sabato 2 settembre 2023

Oppenheimer: la nostra recensione del nuovo colossal cinematografico di Christopher Nolan, sulla vita dell’uomo che ha portato alla creazione della bomba atomica

 


I nazisti avevano 18 mesi di vantaggio, ma forse erano solo 15. La guerra si era protratta oltre il dovuto e serviva qualcosa di estremo per porle finalmente termine con una svolta: qualcosa di eclatante, un castigo spietato, un’immagine biblica dell’apocalisse tipo una enorme colonna di fuoco e di zolfo, in grado di separare cielo e terra. Dopo la creazione dei più moderni carri armati, i sottomarini, i gas nervini e le fortezze volanti b-52 era di nuovo compito degli scienziati e degli ingegneri combattere la guerra con le loro menti, confezionando un’arma finale. L’arma così definitiva che avrebbe posto fine a tutte le guerre presenti e future, perché nessuno abbastanza sano di mente avrebbe osato o potuto utilizzarla con il pericolo di distruggere il mondo. Almeno, questo era quanto pensava in positivo uno scienziato negli anni '40 del novecento, e quanto invece fatica ancora oggi a comprendere un politico nel 2023. 

Il giovane Oppenheimer (Chillian Murphy) non eccelleva in nessun campo specifico della scienza, ma ne padroneggiava il linguaggio in ognuna delle sue mille sfumature. Era il perfetto organizzatore di eventi e summit tra cervelloni, l’uomo che sapeva dialogare con le eccentricità dei veri geni e uno che aveva la spavalderia e l’incoscienza di “metterci la faccia” quando un progetto andava male, arrivavano i ritardi, i fallimenti e piovevano le critiche da chi della scienza non capiva nulla ma ci metteva i soldi. Sguardo assonnato ma di ghiaccio, un corpo segaligno e curvo quanto imponente, dai modi gentilmente supponenti. Non bello ma sicuro di sè, elegante e altero, un po’ libertino quanto assolutamente incurante/indifferente della pericolosità di esserlo come di avere amici comunisti, pur in un periodo in cui Stati Uniti e Russia erano alleati contro l’Asse. Oppenheimer era il Mozart della scienza e avrebbe compiuto il miracolo biblico. Avrebbe costruito nel deserto una città della scienza con il sinistro nome di Nuova Alamo. Avrebbe portato lì le migliori menti al mondo non ancora sotto l’influenza dei tedeschi, costruendo per loro case, bar ed edifici che potessero accogliere anche le loro famiglie. Il tutto per cullare i suoi colleghi e permettergli di dialogare tra loro solo con numeri ed equazioni.  Avrebbe parlato lui direttamente con i militari (un composto e istituzionale Matt Damon)  senza turbare nessun altro e consegnando la scoperta nei tempi previsti, in elegante pacchetto sigillato, giusto dopo uno spettacolare test nel deserto in cui il potere dell’atomo avrebbe per sempre sconvolto il corso della storia portando un piccolo nuovo sole a splendere per pochi minuti. Festa, pacche sulle spalle, alcol e la sottile sensazione che dare quella roba ai miliari forse non avrebbe portato la pace del mondo. Poi solo la fama. Ma come ogni Mozart (almeno come la pellicola omonima insegna, che è pur diversa dalla realtà storica) anche lui aveva un personale “Salieri”. Un politico, chiamiamolo il “politico xy” (Robert Downey Jr). Xy ci teneva tantissimo che il suo nome e il suo contributo logistico/economico/teorico allo sviluppo della bomba atomica comparisse dappertutto, specie sulle riviste che mettevano in copertina Oppenheimer. Solo che a Xy, come a molti politici del resto, mancava una chiara visione del futuro e della scienza diversa da un mondo diviso solo tra vincitori e vinti, potenti e gregari. Oppenheimer era un gregario e doveva essere dimenticato dalla storia, anche perché a XY aveva fatto lo sgarro di non considerarsi un suo subordinato, gli aveva rubato la giusta fama. Un uomo di scienza piuttosto ombroso, che quasi fa fatica a relazionarsi con gli altri se non in termini matematici, che ingenuamente aspira a un futuro dove la scienza possa diventare un linguaggio universale, in grado di porre fine a tutte le guerre. Uno scienziato contro un affabile e ridente Xy qualunque, in grado di usare senza rimorso e contro chiunque anche l’arma più letale e subdola, pur di prevalere sugli altri per ogni piccola o grande guerra. Xy lo teme e, soppesando ogni silenzio e parola pronunciata a mezza bocca, lo spia con le registrazioni, cercando di scoprire nevroticamente “se parla male di lui”. Nel dubbio insoddisfacente, lo accusa in tribunale di umane miserie insignificanti per lo scienziato (ma terribili sotto la legge McCarthy), come l’aver conosciuto una comunista e avergli forse parlato, per lo più all’interno delle pratiche ginniche di una relazione quasi del tutto sessuale, spesso fedifraghe, di segreti militari. L’uomo che ha cambiato il mondo con una esplosione che si sarebbe sentita e vista dallo spazio, poteva forse essere distrutto da un uomo ossessionato dai sussurri e dal proprio, implacabile, senso di inferiorità? Sarà gusto e buono per l’umanità che l’arma creata dagli scienziati per porre fine a tutte le guerre possa finire un giorno nelle mani di piccoli uomini, tanto insicuri da poter ragionare seriamente di utilizzarla di nuovo?


“Dateci la bomba (cinematografica)”. È un po’ questo il mantra che da tempo sollecita le attese di un pubblico sempre più avvizzito a film prevedibili, preconfezionati e in genere al palato poco gustosi, appiccicaticci e tutti uguali. Nolan invece sa tirare fuori da ogni sua opera sempre qualcosa di nuovo, originale, unico e per questo agognato. Un uso grandioso quanto feticistico di formati video così avanzati che tuttora possono rendere al meglio in poche sale al mondo. La scelta di temi universali da affrontare sempre in modo non convenzionale attraverso montagne di dati, consulenze, idee innovative. Una forma di cinema fatto di attese, esplosioni visive e sonore e grandi capovolgenti di trama che impatta sui sensi dello spettatore, lo confonde e sorprende. Ormai è passato un anno da quando Christopher Nolan annunciava con un primo trailer l’arrivo di questo film, una nuova pellicola che sarebbe stata girata interamente nel sontuoso formato IMax 70mm e con il top di gamma del surround, con un cast stellare e scenografie accuratamente quanto maniacalmente ricostruite marrone per mattone, con il massimo di fedeltà possibile. Non sappiamo se Nolan abbia fatto ricreare una vera piccola bomba atomica sul set per girarne l’esplosione dal vivo ma l’intenzione c’era tutta, insieme al fascino di ricreare con il potere del cinema il più sinistro e seducente spettacolo di distruzione della storia, da servirci in prima fila con i popcorn. Assistiamo alla creazione di una città nel deserto, guardiamo i primi pezzi del “mostro” prendere vita nei laboratori dei vari scienziati alla Frankenstein con occhiali scuri e camice bianco, vediamo costruire una “torre di Babele” e dargli così energia. Poi la creatura si sveglia. Un rombo cupo quanto inesorabile nel diventare sempre più ampio, in grado di far tremare gli spettatori sotto le sedie. Una luce intensa, “maligna” e affascinante, sospesa come una eclissi. Dura un attimo che è infinito, è il culmine di tutto un film fatto di attese, dibattiti forbiti, grafici ed esperimenti, giochi di potere e uomini costretti a vivere in circostanze più grandi di loro al punto da immaginarsi, da anziani e con terrore, come distruttori di mondi. L’arma prende vita dai tanti novelli Prometeo capitanati dal cupo Oppenheimer, animato da un Cillian Murphy con uno sguardo alla Boris Karloff, mai visto in un ruolo così complicato, respingente, umanamente ambiguo e alieno. C’è il rombo, la luce e poi, nell’estasi che avvolge l’ambiente e i personaggi, arriva quello che sembra un sabba, le baccanti o quasi la festa per l’arrivo di una divinità Lovecraftiana alla Chtulhu. Un rito pagano in cui tra gli effluvi e l’eccitazione i sogni diventano incubi e viceversa. Nolan ci ha preparato, ci ha detto che è stato tutto storicamente e scientificamente “vero” e poi ce lo ha sparato nelle retine e nei timpani, insieme al caos che ne consegue. Qui essere nella sala giusta fa tutto, se volete davvero “avere la bomba”. Se riuscite, cercate per una visione adeguata lo schermo cinematografico più impressionante che potete trovare, come la sala Energia del cinema Arcadia di Melzo. Lo spettacolo è nel suo climax lì, in quell’IMax, racchiuso in quei minuti che trasformano la sala in un tempio alla Stonehenge da cui assistere a questo strano fenomeno cosmico/scientifico, plasmato da storia, scienza ed effetti speciali. È un momento intenso, lungo e appagante che racchiude tutta la cinematografia e poetica del regista, ma è anche lo spartiacque tra le altre due anime della pellicola di Nolan. La prima, fatta solo del rumore di gessetti che stridono su lavagne piene di calcoli, sulle quali in un linguaggio tutto loro, ai più alieno ma visivamente “coerente”, dialogano gli scienziati di tutto il mondo, superando le lingue e le ideologie: per la pace. La seconda anima del film, caratterizzata dal rumore di porte che si aprono e si richiudono nelle stanze dove si tiene un processo gestito dai burocrati. Troppo riservato per essere comprensibile, troppo delicato per essere anche “umano”, dove ogni forma di chiarezza nella comunicazione è bandita, troncata e ostacolata.  


Una struttura narrativa, sonora e visiva se vogliamo rigida, distinta in tre atti, che conferma ancora una volta la passione e ossessione del regista per gli schemi precisi, le procedure, i calcoli e i simboli. Quasi tre film a se stanti. Un film sulla scienza e gli scienziati con echi anche stilistici, nella rappresentazione dei processi logico-scientifici, vicini a opere come A Beautiful Mind e Hidden Figures. Una lunga, grande “esplosione Nolaniana”, potente e psichedelica come il buco nero di Interstellar o la guerra a tempo invertito di Tenet. Un film di stampo quasi giudiziario, kafkiano, zeppo di labirinti morali ma soprattutto giuridici e procedurali, liturgicamente alla Grisham ma con echi anche al bellissimo e semi sconosciuto film con Jim Carrey The Majestic. In ogni campo, dallo storico allo scientifico al giuridico,  il grado di documentazione risulta imponente, certosino e appassionato, ma dove come sempre “aspettiamo” Nolan nelle sue opere con più curiosità, è nel frangente nell’insieme più interessante quanto controverso del suo cinema: la descrizione del mondo interiore dei suoi personaggi. Nolan è spesso in grado, anche grazie ai meravigliosi interpreti di cui dispone, di tratteggiare personaggi bellissimi, a volte indimenticabili come il Joker di Heath Ledger. Molte volte accade invece, anche per peculiarità della scrittura narrativa, di trovare nei suoi film personaggio “più teorici che pratici”. Figure volutamente tenute fuori fuoco, a volte “esecutori anonimi di un percorso narrativo”, presenti ma utili ingranaggi e poco più. Spesso ci vengono detti i loro nomi, ascoltiamo da loro un paio di battute e poi il vediamo “scomparire sullo sfondo”, quando ancora non sappiamo molto altro di loro nella storia al di là dell’aspetto fisico. Questo accade anche in Oppenheimer e non ci permette di cogliere a pieno molte delle relazioni umane che legano i moltissimi “personaggi nell’ombra” sullo schermo, ma effettivamente per raccontare nel dettaglio gli eventi e personaggi che hanno portato alla creazione della bomba atomica sarebbe servito più tempo della prima “oretta e mezzo” del film. Serviva magari una mini-serie, magari un libro come Bomba Atomica di Roberto Mercadini, molto bello e che consiglio senza remore a chiunque fosse interessato all’argomento. Di fatto, affinando lo sguardo, scopriamo che in Oppenheimer è quasi una prerogativa propria del protagonista mettere fuori fuoco gli altri personaggi. Oppenheimer è un personaggio che vive di schemi e visioni matematiche, per lo più alieno nella gestione delle relazioni sociali: parla con i numeri e i calcoli e si emoziona solo a raccontare ciò che conosce professionalmente. Ne fanno le spese i personaggi che cercano di essergli amici al di là del “ruolo”, ma soprattutto i personaggi femminili interpretati da Emily Blunt e Florence Pugh, verso le quali, nonostante momenti carichi di passione e tensione, si assiste a una distanza emotiva quasi siderale. Una distanza che si tramuta per le donne in frustrazione, rabbia e malinconia che le interpreti dovranno scontare ai margini della scena, tra gli altri “personaggi nell’ombra”. Funzionano molto meglio, anche se può sembrare un eufemismo, i rapporti su schermo con quello che in qualche modo diviene l’antagonista, il personaggio di Robert Downey Jr. È un personaggio presente fin dai primi minuti della pellicola ma che dall’ombra reclama sempre più spazio, fino a che lo ottiene con la forza e si impone, quasi da protagonista. In The Prestige e Tenet, Nolan ha dimostrato di essere particolarmente attento e originale nel raccontare il “punto di vista” di due personaggi che diventano nel corso dell’opera “principali” quanto paritari. Scopriamo quindi che c’è un film ulteriore “dentro il film”, tutto basato sui “rapporti umani” tra lo scienziato e il politico che scorre all’inizio “quasi di nascosto” tra i tre grandi momenti che edificano la pellicola. Un film che si caratterizza anche per l’uso estetico del bianco e nero. Alla prima visione lo spettatore potrebbe quasi non farci caso (se non verso la fine), relegando questa scelta artistica all’uso comune del bianco e nero, che in molte pellicole storiche è volto a sottolineare una particolare accuratezza rispetto alle fonti originali, in scene che magari integrano autentici filmati di repertorio. In realtà la logica del bianco e nero in Oppenheimer riguarda il punto di vista “emotivo” del personaggio di Robert Downey Jr e i momenti in cui la pellicola lo riconosce “protagonista”. Il mondo del personaggio di Cillian Murphy è dominato dal colore e dai colori “nuovi” della bomba: esplosioni di colore quasi psichedelico. Il mondo di Robert Downey Jr è solo bianco o nero, con le stesse scene che Murphy vive in prima persona in modo coloratissimo che sono per lui (perché Nolan ce le mostra in certi casi direttamente “due volte”) con una gamma cromatica ed “emotiva” più spenta, più a tinte nette, come se contassero solo luce e buio, vittoria o sconfitta, potere e assenza di potere. È un bianco e nero che nella parte giudiziaria spesso fagocita il colore, quasi a raccontare un film con un fuoco davvero diverso, come se la creazione dell’ordigno di fatto nella storia ha cambiato i giochi e i protagonisti. È un film giudiziario dove si respira il clima storico del “maccartismo”, il momento in cui l’America temeva più di ogni cosa la possibilità di infiltrazioni comuniste nella sua società, al punto da scatenare un'autentica e costante caccia alla spia e alle streghe. Il sempre simpatico 


Robert Downey Jr porta in scena un personaggio esplicitamente “doppio” e livoroso, condannato a indossare un perenne sorriso che sembra sostenere con un enorme sforzo muscolare, mentre con gli occhi profondi e cattivi vorrebbe incenerire chiunque. Un uomo carico di pesanti sovrastrutture sociali, per lui indispensabili per sopravvivere, che naturalmente non può che provare invidia per il personaggio/alieno di Cillian Murphy, una creatura che procede in pieno sfregio delle maschere sociali quanto delle relazioni in genere, inseguendo linguaggi matematici universali e visioni psichedeliche. Un nemico ideale da coinvolgere nella “caccia alla spia”, con la consapevolezza di avere tantissime possibilità di metterlo con le spalle al muro per via dell’indole stravagante e il carattere non accomodante. Certo non siamo in Amadeus di Milos Forman, Murphy non è il personaggio di Tom Hulce e Downey Jr non è il personaggio di F.Murray Abraham, ma la dinamica è simile, come simile è l’incomunicabile livore che li lega. Murphy e Downey Jr si osservano, anche con note a tratti umoristiche (la scena della conferenza), come appartenenti a due specie diverse, creature inconciliabili per natura per le quali provare reciprocamente un sano disinteresse, salvo che i casi della vita li hanno messi uno contro l’altro, come “ostacoli all’ego”. Quella che va a disegnarti progressivamente è una lotta con dei risvolti emotivi sorprendenti per entrambi i personaggi, dove gli attori dimostrano di aver compiuto un enorme lavoro per far emergere un lato umano spesso combattivamente nascosto o cinicamente represso. 


Abbiamo così film sulla scienza che assurge quasi a linguaggio del futuro, un film sulla costruzione ed esplosione della bomba in nome della pace, un film sulla politica e sul suo costante bisogno di trovare e gestire nuovi nemici che un tempo erano vecchi amici. Tre film che convergono in un film ulteriore, più intimo ma in fondo centrale a tutti e tre: sull’ego. L’ego anche di Nolan, che ha spinto il regista alla costruzione di questa autentica bomba atomica cinematografica, dai molti colori e le molte anime. Un'ambizione creativa che da sempre ci attira a vedere con interesse le opere successive del regista britannico, anche dopo aver assistito a questo imponente e colossale ottimo film.  

Oppenheimer non è un film perfetto nel modo in cui spesso porta nell’ombra molti personaggi, ma è un film potente, un film che se vissuto nella sala adeguata può immergerci in uno spettacolo narrativo e pirotecnico senza eguali. È un film per il quale è ancora bello andare al cinema. 

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