lunedì 31 luglio 2023

Animali selvatici (R.M.N.): la nostra recensione del nuovo film drammatico e “onirico” del regista rumeno Cristian Mungiu

Ci troviamo alcuni giorni prima di Natale, in un paesino della Transilvania dove da poco è rientrato il silenzioso e apparentemente burbero macellaio Matthias (Marin Grigore). La sua avventura lavorativa in Germania è repentinamente terminata dopo che l’uomo ha reagito con un pugno a un superiore che lo ha definito “zingaro”, ma Matthias è in fondo contento di essere di nuovo a casa in Romania: per la bellezza delle montagne, la cordialità dei suoi vicini e per risolvere alcuni problemi che negli ultimi tempi sono diventati per lui particolarmente impellenti. Il suo gracile figlio Rudi (Mark Blemyesi) di recente, mentre andava alla scuola elementare passando per i boschi, si è imbattuto in qualcosa di enorme e minaccioso, forse un orso. Da allora è diventato taciturno, spesso rimane immobile come traumatizzato e ha una assoluta paura a tornare a scuola da solo. La madre, Ana (Macrina Barladeanu) si limita a tenerlo per mano e confortarlo mentre il padre vorrebbe reazioni più concrete. Ora il macellaio può accompagnare lui a scuola Rudi, insegnandogli nel contempo a difendersi da “orsi e sconosciuti” preparando trappole e sparando con un fucile da caccia, ma Matthias deve anche trovare il modo di occuparsi di suo padre Otto (Andrei Finti), che da qualche tempo non sembra essere più in forma e sempre più spesso si comporta in pubblico in modi eccentrici. Anche l’unica consolazione “locale” del macellaio, la sua bella amante Csilla (Judith State), non se la passa troppo bene, specie da quando per conto del panificio industriale per cui lavora ha assunto due ragazzi dello Sri Lanka, facendo esplodere una incontrollata onda di invidia e odio xenofobo, che presto arriva a contagiare tutta la cittadinanza. Matthias vuole insegnare anche a Csilla l’uso del fucile, ma la donna preferisce vivere con le porte di casa aperte. Tra l’addestramento alle armi da fuoco e la protezione del figlio, fenomeni di violenza e incomprensione, strani suicidi e misteriose apparizioni notturne, a un certo punto sembrerà a Matthias che l’intero paese e i gentili concittadini che lui conosce da quando era piccolo siano stati tutti come “sostituiti”: scambiati con un branco di “animali selvatici”. Dovrà armarsi di nuovo, ma sembra che nessun altro voglia di difendersi e cambiare lo strano processo “sociale e animale” in atto nel suo paese. 


Il geniale e molto spesso celebrato e premiato regista rumeno Cristian Mungiu, una delle voci più interessanti della cinematografia dell’est Europa, torna al cinema a sei anni di distanza da Un padre, una figlia, con un’opera corale presentata in occasione del Festival del Cinema di Cannes del 2022. Un film che risulta curioso e atipico fin dal titolo originale, R.M.N., un acronimo riferito alla “risonanza magnetica nucleare”, un esame medico diagnostico cui si sottopone il padre del protagonista. È un esame per valutare “fotograficamente” lo stato della attività cerebrale, da cui risulta in questo caso la presenza di lesioni della corteccia tali da aver compromesso le funzionalità “relazionali” dell’uomo. Per via di queste lesioni, il padre può ora solo agire e reagire in base all’istinto di sopravvivenza, in una regressione che a tutti gli effetti rende l’uomo non dissimile da un animale selvatico. In un contesto (dis)umano più ampio, ipotizzando “drammaturgicamente” che di tale patologia si stia ammalando l’intero paesino protagonista delle vicende, viene facile immaginare che ogni uomo possa qui diventare, per rabbia o per autodifesa  “cacciatore dei suoi stessi simili”. Un animale selvatico, per citare il titolo italiano del film, ma anche, per la celebre massima di Hobbes, un “homo, homini lupus”.  Avevamo incontrato i vanitosi e vigliacchi “animali notturni” americani raccontatici da Tom Ford nel suo film del 2016, vittime e carnefici di un piccolo mondo familiare ricco e autoreferenziale, mentre  Mungiu qui ci porta tra i “suoi” animali selvatici, più proletari e meno altolocati, quasi fornendoci plasticamente la radiografia di una popolazione arrivata allo stremo. Una popolazione contadina e fiera, volenterosa e generosa, ma che si sta sempre più socialmente “ammalando”, dai più grandi ai più piccoli, senza che ci sia di fatto una cura per invertire il processo e dove anzi basta un piccolo screzio per generarsi una tragedia rabbiosa. Il meccanismo crudele della rabbia, che innesca la parte animale, monta progressivamente e inevitabile tra i personaggi fin dalla prima scena della pellicola, dove Mungiu ci mostra lo sfogo distruttivo di chi si sente delegittimato (e sempre delegittimabile) della propria dignità per il solito banale odio etnico. Alimentato dal timore per il futuro alla paranoia, fino ad arrivare alla xenofobia, il regista inietta dentro ai suoi personaggi un odio che dal punto di visto dall’ aggressore si palesa, miseramente alla stregua di una “””giustificazione morale”””. Una piccola rivalsa all’interno di una eterna guerra tra poveri e senza vincitori, dove chi è straniero è giocoforza nemico, come i bracconieri e gli orsi. Matthias è stato straniero in Germania allo stesso modo in cui, per riflesso, i panettieri dello Sri Lanka sono stranieri e non voluti “a casa sua”, in una realtà rurale priva di lavoro e prospettive, piena di paura e diffidenza (in questo caso ben riposte) verso le autorità e i padroni. Una realtà difficile, ma nella quale comunque nessuno farebbe il panettiere “a tempo precario“, rinunciando così a una specie di “reddito di cittadinanza transilvano”. Di fatto sono “arrivati gli stranieri” dopo che non si è trovato nei canali ufficiali nessuno che volesse fare il panettiere per via di una bassissima proposta economica, dopo che l’industria ha espressamente deciso di pagare gli stranieri ancora meno, facendo affidamento quasi del tutto su dei fondi europei per promuovere l’immigrazione. Ad aumentare la tensione gioca un ruolo importante anche la stessa “comunicazione” tra i cittadini.


Mungiu parla di un territorio, drammaticamente reale, nel quale per varie vicissitudini storiche, sono  presenti una ventina di lingue e culture diverse, tutte messe insieme a convivere attraverso arditi equilibrismi sociali e politici. Aggiungere una ennesima etnia alla babele pre-esistente è una goccia che fa quasi crollare un complesso castello di carte, scatenando un risentimento sociale che diventa lui stesso un unico grande personaggio, un autentico “blob sociale”. In una delle lunghissime ed elaborate sequenze a piano fisso per le quali il regista è da sempre considerato un maestro della macchina da presa, Mungiu ci racconta minuto per minuto le vicissitudini di un'assemblea comunale convocata sul sopracitato problema dei “panettieri stranieri”. I personaggi in scena sono tantissimi, usano lingue diverse, intervengono al dibattito in modo scomposto e spostano continuamente il discorso in territori di difficile compromesso, ostacolando ogni soluzione. Ci sono i dirigenti del panificio che si fanno vanto di offrire lavoro anche se sottopagato, il sindaco che vuole rimanere estraneo a tutto e delega le colpe, il prete che sollecitato dai parrocchiani non è sicuro sulla fede dei panettieri e paventa l’estremismo, i cittadini disoccupati e arrabbiati che pretendono parità di diritti a salari alti, le famiglie timorose dell’impatto degli stranieri sulla loro prole, il medico locale che paventa epidemie, studenti francesi in scambio culturale che parlano tra i fischi della ricchezza offerta dal convivere di culture diverse e una marea di altra gente, che per quasi venti minuti filati urla, fa il tifo, borbotta e contribuisce a comporre e intrecciare un unico grottesco quanto complicato quadro umano. Un quadro fortemente gustosamente satirico, così stratificato e contraddittorio da sembrare la rappresentazione “più nobile” della classica “folla inferocita con i forconi” che compare ogni due per tre nel cartone animato dei Simpson. In tutto questo caos umano di cittadini arrabbiati, stranieri e folle inferocite il nostro protagonista “morale”, Matthias, è l’unico personaggio sulla scena che forse può andare oltre le apparenze, provare empatia e forse abbassare i toni generali. Ma Matthias indugia, non prende la parola nè dice niente. Forse  perché per la sua storia personale “ci è già passato” e “il suo pugno” lo ha già tirato. Il macellaio invece cerca di fare qualcosa di diverso, estraniandosi, tentando solo di mantenere un “contatto fisico e umano”, stringendo le mani della sua amata. Un piccolo gesto di empatia e amore mentre tutti si scannano. Un gesto a cui risponde silenziosamente anche Csilla, che per aver deciso di accogliere i panettieri stranieri ora è diventata anche lei straniera e nemica. Era in fondo l’unica in paese ad aver ri-accolto con entusiasmo il ritorno di Matthias, magari sperando di costruire qualcosa di nuovo con lui. Gli animali selvatici di Mungiu formano un branco disordinato e forse la soluzione per contrastarlo che ci suggerisce il regista è ripartire dai piccoli legami, dall’affetto che porta alla creazione di nuovi gruppi sociali più piccoli. Piccoli gesti di affetto per immaginare nuovi equilibrismi e assestamenti sociali. Il film parla di animali che si muovono tra i boschi e tra le strade,  ma anche di persone che accolgono in casa loro i forestieri, ma l’impresa è tutt’altro che facile e la “malattia sociale” che affligge quei luoghi peggiora, minuto dopo minuto, mietendo altre vittime mentre i nostri personaggi vagano volenterosi ma quasi impotenti tra gli eventi. Mungiu è per tutta la narrazione particolarmente severo con i suoi personaggi. Critico e a tratti quasi cinico. Quando si avvicina all’epilogo, forse per farsi perdonare, in un modo del tutto imprevedibile (quasi citando il finale di Sogni d’oro di Moretti) muta gli orrori del reale in orrori immaginari, confonde le carte, fa emergere dal suo dramma sociale tracce e scampoli che lo avvicinano quasi a un “innocuo” cinema horror di genere. Lo fa sapendo di riuscire con il suo cinema a farci strabuzzare gli occhi dopo averci fatto cadere nel dramma. Ci colpisce nell’angolo cieco della logica e per un attimo ci rassicura “che è tutto uno scherzo”, che è solo una “storia strana della transilvania” come Dracula. “Potere del cinema” quanto degli straordinari paesaggi, quanto di umori e personaggi che avvicinano la pellicola all’ottimo Ad Bestas come al nostrano Delta, scavando anche tra gli orrori che si annidano (e un po’ accomunano) le  comunità montane, viste metaforicamente oggi come l’ultimo confine condiviso, con sempre maggiore difficoltà, tra uomo e natura. Mungiu disperde i suoi personaggi in questa natura sconfinata e matrigna, dove la caccia agli orsi e ai bracconieri è qualcosa di legato alla quotidianità quanto alla sopravvivenza e al “lavoro di comunità”, dove la macellazione degli animali (in una scena specifica) è ancora un rito antico e quasi magico e dove le relazioni sono spesso turbolente. Un piccolo mondo antico il cui “futuro politico” per il regista è ancora fosco, a meno di non considerare quei popoli già perduti, certificando “l’accaduto inevitabile” tramite un esame cranico. Un film che fa riflettere e un po’ arrabbiare, ma che come tutte le opere di Mungiu non lascia indifferenti. Bravi tutti gli attori, molto suggestiva la fotografia e la colonna sonora. Una occasione unica per scoprire al cinema un autore e un modo di raccontare intrigante quanto complesso. 

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