C’erano una volta, in un medioevo
fantastico, tetro ma inspiegabilmente coloratissimo, quasi uscito da un
libro di favole oscure, un cavaliere di nome Arthur e la principessa
PrinPrin. Un pomeriggio cambiò tutto. Vivevano felici e innamorati, facevano un
picnic nel bosco e forse stavano per fare qualcosa di più, perché Arthur stava
sul prato già “vestito dei suoi soli mutandoni”, bianchi a fragoline (c’è chi
dice “a cuoricini”, ma è qualcuno che non conosce la Storia). Sarebbe stato
scortese non esibirli, in fondo, perché erano un regalo della
principessa. Poi di colpo, e non sarà più tardi di mezzogiorno, tutto si
fa buio, appare un diavolo in cielo e PrinPrin viene rapita con una drammatica
colonna sonora di sottofondo, tipo film horror. Arthur, il nostro eroe in
mutandoni a fragoline, indossa l’armatura scintillante d’argento in nome
dell’amore (sperando di togliersela al più presto a impresa finita, sempre in
nome dell’amore) e parte all’inseguimento. Direzione: il villaggio dei demoni.
Da fare tutto a piedi, che i cavalli non ci vogliono entrare. Dal
cimitero degli zombie ai boschi ventosi dei cavalieri e dei suini fantasma.
Dalle diroccate strade di periferia del porto degli orchi-marinai tatuati e
“vomitanti” alla città dei piccoli goblin/zanzare di ghiaccio, fin giù fino al
castello sotterraneo e alla sua bella PrinPrin, non prima di affrontare il
diavolo rapitore. Un viaggio durissimo, fatto di mille battaglie e di
implacabili nemici “ricorrenti”, persino più forti, veloci ed astuti di
Arthur, come il gargoyle, gli oni salterini e il fetente drago violetto.
Un’impresa costellata di trappole a “tagliola”, bauli pieni di armi brutte e
inutili come la fiamma blu (in luogo delle “armi belle” come i pugnali),
maghi che ti trasformano in rana, piattaforme mobili su cui saltare sopra senza
riuscirci. Insomma, tensione ed eroismo fino alla fine, al livello 6, davanti a
quello che sembra il nemico finale, quando si scopre che è solo “un’illusione”
e per battere il nemico “vero per davvero” bisogna in realtà ripartire
dall’inizio, dal primo livello. Rifare tutta l’avventura con tutte le sue
insidie, per poter sconfiggere l’ultimo avversario con l’arma definitiva e più
segreta: la croce/scudo a secondo della censura internazionale). Arma che è
forte ma non fortissima, quasi un pacco quindi, ma che ce la dobbiamo tenere.
Perché se la si perde all’ultimo instante, tipo finendo in una trappola per poi
“causalmente rimbalzare” proprio una fiamma blu (cosa che può accadere con una
facilità che non vi dico), non si può più sconfiggere il boss e tutto è da
ripetere. All’infinito. Un tempo infinito che nel 1985, anno del signore in cui
è uscito nel globo Makaimura (lett. “Il villaggio dei demoni”), in
Occidente conosciuto come Ghosts’n’Goblins, significava stare nottetempo in una
fumosa sala giochi a inserire gettoni. Niente cinema, scuola, parenti, morose:
sempre in sala giochi. Felici. Con Arthur (e noi stessi giocatori,
freudianamente) che appena colpito da un nemico perdeva l’armatura e rimaneva
in boxer a fragoline, al pubblico ludibrio dei frequentatori della sala giochi
che ridevano e gufavano, prossimo a capitolare al successivo colpo.
Uno schema di gioco semplicissimo, a
scorrimento orizzontale, da sinistra a destra, un po’ platform e un po’
sparacchino. Un “run’n’gun” della stirpe dei Contra, Metal Slug, Cuphead. Pochi
comandi, chiarissimi e responsivi, tantissima difficoltà. Due colpi e muori,
armi che colpiscono lente e sbilenche, un salto ridicolo e autolesionista,
trappole ovunque, nemici moooolto più letali e veloci di noi. Un martirio, ma
da cui è difficile staccarsi, come direbbero oggi gli avventori delle opere
From Software di Mikami. Bella, bellissima ed evocativa la parte audio ad opera
di Akayo Mori, dalle influenze ultra-classiche, quasi concertistiche. Tutto programmato senza un intoppo, scorrevole e pulito, da Toshio Arima. Tanto
dolore, ma anche tanta gloria quando l’impresa riusciva, ma pure la sola
contentezza di guardare un gioco visivamente incantevole. Così finivi per inserire
una monetina dietro l’altra nel cabinato. Tanta gioia pure a sfottere chi
giocava, perché era evidente che il gioco, parto malato di uno dei
massimi guru del Game design, Tokuro Fujiwara, un po’ ispirandosi al
medioevo dantesco ma soprattutto ai Monty Python, voleva sadicamente farci
scherzare sul senso della vita “più fico”, ossia quelle o più strettamente
ironico, più che metafisico.
Catarticamente, Makaimura offriva enormi soddisfazioni, dopo un adeguato apprendimento. Ma ti faceva pure ridere quando perdevi una o due milioni di volte. Così al primo ostacolo irragionevole ti incazzavi, al secondo bestemmiavi, al terzo iniziavi le fasi della Kubler-Ross sulla gestione del dolore, ma alla fine, se sopravvivevi, era tuo il senso finale della vita, videoludica o meno. Da eroe baffuto e traballante presto ridevi del dolore e della sconfitta, per infine sapere che prima o poi ti saresti tolto l’armatura, dopo il mostro finale, per tornare a mostrarti a PrinPrin (il cui nome onomatopeico potremmo tradurre come “Palpatina”, al pari del Puf Puf reso leggendario da Dragon Quest di Enix) in mutandoni a cuoricini. Per riprendere quel discorso iniziale di cui sopra. Eros e Thanatos, tanta ironia e tante mazzate. Un po’ come nella poetica boccaccesca dei Python (quella del “piedone che schiaccia il mondo” di Terry Gilliam), un po’ come nell’estetica dantesca di Go Nagai (il mostro finale, con più “facce sul corpo” stile Generale Nero, ha letteralmente il membro che spara fiamme). Per vincere il gioco e quindi “non farsi vincere da lui”, bisognava prenderlo con sana gioia/follia e amarlo. Soprattutto quando malignamente il gioco ti “irrideva”, e non ce la facevi a ridere “con lui”, nasceva piano piano nel videogiocatore quel dolore-vigile (alimentato da gioia ancestrale e inspiegabile) che anima lo “Sgurtz”. Lo Sgurtz per i non addetti ai lavori è quel concetto comico-filosofico ancestrale nato da Riondino/Gino/Michele (vi consiglio per una lezione sullo Sgurtz la visione del classico Kamikazen di Gabriele Salvatores). Tanta roba lo Sgurtz, ci si possono scalare le montagne se riusciamo a esserne pieni. Finire Ghosts’n’Goblins ti dava l’energia per iniziare una spedizione in solitaria al circolo polare artico. Certo nessuno sapeva di questo effetto e per questo il circolo polare è tutt’oggi poco abitato, Ghosts’n’Goblins era una perfetta macchina da Sgurtz. Correva il 1985, l’anno di Gradius, Super Mario, Space Harrier e Commando. Il videogioco Commando non era un tie-in del Commando cinematografico con Schwarzenegger, ma quell’ombra deve aver in qualche modo influito parecchio sulle vendite, al punto che di colpo la casa di Makaimura mise un po’ da parte il personaggio del buon Arthur (in fondo tornerà in sala con Ghouls’n’Ghosts e “in parte”, piuttosto apocrifo, in Knights of The round) per creare come protagonisti di videogame epigoni videoludici di Schwarzenegger, per lo più disegnati dal grande Akira “Akiman“ Yasuda. Come in Black Tiger, Magic Sword, Forgotten Worlds, il seguito di Commando "Mercs", Captain Commando, Alien vs Predator (Dutch). Ma questa è un’altra storia, una storia nerboruta, reaganiana e testosteronica che non ha impedito ad Arthur nel 1988, con il Cps2, il motore operativo di Capcom dell’era d’oro (quella di Street Fighters II) di tornare in sala con Dai-Makaimura, ossia Ghouls’n’Ghosts in Occidente. Ed era tutto più bello e in meglio, tutto “epico”. “Wow totale”. La storia di Makaimura finiva bene nel 1985, con un “e vissero felici e contenti e in boxer” e partiva male nel 1988, senza picnic e senza boxer, tre anni dopo esatti. Arthur era lontano dal castello quando i mostri attaccano in massa, e riusciva a vedere Prinprin solo un istante prima che questa venisse colpita a morte da un raggio laser lanciato da un demone. E come novello Orfeo ora Arthur di nuovo andava all’inferno, nella speranza di salvare dalla morte la sua bella, passando questa volta per il più spietato e popolato “Villaggio dei “super” demoni”. E’ ancora a piedi, ma ha più armi e addirittura può ora entrare in possesso di una armatura dorata in grado di sprigionare incredibili incantesimi. Inoltre si muove più atleticamente, cosa che non è male, anche se rimane lento e salta ancora in modo casuale e irritante. Il viaggio parte di nuovo da un cimitero ma questa volta è più cupo, un luogo di esecuzioni capitali pieno di cadaveri crocifissi e inchiodati, ghigliottine, montagne di teschi, cripte. Ad affrontare il nostro eroe, in una notte di tuoni e fulmini, si parano tante piccole “morti con falce” (mancando nel cimitero gli zombie, possono essere loro ad aver mangiato i corpi, quindi a essere per la tradizione i ghouls, come da titolo occidentale del gioco), radici animate come artigli, avvoltoi e sinistri uomini-maiale armati di grandi forchette. Tra una schivata e l’altra l’eroe riesce a giungere a un temibile orco verde in armatura, che si stacca la testa e sputa fiamme. Si prosegue per una città derelitta e abbandonata con i mulini a vento che ancora si muovono e i granai che diventano sabbie mobili, mentre tartarughe con la corazza dal volto umano e insetti giganti scorrazzano intorno. Tutto prende fuoco come se dal cielo stesso piovessero fiamme e si arriva al cospetto di cerbero. Si sale verso una torre infinita, fino al cielo, dove l’eroe può muoversi tra le nuvole calpestando lingue di demone che si allungano sul vuoto in cerca di cibo. Sconfitta una nuvola con al centro un occhio sinistro, il viaggio prosegue all’interno di corpi decomposti di antiche creature uscite quasi da un quadro di Gustave Dore’, tra spine e succhi gastrici, arrivando alle tane verdeggianti di insetti giganti quanto di Omu di Nausicaa. Poi si giunge al castello, al confronto finale e allo stesso brutto trucco del primo gioco, architettatoci dal sempre sadico Fujiwara. Per battere il boss serve una nuova arma finale, che questa volta è una specie di raggio bianco e per averlo tocca un nuovo giro completo del villaggio dei demoni dal primo livello. Tutto come sempre è condito con spunti visivi ironici, trappole sadico-umoristiche, la colonna sonora tra l’epico e “la famiglia Addams”. Per un ragazzino del 1988 sembra quasi un cartone animato. La saga continuerà per anni dopo quel magico secondo episodio da sala giochi e troverà un terzo degno capitolo “principale” per Super Nintendo, qualche metroidvania per Gameboy, un brutto capitolo per PSP, interessanti spin-off per Ps2 e finalmente, 35 anni dopo, questo Ghosts’n’Goblins Resurrection, che è a tutti gli effetti un refresh di Makaimura e Dai-Makaimura, con tutti i loro mostri e livelli, condito con qualche elemento ruolistico di contorno e la stessa formula di run’n’gun di quei primi titoli. E c’è ancora Fujiwara dietro al Game design. Se volete giocare i primi 2 classici e non lo avete ancora fatto, potete farlo oggi su tutte le console e pc con la raccolta Capcom Arcade Stadium, perché qui l’approccio è diverso, anche se per me non meno accattivante. La grafica di Resurrection sceglie un approccio più “pittorico” anche se “schiacciato sulle due dimensioni”. Un po’ come i giochi flash, ma dalla architettura avanzata e con tanta classe estetica, che può piacere o non piacere, che lo rende simile a un libro pop up di favole in movimento. Resurrection ha poi la stessa immensa colonna sonora, la stessa crudelissima struttura try and error. Il motore di gioco è il nuovo Resident Evil Engine di Capcom e c’è da dire che fa il suo dovere.
I livelli di sfida architettati da
Fujiwara sono quattro e permettono di affrontare il gioco in una maniera meno
“verticale”, imparando piano piano a giocarci prima di “impazzire”. Si va da un
livello “paggio” con pochi nemici, punti di resurrezione automatici e
l’armatura che si scompone in 5 progressivi punti-ferita, fino al livello
“leggenda” in cui una moltitudine smodata di mostri ci ridurranno ”in mutandoni“
in un colpo solo, i save Point saranno solo a inizio e metà livello. Molto
bella la modalità co-op a due giocatori, che permette di usare degli spiritelli
in grado di facilitare ad Arthur i movimenti, costruendo piattaforme dal nulla
o portandolo in volo tenendolo per le spalle.
La saga di Ghosts’n’Goblins ce l’ho nel
sangue. Non riesco ad essere abbastanza razionale sul tema, salvo ammettere
candidamente che Ultimate Ghosts’n’Goblins per PsP lo avevo trovato bruttissimo
fin dal primo approccio grafico in grafica 3d cialtrona, passando ai comandi
ultra-legnosi. Per il resto... Quando avevo 9 anni il primo Ghosts’n’Goblins
era già con me, a torturarmi, in tutta la sua bellezza e fascino. Stava presso
il bar di un residence di Madonna di Campiglio dove trascorrevo le vacanze con
i miei genitori. Non sono mai riuscito a comprarmi un gelato a quel bar in due
settimane, perché mettevo dentro al cabinato tutte le monetine che mi davano
per la merenda. Ero diventato magrissimo. Non passavo il secondo quadro,
anche perché i comandi del cabinato erano imprecisi in quanto semi-disintegrati a testate da giocatori iracondi, ma era la cosa più
elettrizzante del mondo. Il gioco più bello del mondo. Quando avevo 11 anni il
seguito di quello storico era presente in ogni sala giochi del creato, perfino
in quelle più scalcinate. Lo trovai anche in un cabinato del bar
del college nella mia prima vacanza-studio in Inghilterra. Ci buttai in un mese
non so quante monetine destinate alla merenda. Ero di nuovo magrissimo. Non
passavo il secondo livello (era in effetti più facile...), in quanto il
cabinato era stato preso pure lui a forti testate, con il joystick che viveva
di anima propria e con la levetta puntava perennemente a destra. Ma era
bellissimo. Quando facevo il liceo, e già con l’Amiga ero abituato a giochi con
grafica spettacolare come Shadow of The Beast, Super Ghouls’n’Ghosts per Super
Nintendo mi ipnotizzò in un centro commerciale cittadino, nella mattina di una
giornata sospesa per sciopero (c’era in ballo la costruzione di una discarica
non eco-sostenibile e Greta Thunberg già spiritualmente era presente nei nostri
cuori adolescenti). Il gioco era ingiocabile perché gli avventori del centro
commerciale avevano spaccato il joypad a testate, ma era una storia che non mi
sorprendeva più. Non dovendo inserire monetine fui anche in grado quel giorno
di comprarmi una pizzetta surgelata al bar del centro commerciale, una di
quelle che erano pre-riscaldate e inguainate per la conservazione in una
plastica oleosa che conferiva al tutto un gusto “conservante/plastico/vintage“,
ora non più riproducibile nel mondo di reale. Sapevano un po’ di VHS. Chi le ha
provate sa di cosa parlo, ma sto divagando. Finalmente, dopo pochi mesi dalla
pizzetta oleosa-plasticosa, quel gioco sbalorditivo divenne mio. In una
cartuccia giapponese, dopo avermi spinto a vendere il Megadrive (che aveva
bellissimi titoli ma difficili da reperire, specie a prezzi umani) per un
gloriosissimo Super Nes americano con convertitore internazionale (che
incredibilmente a Milano permetteva in certi negozi di avere una copertura di
titoli maggiore). Ci giocai allo sfinimento e lo terminai mille volte. Il fatto
di usare dei comandi non sputtanati da qualcun altro aveva il suo perché. La
grafica più bella del mondo e i comandi migliori del mondo. Le precedenti
conversioni dei capitoli 1 e 2 per le macchine domestiche cui avevo giocato,
nella specie sul mio vecchio Amiga 500, ossia Ghosts’n’Goblins di Gremlin e
Ghouls’n’Ghosts di U.S.Gold, non riuscivano minimamente a rivaleggiare
con le macchine da sala giochi (come il 99% dei titoli Amiga) soprattutto per
la responsività ai comandi. Poi c’erano Team che non sapevano spremere al
meglio l’Amiga pure a livello grafico basico, come la U.S.Gold appunto, ma era
il problema minore. Super Ghouls’n’Ghosts per Super Nes era come un piccolo
cabinato da sala giochi ed era poesia autentica, magia grafica, sfida possibile
e tutto a casa mia. Quando lo Snes non funzionò più, recuperai la trilogia di
Ghosts’n’Goblins in una raccolta per la prima Playstation (Capcom
Classics). Iniziai a finire a manetta anche i primi due titoli, anche se il
primissimo è tutt'oggi bello duro e infame. Non soddisfatto, presi la saga anche
in una successiva raccolta per PlayStation 2 (Capcom Arcade vol.1) insieme ad
altri classici titoli Capcom. Non soddisfatto, secoli dopo, un paio di anni fa,
presi un mini Super Nintendo, da tenere sempre a portata di mano, collegato con
una Usb, sostanzialmente sempre e solo per giocare a Super Ghouls’n’Ghosts.
Quest’anno è uscita una nuova raccolta di classici Capcom (Capcom Arcade
Stadium) con i primi due capitoli e a breve distanza di tempo è uscito pure
questo nuovo fiammante capitolo.
Che sto amando alla follia.
Inutile girarci intorno, Ghosts’n’Goblins Resurrection non è un titolo per tutti, nonostante le migliorie al sistema di difficoltà, il co-op molto originale, la grafica un po’ strana (ma che se “vi prende bene” sa essere gradevolissima). È “quel gioco lì, di 35 anni fa”, con tutti i suoi pregi e difetti visibili a seconda dei vostri “occhi del cuore” (Boris/Elio e le storie tese cit.). Ho letto e visto commenti online di molte persone a cui non è piaciuto per niente, anche tra alcuni nostalgici di ferro, pertanto su Metacritic è intorno al 70 su 100 nelle valutazioni e probabilmente non ci saranno significativi ripensamenti nei mesi a venire. Ma se siete degli “spolpatori” di Ghosts’n’Goblins, che tutt'ora giocate alla sala dopo 35 anni, adirandovi a ogni trappola e saltando esultanti quando si abbatte il boss, finisce il quadro e Arthur prende al volo (nice catch!!) la chiave che apre il nuovo livello... beh, un pensiero dovete farcelo. Diventa una pressione infinita rimandare a lungo questa avventura o peggio ancora “saltarla”. Perché ci sono davvero tutti i mostri e i livelli. Qualcosa è re-impostato ma il mondo di gioco è tutto lì, comprese alcune cose sfiziose di Super Ghouls’n’Ghosts (tranne il doppio salto, purtroppo). La crudeltà smodata è lì insieme con il godimento per ogni sfida vinta. Il Resident Evil Engine funziona molto bene, ricrea l’esatta velocità di gioco dei primi due capitoli, anche se ogni tanto c’è un effetto di “scivolamento” si riesce presto a farci l’occhio e sostanzialmente a passarci sopra. La musica è da sentire in cuffia, a tutto volume, una bellezza autentica. Non è in niente un videogame “moderno”. Troppo corto, troppo tedioso, troppo essenziale, poco social. Anche gli indie game dal sapore “Vintage”, quelli che vogliono far rivivere i traumi infantili del Megaman a 8 bit, sono più malleabili nell’asprezza dei comandi. Fujiwara è un design sadico che vuole che i giocatori soffrano le pene dell’inferno. O prendere o lasciare. Visivamente non è un Cuphead o un titolo Vanillaware, sta più dalle parti di Black Knight Sword di Suda 51, magari ha un po’ dell’appeal di un Puppeteer di Sony per Ps3. Deve piacere. A me piace moltissimo, ma ammetto che ho intorno gente che mi guarda male per questo. Gente che mi fa pure un po’ incazzare per la sufficienza con cui lo guarda due secondi e poi dice che è brutto. Ma il mondo è così. E questo è un po’ tutto quello che volevo dirvi. Da assiduo giocatore di videogiochi del passato e di videogiochi moderni che seguono in qualche modo lo schema dei giochi del passato, Ghosts’n’Goblins Resurrection come prima di lui Super Ghouls’n’Ghosts, mi ha fatto tornare con la testa in una sala giochi fumosa di 35 anni fa, facendomi esaltare come un bambino. Cosa che non speravo minimamene dopo aver visto il primo trailer. Una piccola magia che forse può colpire qualche vecchio volpone come me e magari può affascinare delle giovani leve che vorranno avvicinarsi a questo strano libro-popup animato. Provatelo e fatemi sapere.
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