Ci troviamo nella Francia dei giorni nostri, all’inizio dell’estate, in un appartamento del centro città. I giovani Alex (Jean Le Peltier) e Noemie (Lucie Debay) hanno una camera da letto simile a un piccolo giardino dell’Eden dell’Ikea. Coperte, pigiami, tablet e cellulari, anche le tende, tutto è griffato con lo stesso stampo di “campo fiorito”. Ovviamente in casa mancano dei fiori e delle piante “reali”, che di fatto non ci sono: è un verde solo “progettuale”, futuro, un post-it di quando avranno il tempo di occuparsi di curare fiori veri. Un altro progetto della coppia ancora in stato di pre-produzione è avere un bambino, compatibilmente con gli impegni di entrambi e con i fondi disponibili, ma l’estate è alle porte e porta entusiasmo. Nello specifico “L’Estate di Vivaldi” è alle porte, sparata a massimo volume dallo stereo dell’auto rossa di Suzanne (Jo Deseure), madre di Alex, che si appresta a parcheggiare sotto l’appartamento della coppia, con disinvoltura, nell’area invalidi. Più un presagio che un atto di non curanza. La splendida settantenne Suzanne è l'atletica, divertente, arguta, scombinata e stimata direttrice di un museo di arte moderna, ma sta anche iniziando infatti a perdere i primi colpi. All’inizio dimostra eccentricità che per lei sembrano ancora nella norma, ma piano piano il quadro si fa più strano. Non si ricorda di cose e persone, dimentica i contratti o anche solo il fatto di essere o meno in pensione. Qualche volta cerca di entrare a casa di qualcun altro, pensando che sia la propria e svaligiandogli il frigorifero. Mangia a orari strani, canta, osserva incantata il robottino che taglia l’erba, guada di notte con un gommone a forma di ciambella (ex opera d’arte moderna del suo museo) i corsi d’acqua cittadini. Suzanne è in tutto questo sorridente, ma il figlio Alex ride poco e inizia a preoccuparsi “più del solito”, specie quando vede l’incredibile ammontare dei debiti “strani” e multe non pagate dalla madre. Per il figlio “non è più lei”. Per Noemie invece è una donna che sta sicuramente passando dei momenti difficili, ma che va sostenuta, proprio perché è ancora una persona in grado di sorridere alla vita. Ad ogni modo bisogna riorganizzare un po’ le cose. Serve un aiuto e arriva in supporto dopo qualche “provino” il corpulento e barbuto infermiere specializzato Kevin (Gilles Remiche), che ama pure lui ascoltare l’Estate di Vivaldi, anche se in una versione Metal. Kevin e Suzanne potranno ora sentirla a tutto volume per tutto il giorno, mentre il primo potrà premurarsi di rendere la casa della madre più sicura, occuparsi di cibo e medicine e sorvegliarla mentre Alex, il sempre più preoccupato Alex, è al lavoro. Le cose sembra vadano abbastanza bene ma il figlio vorrebbe fare di più, magari accudire lui personalmente la madre, mettendo tutta la sua vita momentaneamente in pausa, fino a che la situazione si “stabilizzi”. Vanno prima di ogni cosa appianate le pendenze economiche della madre e questo comporterà “per ragioni di budget” che pure i progetti sull’allargare la famiglia e il “verde” con Noemie debbano schedularsi a data da destinarsi: bisogna prima salvare il salvabile, magari trasferirla a casa loro, magari pensare più in grande. Come un foglio di carta immerso nell’acqua di una istallazione ora presente nel museo di Suzanne, che si sfalda progressivamente su sfondo nero fino a diventare simile a un piccolo universo stellato, anche la mente della gallerista si sta scomponendo, diventando sempre più complessa da capire o forse, intimamente, molto più “semplice”. A tutti gli effetti in poco tempo Suzanne si comporta come una bambina e tocca ad Alex accudirla, come lei ha fatto per lui quando era piccolo. Durante le feste, allo stesso tavolo, Noemie si trova così a imboccare la figlia avuta dal suo primo matrimonio mentre Alex imbocca Suzanne, compiendo quasi gli stessi gesti. Suzanne fa sempre più i capricci e sparisce sempre più spesso di casa. È diventato pericoloso pensare che la donna guidi ancora l’auto, ma Alex non può togliergliela: Suzanne è sempre così contenta quando può lavare la sua macchina e poi sedercisi dentro a fumare di nascosto, come ha sempre fatto fin dal liceo. È così contenta mentre lava quella macchina che Noemie la immortala in quel momento di felicità scattando una foto, che Alex non approva. Come Alex non è contento di accompagnare la madre a sempre più surreali incontri con medici, commercialisti, psicologi e altri professionisti. Lì, mentre vengono esaminati e riempiti di domande, Suzanne si mette sempre a mangiare tutte le caramelle, non si ricorda soavemente di niente, gioca con le penne e i fogli di carte, fa le boccacce. È una fatica starle dietro, ma forse è meglio così. Se ora scappa, urla o compie qualche azione strana nel quartiere, forse è meglio che possa continuare a farlo a casa sua “finché possibile” e non in un istituto di cura, dove può avere al massimo dieci metri quadrati di spazio, da vivere magari costantemente addormentata dai farmaci. Certo che se tutta l’esuberanza di Suzanne fosse mitigata da alcuni farmaci per Alex ci sarebbero meno preoccupazioni, ma può il figlio accettare così di “spegnere” sua madre, forse per sempre, come si spegne un frigorifero? Alla fine Alex e Noemie dovranno scegliere se accogliere o meno la folle vita di Suzanne o pensare solo alla nuova famiglia che stanno costruendo da anni, rimandandone ogni volta i lavori.
Arriva nelle sale La folle vita, film scritto e diretto da Rapharl Balboni e Ann Sirot, al loro primo lungometraggio e già un piccolo caso cinematografico con vari riconoscimenti nei festival. È un’opera di “dramedy”, un po’ commedia è un po’ drammatica, che mette in scena, in modo divertente quanto disincantato, più tragicomico che tragico, i problemi quotidiani di una famiglia dove uno dei membri centrali viene colpito dalla demenza senile mentre quasi nessuno se ne accorge, essendo una persona molto estroversa e sopra le righe. La scelta narrativa, coraggiosa quanto riuscita e coerente con lo spirito di molte famiglie che si trovano a dover convivere con questa problematica, è quella di cercare di descrivere la malattia come un momento di unione più che di distacco, in controtendenza a un’opera come Still Alice con Julianne Moore e più vicini a Shine con Geoffrey Rush (nella sua parte finale). La pazza gioia descrive anche positivamente come passo dopo passo, grazie all’aiuto medico e il supporto sociale, una famiglia possa in questi casi sviluppare al suo interno una forte resilienza, permettendosi così di fare fronte qualche volta anche alle situazioni più complicate. È un film che vuole dare speranza, specialmente oggi che Demenza senile o Altzeimer sono parole che mettono davvero i brividi anche solo a pensarle, laddove si cerca di allontanarle ed esorcizzarle al punto di considerare, vigliaccamente, chi vi è colpito e i suoi famigliari alla stregua di persone maledette.
Rapharl Balboni e Ann Sirot vanno oltre a questo “tabù”, con una sceneggiatura fresca e non banale, mai didascalica e piena di spunti che divengono interessanti anche grazie a interpreti in grado di rendere al meglio, con leggerezza ma non superficialità, le complesse, quanto “pratiche”, dinamiche interne ed esterne con cui una famiglia di questo tipo deve ogni giorno confrontarsi. Particolarmente riusciti e divertenti i momenti di “incontro con i professionisti”, dove i nostri protagonisti sono sempre inquadrati dietro a un tavolo, con telecamera fissa, mentre parlano con interlocutori che non vediamo mai in volto, un po’ come gli “adulti” nelle strisce dei Peanuts e un po’ come gli studenti all’orale della maturità. Sempre accompagnate da una nota surreale sono invece le scorribande di Suzanne per il quartiere, ma la sua “vittima principale” diviene spesso l’infermiere Kevin, interpretato da un Gilles Remiche paterno e quasi “zen”, usato da lei un po’ come una specie di orsacchiotto gigante. I momenti di “sorveglianza” di Suzanne da parte di Alex hanno invece note spesso agrodolci, se non proprio amare, nella misura in cui descrivono le difficoltà nella comunicazione, la paura di non essere all’altezza e il timore del futuro. Timori comuni per chi si trova ancora agli inizi di un percorso di aiuto ai propri familiari, che sottolineano ancora una volta come questo sia un film dall’approccio positivo, ma che non semplifica le cose cercando di edulcorarle o renderle semplici.
Jo Deseure interpreta con “gioiosa e dolorosa incoscienza” Suzanne lungo il suo lento percorso nella malattia, facendola apparire eccentrica quanta solare, sempre in grado di “esprimere le emozioni” attraverso l’arte e la parola, costantemente sul punto di compiere qualcosa di strano, ma al contempo in linea con il suo spirito libero e anticonformista. Ci si affeziona e si soffre per lei, specie quando viene descritta una terapia farmacologica che la rende di colpo inerte, quasi un fantasma. Jean Le Peltier caratterizza Alex come una persona dall’animo un po’ rigido, timoroso e un po’ spaventato, in grado “per pignoleria” di scatenarsi in molti momenti comici quanto di riflettere lo stato di precarietà della sua esistenza. La Noemie di Lucie Debay è un personaggio che viene chiamato quasi a fare da madre tanto a Alex che a Suzanne che al figlio avuto dal primo matrimonio. A differenza di Alex riconosce prima le esigenze affettive di ognuno e riesce a costruire quasi un ponte tra i personaggi, con piccoli gesti d’affetto, ma al contempo è il personaggio che proprio per questo ruolo più di tutti deve essere supportato e motivato nella necessità di immaginare un futuro comune. Sono tutti personaggi ben scritti e sfaccettati, quanto resi assolutamente credibili e genuini in un percorso di vita complicato che li mette sempre alla prova, ridefinendo ruoli e aspirazioni, frustrazioni e desideri. È una materia magmatica che Rapharl Balboni e Ann Sirot riescono a maneggiare con soave “leggerezza”, trasformando più volte il dramma quasi in favola, senza però mai staccarsi davvero dal reale e anzi guardandolo negli occhi. Non è la realtà che viene edulcorata, è anzi il modo in cui la percepiscono i personaggi a diventare più bello, grazie a uno sguardo diverso e una fiducia diversa nei confronti di se stessi e degli altri.
È un film che fa stare bene e che invita a volersi più bene. Rapharl Balboni e Ann Sirot confezionano una pellicola tenera e coraggiosa, magari anche “difficile” per il tema trattato, ma comunque in grado di coinvolgere e far riflettere con intelligenza e passione. Molto bravi tutti gli interpreti, buono il ritmo della narrazione nel suo coniugare felicemente momenti leggeri quanto più complessi.
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