lunedì 21 agosto 2023

Passages: la nostra recensione del film di Ira Sachs

Parigi dei giorni nostri, nei pressi di una accademia d’arte cinematografica. Il tedesco Tomas (Franz Rogowski) è un ragazzo sulla trentina nervoso e passionale, umorale quanto malinconico, sempre alla continua ricerca di stimoli e stress, che cerca di combattere correndo con la sua bici da corsa per le strade della città, spesso tra il traffico notturno. È un giovane regista di successo e sente gli obiettivi e aspettative di tutti perennemente puntati su di lui. Si trova al centro della scena e cerca di dirigerla spesso “sopravvivendo”, tra mille equilibrismi, manipolazioni e ricatti morali. Trovandosi scomodamente a essere un punto di riferimento per gli studenti quanto per i suoi attori, Tomas si appoggia da sempre al suo compagno di vita, il riservato e tranquillo tipografo di origine inglese inglese Martin (Ben Whishaw), ma non riesce mai a stare fermo, è alla continua e bulimica ricerca di passioni forti. Così una sera, sfoggiando una maglia trasparente di colore nero e risentendo della stanchezza del suo partner, Tomas finisce con sedurre la giovane insegnante francese Agathe (Adele Exarchopoulos). Tra i due nasce una passione che presto diventa irresistibile, consumandosi prima di nascosto tra gli angoli dell’Accademia e poi in modo sempre più esplicito, fino a che il regista arriva a incontrare la famiglia della ragazza. Nel frattempo Tomas però non rinuncia alla vita di coppia, noiosa quanto “salvificamente” riservata, che ancora intrattiene con Martin. Martin gli dà spazio, Agathe no. Martin è il suo “ex” e al contempo il suo salvagente, ma presto la situazione è destinata a cambiare. Quando le relazioni dopo un continuo ping pong andranno a collidere e il giovane regista non riuscirà più a dirigere la sua vita, con le stesse alchimie e trucchi con cui comanda fermamente dietro alla macchina da presa. Tomas per la prima volta si troverà a non essere più il protagonista assoluto delle sue storie e questo finirà quasi per distruggerlo.


Il regista, sceneggiatore e produttore cinematografico americano Ira Sachs, porta in scena una pellicola intelligente quanto cruda, per sua ammissione dai tratti molto autobiografici, in cui esprime la sua voglia di portare in scena, anche dolorosamente,  alcune meccaniche del suo rapporto di coppia con il pittore Boris Torres. Ne esce un film controverso e controcorrente che nel momento storico di maggiore “etichettamento dei sentimenti”, dove ogni dichiarazione di affetto e scelta di orientamento sessuale è narrativamente quasi un manifesto politico, naviga coraggiosamente e spericolatamente in senso opposto, portando sotto il riflettore, tra contraddizioni e fragilità umane, il fatto che in amore il caos è sempre “possibile” quanto imprevedibile, creativo quanto distruttivo. È un caos inevitabile nella misura in cui le persone stesse sono fallaci, caotiche e spesso confuse, dal modo in cui l’amore travolge le loro vite trovandole magari impreparate, immature o ingenue. Anche nel caso che queste persone siano di fatto degli ottimi “architetti di relazioni”. Così, dopo aver  assistito in sala, poco tempo fa, al divertente e malinconico, bellissimo e ironico, Peter Von Kant di Francois Ozon, ora, con il nuovo film di Ira Sachs,  torniamo su una storia che parla di registi, sospesi tra arte e realtà, finzione e passione. Franz Rogowski, recentemente  apprezzato nel Disco Boy di Giacomo Abbruzzese e in Freaks Out di Gabriele Mainetti, seduttivo ma forse troppo magro, dagli occhi quasi febbricitanti, dà vita a un personaggio iperattivo, scostante, mentitore quanto ossessionato dal controllo della sua vita. È un uomo fragile che si ammanta di una instabile sicurezza, coperta dalla sua capacità di incantare gli altri e fargli credere di essere il loro centro del mondo. Almeno fino a che il trucco tiene. A differenza del Von Kant interpretato da Dennis Menochet, il Tomas di Rogowski è però un personaggio più cupo e meno autoironico, al limite dell’anaffettivo. Un personaggio costantemente spinto dalle sue pulsioni a passare da una relazione all’altra, quasi che questi “passaggi” costituiscano una sorta di droga, una costante sfida per trovare piacere.  Tomas è perennemente in fluttuazione, precario, sospeso tra la casa di Martin, interpretato da Ben Whishaw come un uomo silenzioso e passivo, e Agathe interpretata da Adele Exarchopoulos come una donna passionale quando parecchio “arrabbiata” dalla piega degli eventi. Tomas sceglie per molto tempo di “non scegliere” e motiva la sua perenne corsa in bici, tra la casa di Ben e Adele, per lo più solo come una ricerca tossica di sesso. Più che “fluidità” si potrebbe parlare di piacere egoistico a tutto tondo, perché Tomas non costruisce mai qualcosa nelle relazioni, ma anzi cerca solo la sua soddisfazione personale ad essere desiderato. I “grandi progetti di vita” vengono sempre e comunque dopo i suoi personali film da regista, con Adele e Ben che quasi diventano intercambiabili, almeno fino a che “esplodono”. I due esplodono, ma non possono forse fare altrimenti quando scoprono di essere stati trattati per lo più come affascinanti gusci vuoti. Nella scrittura di Sachs c’è molta amarezza per questa condizione umana e l’autore non fa sconti (autobiograficamente neanche a se stesso), così come Rogowski sceglie con la sua interpretazione di non edulcorare la pillola, presentandoci un personaggio affascinante ma anche sgradevole, che gira su se stesso più volte, alla continua ricerca di attenzioni e sesso. Il sesso è quasi l’unica “struttura emotiva/relazionale” chiara al personaggio di Tomas, perché nelle conversazioni interpersonali il nostro protagonista annaspa, quasi irritandosi davanti alle domande dei futuri “suoceri” e fallendo miseramente in ogni tentativo di mediazione tra Ben e Agathe. Il sesso “va bene” ed è per questo quanto ci viene rappresentato dal film nella forma più chiara e compiuta, anche grazie alla fotografia di Josee Deshaies, che in questi frangenti si fa subito calda e accogliente, in diretto contrasto con i colori freddi che caratterizzano la maggior parte delle scene, con colori che diventano quasi metallici quando accompagnano Tomas nei suoi viaggi notturni in bici, tra voglia di sfogo e fuga dai problemi del reale, alla ricerca della nuova “fluttuazione”, di un nuovo tossico “passaggio” emozionale. 


Passages è un film sensuale, notturno, freddo, ruvido, poco accomodante e problematico, crudo e “disilluso”. È un film sulla difficoltà di amare, se non proprio sulla impossibilità di amare in assenza di una adeguata maturità emotiva. È un film sulla illusione ed ebbrezza di poter vivere sospinti tra continue passioni travolgenti, trattando gli altri alla stregua di oggetti di piacere, senza fare mai i conti con i reali sentimenti delle persone. Il film di Ira Sachs, tra caldi amplessi e glaciali rappresentazioni umane, riempie di domande e sa stimolare: invita a riflettere, seduce e assesta un bel pugno in pancia a chi crede troppo nelle favole che dicono che l’amore è fatto di sola passione. Ottimi gli interpreti, algidi gli scenari della Parigi notturna in cui sono ambientati gli eventi, bollenti i colori che accompagnano le passioni più forti che condividono i protagonisti. Passages è un viaggio emotivo e visivo in una terra fatta di troppa passione e poco amore reale. È un film duro, ma di cui c’era bisogno.  

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