Siamo nell’Italia del nord est, in un luogo surreale e sospeso nel tempo. Tra le mura del carcere “63”, dove il sole arriva solo attraverso finestre con le sbarre e i detenuti e guardie vivono in perenne attesa ”di qualcosa di diverso” nasce con il nome di un fiorellino il piccolo Giacinto. È un bambino dai capelli neri e lo sguardo solare, molto affettuoso e che subito viene amato da tutti. Da tutti tranne che dai suoi genitori, una coppia di detenuti senza scrupoli che farebbero di tutto per evadere e che infatti, appena possono, usano il figlio per “rapirlo” e scappare, dandosi alla macchia. Giacinto viene invece riportato a vivere in carcere, perché in fondo è lì la sua casa e lì risiede la sua strana “famiglia allargata”. Gli vogliono bene gli agenti come, a debita distanza, gli vogliono bene anche i detenuti. È una specie di mascotte e viene ricoperto di attenzioni e pupazzetti. Tutti i tentativi di portarlo in una casa famiglia sono disastrosi, con il piccolo Giacinto che, pur di tornare velocemente tra le mura penitenziarie, arriva ad assestare controvoglia un bel pugno sul naso a un incredulo e panciuto poliziotto locale, che nel posto più pacifico del mondo pattuglia il territorio su una monoruota. Giacinto torna in carcere, ne esce il giorno dopo e cerca lo stesso poliziotto per dargli un nuovo pugno, fino a che una guardia (Giovanni Calcagno) decide di dargli tutti i mezzi per poter vivere in carcere senza “dare pugni”: instradandolo a diventare una guardia carceraria. La guardia, che da sempre ha preferito anche lei il carcere al mondo esterno, è contenta e Giacinto cresce indossando l’uniforme (ha ora il volto di Adriano Tardiolo, già visto nel 2018 in Lazzaro felice), diventa anche lui guardia e subito viene accettato nei ranghi dalla bizzarra direttrice “da un occhio solo” (Barbara Bobulova). Anche la direttrice è contenta di lui, ma vuole che ogni tanto il ragazzo esca dal carcere per fare qualcosa di diverso, anche solo per tenere compagnia all’anziano padre con cui lei non riesce più ad avere un rapporto. Giacinto vive questi momenti di trasferta all’inizio indossando un’uniforme antisommossa, ma poi toglie la corazza e si affeziona all’uomo. Inizia il lavoro “vero” e le ronde, specie quelle notturne, vedono Giacinto avvicinarsi anche ai detenuti pericolosi come “Rocky” (Nina Naboka), una donna di un braccio isolato e tetro che viene dai paesi dell’est ed è confinata lì da tempo immemore. È un incontro che avviene quasi per caso, mentre il ragazzo inizia a seguire una linea rossa tracciata sul pavimento della zona di detenzione. Ha così tanta curiosità di arrivarne “alla fine” di questo misterioso filo di Arianna, che all’improvviso si trova a correre. Corre nell’incredulità generale delle altre guardie che lo seguono dalle telecamere di sorveglianza , fino a che finisce trafelato davanti a Rocky che subito lo riconosce, perché in fondo lo aveva già incontrato più volte, quando lui era ancora un bambino e in fondo anche lei da quel momento, un po’ come tutti, si è sentita per lui una “nonna”. È anziana e malmessa. Ha sulle spalle dei delitti crudeli, è rinchiusa in un corpo che la rende simile a un'enorme roccia e porta lo sguardo sempre verso il basso, torvo e triste. I suoi occhi sono vitrei, l’espressione del volto contratta. Sa mettere soggezione Rocky, ma in un attimo riesce anche a trasmettere con pochi gestì tutta la dolcezza e fragilità del mondo. Vuole molto bene al ragazzo da quando lo rivede quel giorno e i seguenti “correre”. Giacinto corre così bene che Rocky vorrebbe che usasse tutta quella energia e spensieratezza per “evadere davvero”. Vorrebbe che potesse andare via, magari a vedere un mare che dista a pochi chilometri dal carcere ma che lei può vedere solo nei ricordi. Vorrebbe che lo facesse… “di corsa”. Così Rocky iscrive di nascosto Giacinto a una gara podistica e il giovane per la prima volta decide di “correre via” dal carcere 63 per osservare il mondo con uno scopo, per una volta senza paura. Ma Giacinto, una volta “fuori dalla sua casa”, cosa deciderà di fare?
Avrà la forza di lasciare il suo nido con le sbarre e perdersi nel mondo?
Dopo il colorato road movie Easy, Andrea Magnani fa tutto l’opposto e racconta una storia che si trova (quasi) “tutta nello stesso posto”, tra le mura di un carcere e nella testa dei personaggi. Personaggi rinchiusi o (auto)confinati, per pace pubblica e pace interiore, tra le mura grigie tutte uguali di un labirinto sociale, nel quale cercare un senso alla propria vita che diviene simile a un filo di Arianna. Il Giacinto di Adriano Tardiolo, tratteggiato felicemente a mezza via tra L’uomo di acqua dolce di Antonio Albabese e Forrest Gump di Hanks (e in fondo anche “fratello” del suo Lazzaro felice), diventa per gli altri personaggi sulla scena un po’ quel filo di Arianna: tutti cercano in qualche modo di essergli di supporto, garantendosi al contempo da lui un piccolo “sostegno”, e questo crea meccaniche interessanti in quanto il nostro eroe, nato in prigione e senza voglia di uscirvi, è sempre “imprevedibile” nella sua sconcertante costanza e gentilezza, quanto nel modo impacciato, da eterno bambino, con cui affronta anche gli aspetti più piccoli della sua strana vita, “confortevolmente ciclica” quanto grigia. I personaggi di Giovanni Calcagno e di Barbara Bobulova cercano per “proteggerlo” di sommergerlo di regole e responsabilità, la detenuta impersonata dalla straordinaria Nina Naboka cerca di incanalare (e rimirare) ogni scintilla di libertà che Giacinto riesce spontaneamente a liberare. La lunga corsa è idealmente il “lato opposto della medaglia” rispetto alla coloratissima e ariosa pellicola precedente di Magnani, ma è al contempo di nuovo un film sulle radici e sulla ricerca di affetto, anche se forse dall’animo più “psicanalitico”, personale e onirico. Un film velato di una gustosa patina surreale quanto “fiabesca” che in più aspetti, descrittivi ma a volte pure visivi, ricorda felicemente i luoghi e personaggi da “libro di illustrazioni” del cinema di Wes Anderson. Colori e personaggi che vengono debitamente “fusi” in un'atmosfera stilizzata, quasi da commedia surreale orientale, che rendono La lunga corsa “simile a un manga” quanto ad alcune pellicole dell’estremo Oriente.
Un Oriente che ogni anno arriva nel nord est dell’Italia tramite il Far East Film Festival di Udine, evento dal quale è nata la casa di produzione di questa pellicola, la Tucker Film. Una Tucker che anche in ottica di “scambio culturale” è passata dal distribuire pellicole di Johnnie To e Tsui Hark a creare questi straordinari ibridi, tra il cinema del nord est e quello del “far” est, che sono a tutti gli effetti una ventata di aria fresca, forse il cinema del futuro. Nei suoi 88 minuti La Lunga Corsa si dimostra un’opera carica di idee e dalla personalità unica, ma nella seconda parte il film non riesce a trovare la giusta chiave che lo accompagni sino al finale, con il personaggio di Tardiolo che forse per troppo tempo (magari per indecisioni di trama) rimane quasi una sfinge indecifrabile. Il messaggio di “libertà e identità” arriva forte grazie soprattutto all'interpretazione eccelsa di Nina Naboka, un’attrice che solo con lo sguardo si dimostra in grado di trasmettere storia, dolore, rabbia e fragilità. I momenti in cui lei è sulla scena sono particolarmente intensi e rimangono impressi nella memoria anche a fine visione. La lunga corsa non è un film esente da difetti ma è pieno di idee, di grandi attori, di voglia di raccontare attraverso linguaggi nuovi. È un’ulteriore lodevole dimostrazione della volontà di Tucker film di tracciare coordinate nuove nel cinema italiano e la conferma che anche in Italia si possono trovare storie originali e interessanti.
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