America dei giorni nostri. Jessica (DeWanda Wise) è una giovane autrice di libri per l’infanzia che si è affermata grazie a dei poco buffi ma tanto inquietanti racconti su dei “ragnetti”. Disegnati po’ alla Gaiman di Coraline e un po’ alla Tim Burton, sono nello specifico libretti colorati di scuro, tra il grigio e nero tenebra, con al centro l'avventura di una “ragnetta” che viene inseguita nottetempo da un ragno più grosso di lei e tanto arrabbiato, per un mondo sotterraneo e labirintico super tetro e pieno di porte chiuse. Un mondo che Jess ha “sviluppato positivamente” rielaborando un qualche suo irrisolto trauma infantile, di cui lei non ha più memoria, che è avvenuto probabilmente quando aveva meno di cinque anni e si trovava in una vecchia casa con giardino insieme al padre, uomo affetto da grave disturbi mentali oggi allettato in via permanente in ospedale. Un mondo che Jess “rivive sfuocato” quasi tutte le notti, in terribili incubi dove lei è ancora bambina e i ragnetti sono giusto più inquietanti di un 15% rispetto ai suoi disegnetti.
Però sono libri che piacciono tantissimo ai bambini e Jess sta lavorano giusto a un seguito, in cui vuole sviluppare un “rapporto positivo” tra la ragnetta e il suo terribile e perenne inseguitore, che forse non è così cattivo ma solo un po’ “incompreso”.
Oggi Jess frequenta una rockstar “tipo Jared Leto” di nome Max (Tom Payne) e ha deciso di iniziare a convivere con lui e le sue due figlie: l'adolescente Taylor (Taegen Burns), che la odia in quanto “intrusa”, e la più piccola e a lei abbastanza “indifferente” Alice (Pyper Brown), che comunque trova inquietanti i suoi ragnetti. Entrambe, per un gioco del destino, sono nate da una relazione di Max con una donna affetta da gravi disturbi mentali, ora internata.
Certo la casa che hanno adesso è piccola, ma si può andare tutti a vivere nella casa con giardino dei traumi infantili di Jess, ora che il padre è sedato e allettato a pochi chilometri da loro. Del resto Alice ha più o meno cinque anni quindi…”perché no”?
L’arrivo nella nuova/vecchia casetta è dei migliori.
Jess straborda di creatività per il suo nuovo lavoro, Taylor esterna il suo odio per lei ma sta per i cavoli suoi dopo che si invaghisce del vicino di casa fessacchiotto Liam (Matthew Sato), Alice si affeziona a Teddy, un orsetto di pelouche dall’aria tetra che trova una notte, chiamata da una strana voce tetra, nella parte più tetra del sotto-cantina-nascosto della già tetra cantina standard della tetra casetta con giardino. Teddy potrebbe essere qualcosa di “buffo e utile” secondo tutti, una sorta di buffissimo amico immaginario per Alice, che la aiuta a vivere “al meglio e con creatività“ l’arrivo nella nuova casa. Jess non si ricorda di avere mai avuto quel pelouche, ma di fronte alla gioia di Alice, che gira nottetempo per casa con Teddy, disegnando e scrivendo roba inquietante sui fogli di carta e sulle pareti, cercando di portare a compimento uno strano rito demoniaco “di quelli che amano fare i bambini”, la novella mamma è tutta contenta.
Del resto se servisse una mano c’è nel vicinato ancora la vecchia babysitter di Jess, Gloria (Betty Buckley), che vive una malatissima ossessione per il soprannaturale relativo all’immaginazione infantile, il cosiddetto “mesocosmo”, non è stata di nessun aiuto a Jess quando era piccola e sarebbe prontissima a “fare lo stesso”, con entusiasmo, per la nuova famigliola.
Vista la calma apparente (???) Max, uomo di casa responsabile e presente, se ne parte in tour con la band mollando le figlie a Jess e non lo vedremo mai più fino alla fine del film.
Vivendo a stretto contatto Jess e Alice scoprono presto per caso di avere qualcosa in comune, ossia dei lividi permanenti da maltrattamento sulle braccia. Jess e Alice iniziano a interagire soprattutto a livello creativo, partendo dai loro disegni, scambiandosi suggerimenti sulla espressività del ragno “inseguitore” della ragnetta. Forse anche la piccola sarà da grande una brava illustratrice.
Solo che la bambina non è sempre disponibile in quanto il suo Teddy la sta guidando nell’allestimento di un rituale che porta a una dimensione parallela che si trova sotto la loro abitazione. Un luogo labirintico e pieno di porte che forse Jess ha già visto e dimenticato.
Ci sono diversi spunti interessanti in Imaginary. Abbiamo al centro della vicenda un meraviglioso orsacchiotto inquietante che ci viene raccontato espressamente come un “amico immaginario”, rappresentandocelo tecnicamente come un “oggetto del mesocosmo”: parte di una realtà terza tra il mondo interiore e la realtà. La realtà viene a volte “mediata” dai bambini piccoli attraverso dei pupazzi a cui loro danno voce (o parlando con amici invisibili), per magari esprimere verso i genitori o insegnanti/adulti un dissenso nei loro confronti, che forse sono troppo timorosi di manifestare in prima persona, attribuendo quei pensieri “al pupazzo”. Nel quotidiano all’ora dei pasti un orsacchiotto può quindi sussurrare all’orecchio di un bambino frasi come “a Teddy i broccoli per cena non piacciono”. In psicologia si parla più propriamente di “oggetti transazionali” quando osservando i bambini giocare con dei pupazzi (magari donandogli vocine proprie e anche facendogli così “interpretare personaggi cattivi”), degli esperti, dai movimenti e toni, possono scorgere la “rappresentazione artistica” di un vissuto reale. Di più, a volte ciò che ha rivissuto attraverso il pupazzo il bambino, durante il “gioco”, può avere la forza di essere percepito come “esterno al bambino stesso”, permettedogli (o almeno “provandoci”) di archiviare un brutto evento come una storia passata e “separarsene emotivamente”. Uno stesso discorso si può fare sulla base dell’analisi dei disegni, su carta o sulle pareti di una cameretta, che a loro volta vanno a descrivere un contesto più di mille parole, agendo magari inconsciamente sugli ingranaggi della memoria con una emotività che traspare dal tratto o dai colori utilizzati. Imaginary ha nella sua scrittura originaria, nel suo “soggetto”, entrambi questi elementi suggestivi, rimandando con i suoi personaggi anche a situazioni reali di abusi compatibili (ma non esclusivi) con questo tipo di manifestazione “artistica”.
Il rapporto tra Jess ed Alice avviene proprio attraverso i disegni dimenticati, dispersi, a volte ben nascosti e ritrovati nella stessa casa che entrambe vivono, “leggono” e “abitano da bambine” in periodi diversi. Forse proprio il fatto di non essere più bambina pone un piccolo muro per Jess nella comprensione delle brutte cose passate. O forse si può dire che la sua immaginazione sia stata così florida da riuscire a riscrivere i traumi e farne un lavoro anche positivo, con i suoi racconti per l’infanzia. Forse anche Alice sta facendo, in un modo similare, uno stesso percorso. Le due hanno comunque una “affinità artistica” ed è vero che molto del bagaglio personale relativo al vissuto dell’infanzia può diventare un ottimo combustibile, per l’arte di futuri autori e artisti grafici.
Se la piccola Alice proietta sull’orsacchiotto il suo stress, la più grande Taylor proietta sulla “matrigna Jess” tutto il risentimento che ha nei confronti della madre abusante: per Jess riuscire a instaurare un legame con lei equivale a riuscire prima di tutto a ricucire, pur idealmente, la sua personale immagine paterna, cercando di tornare in contatto con un padre che prima che “violento” è “malato”.
Imaginary parla di una famiglia nuova che si sta “ricostruendo” con difficoltà da traumi passati separati, attraverso l’arte e attraverso la ricerca di un dialogo tra generazioni diverse. Una famiglia che sta “immaginando una sua forma”.
Anche sul piano prettamente artistico, che annovera una ventina di professionisti impegnati nella realizzazione del piano “fisico e astratto”, grazie a un budget di 12 milioni di dollari (cifra consistente per la media Blumhouse, che ultimamente è comunque per trend in ascesa), Imaginary presenta un comparto di tutto rispetto. Il piccolo e inquietante Teddy bear realizzato da Daniel Carrasco ha una sua precisa personalità ben resa dalla computer grafica e dagli effetti pratici, anche nei momenti in cui la sua fisionomia si deforma fino a farlo sembrare un inquietante grizzly da cartone animato horror. Il “mondo sotto la cantina” si apre favolisticamente con una maniglia disegnata, come in BeetleJuice e Il labirinto del fauno, nascondendo una realtà fatta di corridoi piene di porte chiuse come in Silent Hill, alternati a locali onirici quasi tratti da libri illustrati per bambini, pieni di colori, nuvole e cuscini vaporosi. Una realtà visivamente ricca ed elaborata che viene poi sintetizzata meravigliosamente proprio dalle illustrazioni attribuite al personaggio di Jess, realizzate da Logan Ledford.
C’è quindi stata molta cura nella realizzazione del “soggetto”, sul piano visivo e anche nella scelta di attori adeguati. C’è stata tanta cura sul piano visivo. Buoni presupposti in gran parte infranti da quella che è stata la “direzione originale” su cui ha deciso poi di muoversi la trama. Ossia la domanda: “Ma se immaginare fosse di per sé, come attività, un male? “
È ponendosi questa domanda anti-intuitiva e “autodistruttiva”, specie perché sviluppata in un modo poco convincente, che un film con ottime premesse crolla sotto una montagna di cliché che annebbiano e incasinano il tutto, rinunciando all’orrore psicologico per battere caoticamente e con poca convinzione la pista di demoni, dimensioni parallele e bambini inquietanti. Del resto le produzioni Blumhouse e James Wan ci sono sempre andati a nozze con i pupazzi indemoniati in pellicole come Saw, Dead Silence, Annabelle e recentemente Five Night at Freddy’s. Ci hanno già parlato di dimensioni spirituali/parallele in Insidious, di drammi familiari attribuiti a basi soprannaturali in saghe come The Conjuring. Ci hanno rappresentato con tutti i mezzi di registrazione audio e video, con ogni tipi di pellicole a bassa e alta definizione, il feticismo di cogliere le presenze inquietanti che si nascondono nell’ombra di una casa comune, come nella saga di fatto “capostipite” di Blumhouse stessa: Paranormal Activity. Pure i giochi comuni e quasi infantili dei più piccoli, come il “gioco della bottiglia” dei più grandicelli, sono in Blumhouse diventati un rituale acchiappa-demoni, sulla scorta delle nuove “challenge social”, in concept-movie come Obbligo o Verità, per altro sempre diretto dal regista di Imaginary Jeff Wadlow. Un Waldow a cui era stato affidato pure un controverso rilancio horror di Fantasy Island, di cui parleremo tra poco.
È legittimo e pure in molti casi “riuscito al botteghino” capitalizzare sul fantasy e sull’horror, specie se come Blumhouse e Wan si dispone di un certo talento artistico e produttivo e si sanno sfornare franchise molto amati.
Ogni tanto pure Blumhouse “si ripiglia” e dopo infinite saghe a base di fantasmi, pupazzi, pazzi e tavole Ouija fa qualcosa di diverso: è lì che arriva Whiplash, scoprono Daniel Chazelle e incassano dalla critica oltre che dal pubblico. Se vogliamo anche Whiplash è un horror sull'ossessione della perfezione artistica, un duello sulle immaginazioni di un adulto e di un ragazzo nella creazione di un loro “mesocosmo” attraverso l’arte. Imaginary similmente dava durante la visione tutta l’idea di essere una riflessione sull’horror più che un horror a sé: poteva essere un nuovo Wiphlash, potevano venderci qualcosa di “diverso” quando Blumhouse ci aveva già venduto più volte storie di pupazzi, pazzi, dimensioni parallele e fantasmi in franchise più definiti, più “solidi” nella forma e sostanza. Così come è, Imaginary prova a fare, e male, un po’ tutte le cose insieme, creando una realtà alternativa meno affascinante di Insidious, con al centro un pupazzo bello ma meno riuscito di quelli di Five Nights at Freddy’s (dietro c’era del resto il Jim Henson’s Studio dei Muppets), con fantasmi nell’ombra meno incisivi di Paranormal Activity.
Tutto per ripercorrere lo stesso “errore” di Fantasy Island, sempre scritto e diretto da un Wadlow fuori fuoco con medesimi intenti: sacrificare una narrativa “simbolica” riuscita (e spontaneamente funzionale) in ragione di una prospettiva “originale a tutti i costi” (e per questo artificiale), magari “a caccia di un nuovo franchise”, che anche qui non serve. Perché hai già tanta carne al fuoco che si può risolvere benissimo senza un soprannaturale quasi forzato, che pare anche qui inseguire disperatamente Lovecraft senza i mezzi giusti per farlo.
Per una precisa volontà produttiva in Blumhouse non c’è infatti quasi mai nei loro film splatter, sesso e tutto il “Body horror” necessario al misticismo “freudiano” di Lovecraft, anche perché con queste componenti i loro film sarebbero tutti VM18.
E allora perché farlo?
Imaginary risulta quindi “interessante ma pasticciato”, cade a volte tragicamente nel “generico.” Confonde in positivo ma spesso è più confuso. Ben confezionato e recitato ma strozzato e abbozzato dalla scrittura.
Anche se prendendolo per le sue singole componenti e suggestioni si può un po’ “volergli bene”, facendoci trascinare tra gli occhioni scuri e tristi del suo orsacchiotto, come facendo il tifo per la nuova famiglia che si sta formando sulla scena dai cocci di brutte vite passate “attraverso l’arte”, alla fine della visione si esce con una sorta di amaro in bocca.
Lo stesso amaro che per motivi diversi ci ha accompagnato all’uscita di altri recenti lavori imperfetti di Blumhouse come Night Swim (buono per la messa in scena e attori e carente per tutto il resto) e il nuovo Esorcista (ben confezionato ma del tutto “affogato nel mainstream” dei luoghi comuni odierni, fino quasi a sembrare “riuscitamente autoironico”).
Come consuetudine Blumhouse, la pellicola in un paio di settimane è già ampiamente rientrata dei costi almeno del doppio, pur senza un successo faraonico: La strategia produttiva della casa funziona sempre a quanto pare e i “collezionisti” magari saranno poi alla caccia anche all’home video. Si poteva fare di più e un po’ dispiace…
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