Ci troviamo nel presente, in un ameno e
assolato paesino minerario della provincia americana, “alla Stephen
King”, chiamato Summerville, dove il tempo sembra essere fermo agli anni ‘80.
Nonostante la zona non si trovi su una faglia, da anni si susseguono misteriosamente
dei mini-terremoti, ormai accettati di buon grado come qualcosa di normale.
Nella villa più decadente e spettrale di Summerville ha preso casa un uomo
eccentrico, dedito tutto il giorno a trafficare e scavare sul suo campo senza
che però cresca alcunché da anni. Poi una notte, dopo un gran lampo, quell’uomo
pazzo e solitario muore. Alcuni giorni dopo in quella casa spettrale arriva la
giovane madre Callie (Carrie Coon), insieme ai suoi figli Trevor (Finn
Wolfhard) e Phoebe (Mckenna Grace). Quell’uomo eccentrico era il padre di
Callie, ma di fatto non aveva mai avuto alcun rapporto con lei, abbandonandola
da piccola. L’idea sarebbe di andare via da quel posto il prima possibile, ma
travolta dai debiti la famigliola si trova costretta momentaneamente a
trasferirsi lì. La piccola Phoebe si becca la scuola estiva e le lezioni
dell’eccentrico professor Grooberson (un Paul Rudd che come insegnare
estivo fa vedere in classe in vhs Cujo, già per questo candidato a “miglior
insegnante cinematografico del 2021”), dove fa amicizia con un coetaneo
buffo e super esperto del paranormale che vuole essere chiamato “Podcast” (Logan Kim). Trevor trova invece lavoro nella tavola calda locale e forse riesce
a conquistare il cuore della bella collega Lucky (Celeste O’Connor). Tutto
sembra procedere normale e tranquillo, ruspante come in un film dei Goonies,
fino a che strane luci iniziano a illuminare il cielo notturno e la
misteriosa presenza ultraterrena che vive nella villa porta Phoebe in una
stanza segreta, piena di attrezzature scientifiche e strumenti creati negli
anni ‘80 per dare la caccia ai fantasmi.
L’originale Ghostbusters, diretto da
Ivan Reitman nel 1984, con la sceneggiatura di Dan Aykroyd e Harold Ramis, è
diventato in breve tempo un autentico fenomeno di culto. Il film aveva
per protagonisti attori comici sostanzialmente “nuovi” per il pubblico italiano,
provenienti dal Saturnday Night Live, come Murray, Moranis e Aykroyd, ma che
furono subito apprezzati. C’era poi Sigurney Weaver, bellissima come non
mai e in un ruolo molto più femminile rispetto alla sua Ripley di Alien, che
subito ha trovato una grande alchimia con Murray dando vita anche a una
riuscita trama sentimentale. La colonna sonora sinfonica, epica e creepy, era
ad opera del grande Elmer Bernstein, già famoso per il tema dei Magnifici
Sette. La fotografia era del Laszlo Kovacs di Easy Riders, gli effetti
speciali furono supervisionati da Richard Edlund, ex boss della Industrial
Light & Magic di George Lucas distintosi per il precedente lavoro su
Poltergeist, un film con cui Ghostbusters condivide lo stesso mix di trucchi
ottici e animatronici. L’art design dei fantasmi ad opera del talentuoso
grafico Bernie Wrigthson (co-creatore per DC Comics di Swamp Thing) per la The
Boss Film Studios (studio in cui all’epoca lavorava anche il nostro orgoglio
italico Tanino “Ranxerox” Liberatore). E che dire della canzone
“Ghostbusters” di Ray Parker Jr, una delle più grandi hit del 1984 e ancora oggi
famosissima?
Eppure il film nasceva sotto una cattiva stella. Sulla produzione aleggiava la recente scomparsa di John Belushi, amico fraterno di Aykroyd (insieme erano i Blues Brothers) e che avrebbe dovuto recitare un ruolo centrale. Ci sono state defezioni dell’ultimo minuto che hanno coinvolto John Candy e Eddie Murphy, anche loro appartenenti sempre alla ciurma del Saturnday night live. Lo sceneggiatore e regista Harold Ramis, che però ricordavamo già a fianco di Murray in Stripes e dirigerà in futuro sempre Murray in Ricomincio da capo, è diventato protagonista all’ultimo minuto. Gli effetti speciali tardarono a essere ultimati fino quasi all’uscita in sala, la sceneggiatura iniziale di Aykroyd, frutto della sua attiva passione per il paranormale e richiedente di un ben più alto budget, venne più volte tagliata, modificata e integrata da scene nate sul set con l’improvvisazione. Nacquero delle beghe legali per le somiglianze, a partire dallo “stesso nome”, con la serie tv Ghostbusters di Filmation. In generale casini produttivi di tutti i tipi e forme afflissero la pellicola di Reitman in ogni sua fase, ma il progetto resse a ogni urto e si riuscì quasi a fortificare di volta in volta, arrivando al successo internazionale. Merito per me di una idea di base che era forte, geniale quanto spiazzante, in grado di leggere al meglio quel periodo storico. Sul piano più squisitamente satirico, Ghostbusters affrontava di petto quegli anni '80 in cui il capitalismo era davvero sfrenato, con le multinazionali che si arricchivano a discapito dei più piccoli e del clima, immaginando la prospettiva “aziendalista” di fatturare anche sulla “pelle” dei fantasmi. Cacciare fantasmi non prevedeva medium, esorcisti o elaborazioni psicologiche di un trauma o di un lutto, quanto un rapido e indolore servizio di disinfestazione, pubblicizzato con la logica del marketing delle televendite, che permetteva di liberarsi del caro estinto (e forse qualche volta permettendo di “lavarsi la coscienza”, come in Ghostbusters 2 dove un giudice chiede l’intervento immediato spaventato dagli spiriti di due detenuti mandati erroneamente da lui sulla sedia elettrica) in modo sicuro e permanente, attraverso una sorta di moderni aspirapolvere. Aspirare fantasmi viene descritto in modo affascinante, ponendo enfasi sul fatto che i Ghostbusters sono degli straordinari scienziati che operano tra strumenti elettromagnetici, visori termo/ottici, lazzi protonici prodotti da acceleratori nucleari portatili e scatole di contenimento della materia ectoplasmica, ma alla fine rimane sempre un aspirare fantasmi per soldi.
Se su questo piano narrativo
“cinico/imprenditoriale” dava il meglio di sé un irresistibile attore
sarcastico come Murray (con un personaggio che durante il film comunque
acquista più sfumature), Ghostbusters trovava anche un’anima sognante, quasi
favolistica, se non “epica”, attraverso i personaggi di Aykroyd e Ramis. Due
autentici nerd, quando parlare di nerd non era ancora così figo, curiosi
ed entusiasti, maniaci della scienza e dell’occulto, che vivevano tra
testi antichi babilonesi e collezioni di spore e funghi, pronti a
spalancare gli occhi come bambini al primo “moccio ectoplasmatico” con cui
venivano a contatto. I fantasmi per loro due esistevano ed erano importanti,
mentre il personaggio di Murray finiva “in ottica imprenditoriale” per attirare
sulla loro attività il vero “altro cattivo” del film, un commissario della
tutela ambientale che sospettava (a ragione) che il gruppo facesse uso di
strumenti pericolosi per la salute. Se vogliamo un gustoso nemico della loro
“libertà di impresa”, ma che era per esigenze di trama più piccolo e innocuo
della enorme e spaventosa divinità sumerica, assolutamente “cattiva e
senza ambiguità” che aveva deciso di attaccare con un esercito di non-morti il
centro di Manhattan (e che comunque non dovrebbe manifestarsi “dentro a dei
frigoriferi di marca”, come sottolineava con una battuta fulminante di Murray).
Contro il dio sumero i Ghostbusters del 1984 erano per il pubblico quasi
a livello degli Avengers contro Thanos. C’era l’epica di scontrarsi con
creature quasi bibliche, un Kaiju di Marshmallow, un tempio maledetto custodito
da due cerberi spaventosi e un infinito sottobosco di scheletri, ectoplasmi,
spiriti e spiritelli di seconda classe, spalmato su ogni fotogramma della
seconda parte della pellicola. E c’era una divinità che chiedeva al personaggio
di Aykroyd: “Sei tu un dio?”. Oggi qualcuno in sala risponderebbe: “Io sono Iron
Man”, ma il cinema del 1984 non era ancora un campo da gioco per supereroi e
nell’impresa eroica di affrontare un dio sumero c’era sullo stesso piano la
difficoltà di doversi fare 32 piani di scale per incontrarlo. Questo non ha
comunque impedito a questi irresistibili “anti-eroi” di affrontare in seguito,
nella serie a cartoni animati, gente come licantropi, vampiri e persino l’uomo
nero dell’armadio, alla maniera di Constantine ed Hellboy. Tutti i bambini del
1984 però sognavano di essere un Ghostbusters, per via delle tute grigie da
combattimento, gli zaini protonici, i visori ottici spettrografici, i proto
“K-II Meter”,l’ecto-contenitore, la straordinaria Cadillac Ecto-1 bianca
e rossa con tutte le sue luci e sirene e mille armi nascoste. Armarsi (anche
di coraggio) per affrontare le creature che popolano le camerette di ogni
bambino quando si spengono le luci aveva molto più “”senso”” che temere un
alieno viola con un guanto dorato. Se eri piccolo nel 1984 magari ti colpiva di
Ghostbusters la parte comica e sentimentale, ti arrivava di meno la parte sulla
satira “imprenditoriale”, ma la parte epico/paranormale, quella “paurosa”,
arrivava al cuore come un missile. I Ghostbusters erano eroici anche nella
misura in cui i fantasmi erano terribili e genuinamente spaventosi quanto i
Freddy Krueger o Michael Meyers che animavano il ciclo horror dello zio Tibia.
Al di là del buffo Slimer, Zuul, la bibliotecaria e cosa come lo
scheletro-zombie-taxista (nel seguito anche Vigo o la bambinaia con il
passeggino) mettevano davvero paura nel film di Reitman, perché sarebbero stati
realizzati nello stesso modo in una pellicola horror “seria”. È grazie al
grande reparto artistico specializzato in creature e suoni mostruosi messo in
campo dalla produzione che Ghostbusters trova il plus-valore spiccatamente
“pauroso” che permettono di avvicinarlo anche alle “commedia horror” di film
come Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis o Chi è sepolto in
quella casa di Steve Miner.
Se era una commedia con elementi di
satira, un film sentimentale, un film fantastico pieno di tecnologie strane, un
film d’azione e un horror, come si attualizza oggi Ghostbusters, per il grande
pubblico?
Non è facile.
Il Ghostbusters “al femminile” del 2016
per me mancava dello sguardo sognante e timoroso verso il paranormale della
pellicola del 1984. C’era l’umorismo sempre preso dalle stesse fucine del Saturnday
Night Live, c’era la prospettiva di un cast tutto al femminile con attrici
brave come Kristen Wiig, Leslie Jones e Melissa McCarthy (ma c’era anche Kate
McKinnon la peggiore e più sopravvalutata attrice americana degli ultimi 30
anni). C’era un bravo e divertente Chris Hemsworth e anche il villain non era
male sulla carta. C’erano delle interessanti soluzioni visive e un buon uso
degli effetti speciali. Mancava il lato sentimentale. Ma il vero grosso peccato
originale era che i fantasmi non erano più fantasmi quanto “oggetti colorati da
abbattere” con dei pur bellissimi giocattoli hi-tech. Nel 1984 i fantasmi si
“aspiravano” ma finivano in una specie di fantastica dimensione ultra-terrena
dentro all’ecto-contenitore (che diventava un autentico luogo da girone
dantesco in alcuni episodi della serie animata), con la possibilità di essere
rilasciati nel mondo ancora integri (come sul finale del primo
Ghostbusters). Nel 2016 i fantasmi vengono invece distrutti dai raggi
protonici, fatti a pezzi da delle cacciatrici che verso di loro non provano
nulla, come fossero davvero solo “cose colorate”. Nemmeno si spaventano davanti
a loro, perché il lato “spirituale” di queste creature diventava qualcosa di
posticcio, scontato, ridondante, magari fuori moda, già riproposto in mille
videogiochi (videogiochi già affrontarti come “oggetti con un'anima”,
nell’imperfetto approccio “vintage” di Pixels con Adam Sandler… dove guarda
caso compariva nel cast Aykroyd). È un po’ il nuovo male del secolo, per
me, il fatto che le nuove generazioni guardino al cinema o alla letteratura,
specie nell’ambito horror, “solo” con le lenti di un videogioco. Un film
che pure asseconda questa prospettiva, anche se “specchio dei tempi”, rimane
per me un brutto film. Insomma, se non ci credevano manco le Ghostbusters nei
fantasmi, non ci potevo credere io da spettatore. Erano in fondo troppo
aziendaliste e poco sognatrici, come il personaggio di Bill Murray all’inizio
della pellicola del 1984. Era difficile tifare per loro.
La pellicola del 2021 si muove con
premesse differenti e nuove, tanto sull'interpretazione della figura del
fantasma che dell’ambientazione. Anche perché il mondo oggi è popolato di
“nuovi e vecchi” fantasmi. Ci sono in sala con grande seguito di pubblico le case stregate e i demonologi di James Wan, che si rifanno squisitamente
all’horror anni ‘60 della Hammer cercando di attualizzarlo (anche se una
bambola maledetta come Annabelle che si scopre troppo simile ad una specie di
dispositivo wi-fi soprannaturale non è sempre una bella attualizzazione). Ci sono i “fantasmi del passato”, con una serie di opere, da Stranger
Things a IT, che puntano nostalgicamente e continuamente a farci rivivere i
“fantasmatici e mitici anni ‘80”. Ha preso sempre più forma quello che definirei
felicemente come il “cinema degli ectoplasmi”, che annovera pellicole
interessanti come The Innkepers, Personal shopper e A ghost story, dove
il fantasma è visto nella sua malinconica e impossibile vicinanza al mondo
reale, dove l’incomunicabilità con i propri cari diventa la vera condanna. Si
può inoltre parlare, come metafora della crisi economica attuale, anche
di “nuovi luoghi fantasma”, come la miniera abbandonata di questa Summmerville
che in qualche modo ricorda la miniera abbandonata per la crisi economica di
Nomadland di Chloe Zhao.
Infine, per la scelta di fare di questa
pellicola un sequel del film del 1984 (a differenza del reboot del 2016), ci
sono i “fantasmi personali del pubblico”, legati magari ai ricordi dei fan di
Ghostbusters: perché qualcuno potrebbe aver visto nel 1984 la pellicola di
Reitman al fianco di un genitore, un amico o un parente che dopo quasi 40 anni
non c’è più. “Tutti questi fantasmi” confluiscono in Ghostbusters Legacy nel
suo sapore di film per ragazzi anni ‘80, che cita l’originale ma anche I
Goonies, anche Gremlins. Gli eventi si collocano in una provincia
americana senza tempo (come la Derry di IT o la Hawkins di Stranger Things) e
non nella frenetica New York, proprio perché può sembrare un luogo ancora fisso
sugli anni ‘80, VHS nelle scuole comprese. Ci sono ancora gli spiritelli buffi
e gli “indemoniati”, ma c’è come omaggio al “cinema ectoplasmatico” anche uno
spirito buono che si trova “sul confine”, che cerca di comunicare con i propri
cari quando in passato non era riuscito a comunicare abbastanza, fisicamente,
come padre. Ci sono di nuovo protagonisti i nerd, come lo furono nell’84 i
personaggi di Aykroyd e Ramis. C’è la piccola Phoebe di McKenna Grace,
dagli occhiali enormi, la passione per tutto quanto è scientifico e la
difficoltà nelle relazioni interpersonali. C’è Podcast (Logan Kim), il
fanatico di X-files e misteri locali che parla troppo anche se teme che non lo
ascolti nessuno. C’è il professor Grooberson di Paul Rudd, un “nerd cresciuto” nel
mito degli acchiappa fantasmi, fanatico di Stephen King e che sogna di fare
qualcosa di più che il professore in un corso estivo, ma ha quasi paura di
rivelare al mondo le sue ricerche scientifiche. Il mondo dei Ghostbusters
“originali” si svela sotto i loro occhi in modo lento e progressivo, a partire
dalla scoperta di un K2, poi di una trappola, poi di uno zaino protonico, poi
della Ecto-1 (magica e “proibita ai bambini” quando la macchina della polizia
nel bellissimo Cop Car di Jon Watts). È una fascinazione per il mito simile a
una danza avvolgente, che parte dai “simboli” più piccoli fini ad arrivare ai
più grandi. I fan di vecchia data troveranno questo processo affascinante,
rispettoso e seducente, ma credo sia possibile che gli spettatori più giovani
potrebbero trovare su questo lato la pellicola un po’ lenta e autocelebrativa.
Bisogna considerane che sono tantissimi i giocattoli, cartoni animati,
figurine, modellini e videogame che hanno contribuito ad alimentare per
anni il fascino di Ghostbusters. Come bisogna considerare quanto tutto questo
materiale e devozione non possano essere condivisi nell’immaginario di un
pubblico più giovane, nato in un periodo in cui le opere horror e fantasy sono
molto più diffuse di un tempo, anche grazie a “precedenti” come Ghostbusters.
Se oggi viene giudicato ridondante e ingenuo X-Files ho un po’ paura
nell’immaginare come venga considerato Ghostbusters Legacy, che vedo
particolarmente centrato sul pubblico di vecchi fan, di cui io stesso faccio
parte. A prescindere dal fatto di quanto la pellicola sia davvero ben
realizzata, diventando un ottimo e riuscitissimo esponente del “cinema
ectoplasmatico”, il film non sposta troppo in avanti la palla, non inventa un
nuovo scenario per rilanciare il franchise. Anche i villain sono
principalmente riferiti al film dell’84 e in questo si vede la chiara volontà
del regista Jason Reitman, figlio di Ivan Reitman, di “duettare” con i temi e
luoghi de film del padre, quasi a farne un viaggio multi-generazionale unico,
un po’ come sta accadendo con la nuova serie di Halloween (che pure lui non
viene apprezzato misteriosamente dal pubblico più giovane). Trovare
similitudini e differenze tra le due pellicole diventa un gioco sempre più
stimolante, che diventa apoteosi nel finale. Non è un caso che alla
sceneggiatura, opera di Jason Reitman e di Gil Kenan (sceneggiatore non a caso
del remake di Poltergeist quanto del bellissimo cartone animato horror Monster House) abbia contribuito Aykroyd stesso. Gustosissimi gli effetti speciali
che “rinnovano” l’immaginario di riferimento senza stravolgerlo. Molto carini e
spontanei i giovani protagonisti e quasi simpatico Paul Rudd (attore che
generalmente non mi fa impazzire). Davvero commovente, da lacrime che sgorgano
all’infinito, tutta l’ultima parte del film (ma anche qui posso immaginare che
tali effluvi siano più cospicui sulle gote dei fan di più vecchio corso).
Ghostbusters Legacy mi è piaciuto molto.
Mi ha commosso e mi ha divertito. Il primo Ghostbusters l’avevo visto al cinema
con mio padre e una volta a casa lui aveva costruito per me uno zaino protonico
ricavato da un fustino del detersivo e un tubo di un aspirapolvere rotto. Sono
sempre stato un bambino pauroso, ma le avventure dei Ghostbusters mi davano
forza e mi hanno insegnato a confrontarmi con le mie paure, fino a farmi
apprezzare i molti stimoli e riflessioni di cui è pregna la pur bistrattata
cinematografia che tratta di mostri e fantasmi. Questi nuovo film ha riacceso i
miei ricordi, al punto che oggi in sala sono per un attimo tornato un bambino
di 8 anni. Ho apprezzato tantissimo il dialogo invisibile tra la piccola Phoebe
e la “presenza spiritica” che aleggia nella casa stregata.
Mi sono commosso a rivedere dei “volti
noti”. Ho trovato meravigliosa la fotografia di Eric Steelberg, con quella
Ecto-1 che sfreccia su un campo di girando in una assolata giornata d’estate. Ho
apprezzato il modo garbato con cui la colonna sonora di Rob Simonsen fa
emergere a più riprese la colonna sonora originale. Sono un fan di Ghostbusters
e questo è il film che da fan volevo vedere, un film che potrebbe saziarmi
anche se non fosse in produzione una nuova pellicola. Lo vedo come un film di
commiato (come lo era Star Trek VI - Rotta Verso l’Ignoto) e molto più
timidamente come un film per un rilancio, anche se magari da questo Legacy
qualcosa di nuovo potrebbe felicemente generarsi.
I “successori spirituali” degli acchiappa fantasmi per me sono stati in anni più recenti Specs e Tucker di Insidious. Mi piacerebbe una svolta “più horror” del franchise di Ramis e Aykroyd, qualcosa che sappia anche solo interpretare sul grande schermo alcune delle più belle puntate del cartone animato. Vorrei davvero vedere al cinema la trasposizione della puntata sul Babau o quella del villaggio condiviso tra licantropi e vampiri. In un mondo in cui le storie di fantasmi sono diventate tanto di moda, gli acchiappa fantasmi possono avere ancora tanto da dire, magari con la “giusta idea” che li porti oltre all’ottica (pur apprezzatissima) del revival, magari a partire da un cast anagraficamente più giovane. Per oggi mi sento comunque soddisfatto e invito tutti i possessori di un acceleratore protonico non registrato a fiondarsi nel cinema più vicino.
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Molto bella e interessante la prima parte, fresca e nostalgica ma in modo "sano". La seconda parte mi ha fatta soffrire parecchio invece. Amo il film dell'84, è scrigno di tantissimi bei ricordi anche per me, e onestamente un remake scena per scena a partire dal momento in cui Rudd diventa la versione ancora più scema di Louis... no, grazie. Mi sono sentita molto presa in giro. Dell'apparizione finale, così spiattellata e gettata in faccia allo spettatore con tanto di imposizione a piangere, non voglio nemmeno parlare, l'ho trovata offensiva. Che peccato, poteva essere uno splendido ponte generazionale questo film ma, come sempre, per accontentare i fan hanno creato il solito prodotto senza cuore.
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