Ci troviamo nel cortile di un scuola elementare di qualche anno fa, dove il piccolo e riccioluto Leo inizia ad affinare le sue grandi capacità di pasticcere e seduttore. Leo (Francesco Quezada) realizza spettacolari torte da regalare alle altre bambine, tutte con allegate dediche amorose scritte sulla glassa. In genere arrivano a Leo tragici rifiuti uniti a panna sulla faccia, ma ogni tanto la ruota gira. Così un giorno qualcuna finalmente accetta le avance e il dolce, così il nostro eroe parte all’attacco con la fase due del piano, la dichiarazione: “Ti prometto che ti renderò felice! Amanda, mi vuoi sposare?”. È una proposta da bambini da intendersi “quando saremo grandi”, ma non è per questo meno seria e solenne. La piccola Amanda (Aurora Menenti) accetta a patto che lui “non diventi cattivo” e insieme i due giurano su un quaderno, dove hanno disegnato i tanti progetti che avrebbero realizzato insieme da grandi. Un quaderno pieno di sogni, con disegnato anche il modello definitivo della loro torta di nozze da realizzare. Gli anni passano, Amanda (Barbara Venturato) è diventata una ballerina e Leo (Nicola Nocella) un pasticcere, con la scuola di danza e la pasticceria che hanno sede nella stessa piazza del paese, insieme ad altri negozi. A fianco a loro c’è la cartoleria dell’ enigmatico Cipriano (Greg), che ama vendere e impacchettate quaderni, ma si diletta anche come psicologo part-time. C’è poi il negozio di cristalli e robe mistiche della troppo disincantata Luisa (Giulia Provvedi del duo musicale delle Donatella), c’è il bar storico gestito dal sempre sorridente Valentino (Enzo Garinei in una delle sue ultime interpretazioni) e da sua moglie Ada (Lucia Guzzardi), che sono un po’ i “genitori di tutti”. C’è il negozio di fumetti e dvd del malinconico e meteoropatico “eterno Peter Pan” Ciro (Paolo Ruffini), che si lamenta di tutti e vive perennemente con in braccio il suo inseparabile volpino Ciak. Oltre a negozi ed esercenti, non mancano mai in piazza “come parte del paesaggio” la baronessa (Loretta Goggi), che dalla sua terrazza sul centro osserva ogni cosa, come non può mancare quel simpatico cliente-rompiscatole di Gigi (Herbert Ballerina), che cerca inutilmente di sedurre Laura quanto di ottenere da Leo l’unico dolce che ha giurato di non realizzare mai più: la zuppa inglese. Oggi al centro della piazza c’è pure il prete Don Cioffi (Herbert Cioffi) e c’è intorno a lui tutto quel piccolo mondo, quando Leo e Amanda, dopo anni e anni di fidanzamento, fanno le prove ufficiali del loro matrimonio, che si celebrerà tra sette giorni. Sembra tutto andare bene, con Amanda che poco dopo si premura di portare alla pasticceria di Leo il quaderno di quando erano piccoli, dove è disegnata la famosa torta delle loro nozze. Ma qualcosa nell’aria è cambiato. Leo ha già realizzato per loro una anonima torta di riso, riso che Amanda odia, e chiede se è possibile rimandare il giorno delle nozze per la richiesta urgente di un politico. Sembra che il pasticcere stia vivendo un periodo di forte stress per via delle critiche ai suoi dolci e non creda di essere più in grado di cucinare come un tempo. Tutto pare partito da una zuppa inglese. Anche Amanda però in quei giorni è molto indaffarata, specie da quando le è arrivata la convocazione dalla Opera di Parigi per diventare loro istruttrice. Non può più ballare da tempo come professionista e quella è forse la sua ultima grande occasione di carriera. I due litigano, Leo sembra “diventato cattivo” e Amanda parte per Parigi il giorno stesso, a sette giorni dalle nozze. Leo è confuso, vorrebbe prendere l’auto e seguirla al volo ma a fianco del posto di guida gli compare lui stesso, da piccolo. Leo osserva quel bambino e scopre di non essere più lui. La vita e l’ossessione per il lavoro lo hanno cambiato troppo e forse è davvero diventato “cattivo”. Leo non parte più. Il fumettaro Ciro decide di stargli vicino e trovare insieme una soluzione, magari proprio a partire da quel quaderno che i piccoli Leo e Amanda avevano realizzato insieme. Oltre alla torta di nozze, il quaderno è pieno di disegni “di cose da fare” un po’ “astratti”, ma che se interpretati al meglio potrebbero in qualche modo riconnettere Leo al Piccolo Leo. Solo ritornando bambino, Leo non sarà più cattivo e potrà raggiungere e riconquistare Amanda. Un disegno dice di andare a fare la pace con un bullo completamente nudo e Leo lo fa. Uno dice di lanciarsi con una corda elastica e una torta in mano e Leo lo fa. I video vengono pubblicati e Amanda osserva da Parigi il tutto, stupita. Capitanati da Ciro, ad aiutare Leo in questa strampalata impresa per “tornare bambini” si smuoverà un po’ tutta la piazza e anche la nuova esercente della zona, Sam (Daphne Scoccia), una ragazza tosta e molto altruista che fa tatuaggi. Sam farà presto breccia anche nel cuore di Ciro, magari aiutando pure lui a uscire dal guscio dopo un lungo periodo di crisi. Riusciranno i nostri eroi a salvare il matrimonio?
Il film di Ruffini assomiglia molto a una favola e per introdurre al meglio questi commento ho bisogno di un’altra favola.
C’era una volta Rob Zombie, una star della musica Metal più pesante a cui qualcuno propose di girare il suo primo film. Erano i primi anni del 2000 e Rob qualcosa a livello di videoclip l'aveva già fatta, gli era piaciuto e aveva deciso senza remore di provare a gettarsi in questo lungometraggio a base horror, il suo genere preferito, dal titolo La casa dei 1000 corpi. Rob era motivato al 1000%, ma da qualche parte nella sua testa aveva una maledetta paura di non farcela. Se andava male, temeva di avere solo quella occasione per fare qualcosa al cinema. Così elaborò la più folle strategia possibile: buttare in quel film 1000 cose diverse. Tutto quello che avrebbe mai voluto mettere in tutti i suoi futuri 1000 film, condensato in un film solo: i cannibali, gli zombie, l’inferno, i tunnel dell’orrore, le streghe, gli scienziati pazzi, i freak, i serial killer, i poliziotti corrotti, i mutanti, le madri orribili, i pagliacci inquietanti, le catacombe, i luoghi spettrali vicino all’autostrada, il lato inquietante del mago di oz e satana stesso. Tutto insieme. Per poco meno di 90 minuti. La gente uscì dalla sala stordita, amando o odiando alla follia Rob Zombie, ma il film servì più di ogni altra cosa a Rob Zombie stesso: si era sfogato ed era tornato in pace con l’universo. Poco dopo, dosando meglio tutti i 1000 ingredienti della Casa del 1000 corpi, Rob Zombie alla sua opera seconda, La casa del diavolo, creò un capolavoro e divenne un regista di culto per una generazione. Veniamo così a Paolo Ruffini e a questo Rido perché ti amo, che in sostanza è il suo La casa dai 1000 corpi e dura pure lui sui novanta minuti scarsi. Ruffini non è come Zombie un amante dell’horror, predilige la commedia e i film sentimentali ma alla fine pure lui qui “ammucchia roba che gli piace”. Gli piace la delicatezza della visione del mondo di Il fantastico mondo di Amelie, gli piace quel rapporto tra emozioni e cibo che si sviluppa in Ratatouille, vuole un’immagine dell’infanzia felice con protagonista un bambino dal capelli ricci come il piccolo Andrea di Kiss me Licia. Vuole parlare degli eterni Peter Pan di oggi, cresciuti tra fumetterie e videoteche, accogliendo il sarcasmo di Clerks quanto la voglia di sognare “fuori tempo massimo” di Be Kind rewind, ma anche con quello sguardo disincantato specifico dei “giovani della provincia italiana” di Ovosodo. Ha nostalgia per la grande commedia italiana corale (quella de I mostri quanto di Casotto) e un po’ come l’ultimo Pieraccioni (da Una moglie bellissima in poi) immerge i personaggi in un'unica piazza umanamente e calorosamente variegata ed eccentrica, magari mutuando un po’ di eccentricità da Maccio Cappatonda, prendendo in prestito il suo attore-feticcio Herbert Ballerina. E infine lo “scudo massimo”, il suo personaggio che per tutto il film maneggia un tenerissimo e adorabile volpino come se fosse un pupazzo e una sua “estensione personale”: un surreale non-sense tenero-spiazzante alla Farrelly (ma non così “cattivo” da entrare in territorio Todd Phillips). Dei Farrelly che “ritornano”, nella scelta di Ruffini di avere nel cast anche dei bravissimi e teneri attori con disabilità. La ricetta è questa: un bel all you can eat filmico. 90 minuti con una trama che tra mille suggestioni confliggenti è un po’ favola, un po’ amarcord, ma riesce anche ad essere un po’ pure autobiografia, specie quando compare sulla scena l’ex compagna di Ruffini stesso che dice al suo personaggio di “non mollare e andare avanti” con il cinema. Forse perché effettivamente Ruffini si è trovato qui a fare questo film con l’animo di Rob Zombie dei 1000 corpi. Con una voglia matta di buttare dentro quante più cose possibili di quello che gli piace. Devo dire, anche con piacere, che per molti versi Rido perché ti amo funziona. Funziona nella sua struttura corale, che riesce a dare il giusto spazio ad attori come Goggi, Greg, Garinei e la Guazzardi, Cioffi e Ballerina, per creare delle piccole e gustose scenette, a volte anche piuttosto articolate. Funziona nella scelta degli interpreti bambini e adulti di Leo e Amanda, che hanno un’aria tenera e innocente molto adatta alla cifra favolistica della storia. Funziona nella costruzione di un piccolo mondo all’interno di una piazza resa sempre “viva” e particolarmente colorata da azzeccate scelte di montaggio e fotografia. Funziona anche quando lo svolgimento del film si mette “quasi in pausa” e interpreti principali diventano Ruffini e la Scoccia: come se il regista non riuscisse (attraverso il suo personaggio) a vivere in pieno la favola perfetta di Leo e Amanda “proiettati al futuro”, in quanto si sente incastrato in una vita piena di rimpianti e “immobile sul passato”. Risulta proprio in questa dinamica ulteriormente bella e appropriata la citazione di Antoine de Saint-Exupery, autore de Il piccolo principe, ripresa dall’incipit del film: “il bambino che eri non si vergogni dell’adulto che sei”. È un film sul “tornare bambini senza restare poi per sempre bambini”, si potrebbe dire. Per tutti questi aspetti Rido perché ti amo “vola”… poi però Ruffini si schianta. Si schianta quando con il “gioco del quaderno” prova a fare Be Kind Rewind di Michel Gondry e invece tira fuori situazioni degne di Jackass, che possono essere divertenti ma sembrano per stile e resa finale far parte di un film diverso. Si schianta quando vuole raccontate la crisi di Leo come una crisi del suo rapporto con il cibo, laddove questo tema rimane involuto e il passaggio che fa superare la crisi al pasticcere lo vede clamorosamente quasi estraneo ai fatti. Si schianta laddove mette troppo fuori dalla scena i personaggi principali, soprattutto Amanda, nella parte finale. Rido perché ti amo ha vari difetti, ma nell’insieme è forse il lavoro migliore di Ruffini: quello con più ambizione nella messa in scena e quello in cui risalta di più la sua capacità di dirigere gli attori. Questa idea “bulimica” di cinema in fondo ha dato nel complesso dei buoni frutti: Ruffini ha rischiato, si è messo in gioco con tanti temi e suggestioni, ha trovato bravi attori e maestranze, ha saputo mettersi (più o meno) “da parte”, ha ecceduto come era inevitabile ma qualcosa di valido è effettivamente uscito. Ora auguro a Ruffini di dirigere la sua personale Casa del Diavolo.
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