martedì 11 giugno 2019

A mano disarmata: la nostra recensione del film ispirato alla storia di coraggio e impegno sociale di Federica Angeli.



Federica Angeli è una giornalista che ha avuto il coraggio e la pazzia di denunciare la criminalità che stava sempre più prendendo possesso delle vie di Ostia, proprio nel quartiere in cui era nata e cresciuta. Come capita a tutti gli eroi, ha pagato un carissimo prezzo per questo gesto, tanto a livello professionale che umano. Ha sofferto le malelingue di chi l'ha accusata di aver peggiorato la situazione, ha patito la "reclusione forzata" di essere sotto scorta per 1700 giorni. Qualcuno l'ha sostenuta e la giustizia forse ha iniziato a fare il suo corso, ma non se l'è passata bene. Questo film di Claudio Bonivento ha l'indubbio merito sociale di parlarci di Francesca Angeli, ed è caldamente consigliato per un approfondimento anche il bellissimo libro da cui la vicenda è tratta, edito da Baldini e Castoldi e scritto dalla stessa Federica Angeli.
Certo c'è una componente narrativa che "rivisita e sintetizza i fatti", che si impegna a "coprire i nomi", in quanto le inchieste sono ancora in atto. Gli eventi, il coraggio e il dramma umano vogliono comunque essere genuini e la prova della Gerini non è affatto male. La confezione finale del "prodotto film" di questo A mano disarmata però è decisamente curiosa, e non tanto per una chiara indicazione d'uso di stampo televisivo. 
Così mi trovo un po' nell'imbarazzo di quando ero  nell'estate del 1994 al cinema estivo a guardare Il giudice ragazzino di Placido, per cercare di lumare una mia compagna di classe (spoiler: non ci sono mai riuscito). Quella sera ero riuscito a sedermi di fianco a lei con alle spalle (giuro!!!!) sua madre (ri-spoiler: certo, con premesse di questo tipo... nella seconda uscita cinematografica la situazione è pure peggiorata, in sala tra me e lei c'era tutto il gruppo scout di cui faceva parte... non prendete appuntamenti al cinema, mai). Ora, Il Giudice Ragazzino è un film ugualmente importante per il fatto di raccontare la coraggiosa e sfortunata vita del giudice Livatino e la visione di queste pellicole ha un po' la funzione di un rito, una celebrazione di etica che è anche mistica se vogliamo. È proprio il far rivivere gli eventi davanti al fuoco con la tua collettività, ti verrebbe voglia di partecipare a una fiaccolata dopo la visione, prendere una chitarra e cantare La Libertà di Gaber. Insomma, il cinema può essere "anche questo" ed è importate anche "per questo". Solo che questa ritualità, che ci mette se vogliamo direttamente in contatto con la Storia, con la "S maiuscola", si scontra per forma  anche sul modo in cui la storia con la "s minuscola" è rappresentata. O almeno questo vale per me. Così nell'estate del 1994, a fine visione de Il giudice ragazzino di Placido, ancora al buio prima dei titoli di coda, con tutta la sala che subito dopo tra qualche lacrima partiva con un applauso spontaneo a celebrazione della vita del giudice Livatino, io con la mia voce da ragazzino parlo. È un commento breve e lapidario: "Certo, che questo film è una vera cagata". È stato come se fossi entrato in chiesa durante il presepe vivente lamentandomi che il bambino che faceva Gesù stava giocando con il pallone da calcio. Il film di Placido, che ho rivisto di recente in parte rivalutandolo almeno per la "sobrietà", era un compitino svogliato e frettoloso (come quasi tutta la cinematografia di Placido, per me), di cui però se parlavi male ti prendevi da tutti, e a ragione, dello stronzo. Perché il rito collettivo non prevede un giudizio sulla rappresentazione della Storia, la Storia rivive da sola a prescindere se il bambino che fa Gesù nel presepe vivente ha otto anni e con il pallone ha appena colpito le palle del corista pastorello che ha imprecato. Capite quindi qual e' il mio cruccio?


Certo Federica Angeli è per me molto più bella della Gerini. È un po' l'effetto Erin Brockovich, dove Julia Roberts non poteva minimamente competere con la persona reale che interpretava a cinema.


La Gerini ci mette impegno, ma a interpretare i "criminali cattivi" ci mettono questi tizi.


Un Rodolfo Laganà che dire luciferino è poco. Ma soprattutto lui, Mirko Frezza


Io da oggi sono fan a vita di Mirko Frezza. Ha lo sguardo da matto e il fisico enorme di un Gerald Butler, con tutta la "possenza" di un Kane Hodder. Il buon Frezza gira la sua parte a questo livello di convinzione...


E stiamo davvero a un passo da Non aprite quella porta. Urla, occhi di fuoco, violenze sui minori con tutta la convinzione dell'uomo nero. Gli manca la motosega ma il gliela darei sulla fiducia. Perché Dario Argento non sta lavorando con Frezza a un nuovo film slasher?? 
Poi però ti rendi conto che i "cattivi" sono solo quei tre, che si limitano a guardarti male e scappare in due sullo stesso (piccolo) Booster mentre inveiscono contro la protagonista frasi uscite da Squadra anitifurto. Fanno un po' tristezza. Ma si poteva scegliere un registro un minimo più sottile? Certo, non si può pretendere sempre un approfondimento sul fascino del male stile Scorsese, magari. Ma ve lo vedete Frezza che gira per Ostia conciato e motivato come un Urukai con tutti che se la fanno sotto e lui che guarda storto tutti? Ma può essere credibile questo approccio per rappresentare il modo sotterraneo e crepuscolare in cui in genere si radica il crimine negli ambienti sociali più apparentemente tranquilli? 
E poi c'è Pannofino a interpretare il caporedattore del giornale per cui lavora la protagonista.


Che io amo Pannofino, ma dopo Boris non ce la faccio davvero a vedermelo in un ruolo serio. Anche il suo Nero Wolfe è buffo, perché lui hai il "corpaccione" e ogni tanto le faccette buffe te le tira fuori spontanee, come sudore. Così, dopo aver visto i "cattivi" di Non aprite quella porta aggirarsi con il Booster per le vie di Ostia, Pannofino è un'altra (pur amabilissima!!)  macchietta che rende ancora più strana la pellicola. E non aiuta certo all'intreccio il presepio dei coprotagonisti.


C'è il ristoratore, l'edicolante, la signora delle pasterelle, l'addetto alle deposizioni dei carabinieri. La protagonista "visita" questo piccolo presepe, con gli omini montati all'interno dello specifico scenario,  periodicamente.  Ma non interagisce mai davvero con loro al punto che quando per un puro caso uno di loro compare al di fuori dal suo "diorama" ci si sorprende e quasi ci si tranquillizza che scompaia di nuovo dopo aver detto una singola battuta.
Ma la vera sciagura è Francesco Venditti, nel ruolo del marito della protagonista.


C'è una rocambolesca e disordinatamente dolce scena di sesso nei primi minuti del film. Poi si spegne, per sempre. Per il resto del film, ogni volta che la moglie gli rivolge la parola, lui la tratta come se si fosse fatta un amante e stia tradendo il suo nido domestico. La giornalista può parlare delle minacce che subisce come giornalista, può parlare delle nuove grate alle porte o può spiegare ai bambini il perché ora è sotto scorta (lo fa in un modo molto tenero di "occultare la realtà" che mi ha ricordato La vita è bella). Il marito fa la faccia dell'uomo cornuto, sempre, e minaccia di tornare da sua madre. Anche qui è l'assenza di sfumature a lasciare confusi. Si poteva fare di più, forse, per gestire la dinamica della coppia, come per rappresentare i criminali, come per rappresentare il "presepe popolare". Avrei voluto vedere di più Ostia, magari con tutta la calma e poesia di "altre Roma". Come quella in viaggio sulla vespa di Moretti (Caro Diario) o con il passo veloce e mattutino di Giulio Base (Cartoline di Roma), senza per forza scomodare Fellini. La storia della Angeli parla anche di un "mare rubato" e io su quel mare (presente in un'unica bella sequenza, sottolineata bene dalla colonna sonora di Mirkoeilcane, ma come avrebbe potuto indugiare ed esplorare quel "mare a sbarre" un regista come Edoardo De Angelis?) e su quelle sbarre che lo contengono ci avrei indugiato di più, come sulle sbarre della sempre più fortificata casa della giornalista, che le impediscono di vedere "sua figlia che gioca in giardino". La storia che all'epoca la scorta non era stata concessa al marito e ai figli poteva essere esplorata di più, poteva essere un film a sé migliore del marito che si sente "tradito dal lavoro della moglie". Certo i cattivi fanno paura, almeno prima di vederli impennare su quel motorino che fa fatica a tenerli in sella. C'è una scena molto bella e molto potente, nel contesto di una aggressione notturna, che richiama magnificamente lo "stordimento dell'omertà" rappresentato anche in film come La casa dalle finestre che ridono.  
Questo film di Bonivento sceglie troppo spesso le inquadrature strette degli sceneggiati Rai. Sente troppo forte il bisogno di spiegare le situazioni senza dare il giusto peso all'assordante silenzio che emana questa materia. Si dà troppa briga nel dissipare dubbi e sfumature, nel dividere nettamente buoni da cattivi. Forse funziona meglio per il pubblico televisivo classico, magari un po' "vintage", della nostra vecchia TV italiana. A me ha fatto di sicuro uno strano effetto. E secondo molto di quanto ho già letto in giro per la rete, mi sento di nuovo al cinema estivo nel 1994. 
La Storia di Federica Angeli è però straordinaria ed è  importante che sia ricordata. Dopo la visione magari buttatevi sul libro omonimo pubblicato della Baldini-Castoldi. Ne vale la pena. Per salutarvi da questa recensione mi è poi venuto in mente questo pezzo di Silvestri, per me qui cade  davvero a pennello.


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