In tribunale, davanti al giudice, Lise (Melissa Guers) è una ragazza silenziosa. Risponde con monosillabe, guada nel
vuoto, nasconde segreti. Era l’amica più intima di Flora, forse qualcosa di
più, anche se ultimamente le due avevano litigato. Di sicuro Lise è stata
l’ultima a vedere Flora viva. Probabilmente è stata lei a ucciderla, perché
non ci sono altre piste o altri moventi.
Così, in attesa del verdetto, Lisa
è agli arresti domiciliari e porta un bracciale di sorveglianza sulla
caviglia, cercando tra un’udienza e l’altra di vivere la sua vita da sedicenne,
di innamorarsi, di colmare in qualche modo l’improvvisa e spietata assenza
della sua migliore amica.
Ma come si può credere e parteggiare per una persona che non parla, non si esprime, appare a tratti così incredibilmente
altera e antipatica. Il pubblico ministero (Anais Demoustier) non ha
alcun dubbio sulla colpevolezza, a rischio di apparire spietata e
insensibile.
Stephanie Demoustier che dirige è adatta
per lo schema la piece Acusada di Gonzalo Tobal, ha voluto Melissa Guers, una
attrice al suo esordio, come protagonista per il suo nuovo film. La scommessa
era puntare su un volto non ancora avvezzo a esprimere in modo “impostato” le
proprie emozioni, per dare forma a un personaggio affascinante quanto ambiguo,
misterioso. Una giovane donna che nella sua bellezza appare “strana” e
appariscente per un dettaglio, quel braccialetto sulla caviglia che per qualche
critico d’oltralpe ha permesso un paragone, illuminante con la protagonista del
quadro della Ragazza con l’orecchio di perla di Vermeer. Come spettatori
viviamo il tempo presente della vicenda, quello relativo al processo, seguendo
a distanza i personaggi, come in un documentario. Sbirciamo così, quasi
dal buco della serratura, i legami della ragazza con i suoi genitori (Roschdy
Zem e Chiara Mastroianni), con il fratello e con un nuovo ragazzo conosciuto
online. Viviamo con apprensione l’incedere inquisitorio delle domande del
pubblico ministero, i piccoli segni di fragilità di Lisa, i turbamenti di un
padre che non sa più se conosce davvero la ragazza che ha in casa, la rabbia
della madre della ragazza uccisa, le illazioni cattive dei compagni di classe (che ci richiamano alla cronaca recente, dove si fa un gran parlare del limite
percepito tra libertà sessuale e condizioni idonee per parlare di “stupro“, nei
rapporti tra adolescenti “consenzienti”). Quello che davvero da spettatori ci
turba, e non ci lascia anche una volta finito lo spettacolo, è la mancanza di
“una risposta”. Perché se arriva la risposta della “giustizia” insieme al
verdetto, alla fine del film, il “cinema” non ci ha questa volta regalato un
flashback chiarificatore, una prova decisiva, una “pistola fumante”, un dialogo
rivelatore. Solo piccoli gesti di Lisa da interpretare liberamente, forse per
qualcuno in grado di farci costruire enormi castelli mentali, forse per altri
del tutto ininfluenti. Indizi che ci riportano a quella singola immagine della
ragazza con il braccialetto, incatenando anche noi a quel suo stato sospeso
quanto “reale”, che frustra la nostra passione di fare i detective, separare il
bene dal male, sentirci “nel giusto”. Con questa immagine Demoustier riesce ad
allacciarci al cinema sociale migliore, quello dei fratelli Dardenne e che “ha
un piede nell’Italia degli anni '70 “ con le opere di Petri. Un cinema di volti
sotto accusa, spesso analizzati con fare da entomologo da quel pubblico che non
riesce ad accettare che la vita non sempre è “un giallo da risolvere“, anche se
viene raccontata in un film. È questo il buon cinema che attraverso la forza
dell’arte ci fa “dubitare” e forse ci permette di sviluppare così quella
competenza empatica, quel “sapersi mettere nei panni degli altri”, che oggi è
tanto raro e prezioso da trovare.
Molto bravi gli attori, davvero straordinaria la Guers. Glaciale e malinconica la messa in scena. Un buon ritmo e tanti dubbi che accompagneranno per un po’ gli spettatori alla fine della visione.
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