui Ane stessa aveva “rinunciato troppo presto”, essendo diventata madre in giovane età. Ana è come se “odiasse” quel lato aggraziato femminile che sembra invece indossare con innocenza il suo figlio più piccolo. Un figlio che aveva chiesto per Carnevale di potersi vestire da sirena.
Ana e “Lucia” non sono mai state così distanti.
Così arriva il giorno del battesimo.
Durante la festa Aitor si presenta prima con indosso un abito da ragazza. Poi, quasi colpito a morte dalla indifferenza generale, si cambia. Successivamente durante la festa Aitor decide di scappare per i boschi: con il padre (eterno assente) Gorka, la madre Ane, la nonna, la zia e tutti gli altri che lo cercano disperati, corrono tra la boscaglia, lo chiamano.
Ma riusciranno a chiamarlo con il nome giusto?
20.000 specie di Api è un film sulla crisi di identità, che coinvolge tanto una giovane madre quanto suo figlio di otto anni.
È un film in cui i personaggi inseguono un “simbolico famigliare” distrutto, cercando di ricostruire i rapporto sulla base di riti e tradizioni millenarie aspirando, se non alla serenità, ad un proprio “ruolo nel mondo”.
È un film dove la pace e armonia “primordiale” dei luoghi si contrappongono a una rumorosa rabbia e finta accoglienza famigliare. Tutto sembra mosso da dolorosi fantasmi del passato che si sovrappongono e imperversano nelle vite dei personaggi, infestando un “presente inaridito” con il rumore della loro assenza.
Assente quasi del tutto è la figura maschile, didascalicamente simboleggiata, nel mondo delle api di zia Lourdes, nella figura “fugace ma centrale” del fuco.
Assente è il nonno di Aitor, ma di fatto le “api operaie” della sua famiglia continuano a costruire “simulacri” della sua arte. È ugualmente assente il padre di Aitor e marito di Ane: uomo che Ane ha sopportato di fatto rinunciando ai suoi sogni, vedendolo diventare sempre più lontano quanto affermato.
Di contro tutte le donne sulla scena aspirano a diventare “api regine”, prendendo decisioni e di conseguenza “spostando il loro esercito”, in modo spesso arbitrario, come se i sudditi non potessero che assecondarle senza ribellarsi. Zia Lourdes lo fa “materialmente”, gestendo le arnie, ma Lita e Ane non sono dissimili nella gestione della casa e della azienda. Le api regina spostano, dividono, si punzecchiano. In tutta questa lotta di potere (che narrativamente abbraccia “sociologicamente” tanto il mondo degli insetti che il mondo reale) Aitor è un po’ un ape operaia che aspira, anche timidamente, a diventare un'ape regina, con un nome nuovo, “suo”.
Aitor vuole essere per lo meno “visto” da sua madre (e forse in questo il richiamo alla iconografia di Santa Lucia non è secondario): accettato nella sua ricerca della sessualità, supportato nelle scelte di vita senza essere “spostato da una parte all’altra” come le truppe dell’esercito di una ape regina che decide di cambiare alveare.
Forse, ci suggerisce la trama, zia Lourdes è un'ape regina provvisoria migliore per Aitor, una che in quel luogo dorato lontano dalla città sa maggiormente immergerlo in una realtà/arnia accogliente.
Una realtà accogliente, in perfetta armonia tra uomo e natura, costruita dalla macchina da presa nel verde e nel sole delle cittadina francese di Hendaye, in Nuova Aquitania, quanto tra gli squarci boschivi e correnti d’acqua ricercati in Spagna, a Laudio, nei Paesi Baschi. Una cornice accogliente che asseconda bene i molti momenti di riflessione che la pellicola riesce a portare sulla scena.
Premiato nel 2023 da molti riconoscimenti internazionali per la indubbia bravura di tutto il cast e tecnici, 20.000 specie di Api arriva finalmente anche in italiano grazie a Wanted ed è un film tutto da scoprire: carico di molta profondità emotiva quando di momenti visivi quasi fiabeschi, ricco di simboli e suggestioni.
Un film complesso, che a tratti può risultare anche difficile, destinato in prima battuta a chi cerca il cinema d’autore ed è disposto a farsi sedurre dall’idea di una “melittologia” sorprendentemente, nella metafora, drammaturgica.
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