Federica
Angeli è una giornalista che ha avuto il coraggio e la pazzia di denunciare la
criminalità che stava sempre più prendendo possesso delle vie di Ostia, proprio
nel quartiere in cui era nata e cresciuta. Come capita a tutti gli eroi, ha
pagato un carissimo prezzo per questo gesto, tanto a livello professionale che
umano. Ha sofferto le malelingue di chi l'ha accusata di aver peggiorato la
situazione, ha patito la "reclusione forzata" di essere sotto scorta
per 1700 giorni. Qualcuno l'ha sostenuta e la giustizia forse ha iniziato a
fare il suo corso, ma non se l'è passata bene. Questo film di Claudio
Bonivento ha l'indubbio merito sociale di parlarci di Francesca Angeli, ed è
caldamente consigliato per un approfondimento anche il bellissimo libro da cui
la vicenda è tratta, edito da Baldini e Castoldi e scritto dalla stessa
Federica Angeli.
Certo c'è una componente narrativa che "rivisita e
sintetizza i fatti", che si impegna a "coprire i nomi", in
quanto le inchieste sono ancora in atto. Gli eventi, il coraggio e il dramma
umano vogliono comunque essere genuini e la prova della Gerini non è affatto
male. La confezione finale del "prodotto film" di questo A mano
disarmata però è decisamente curiosa, e non tanto per una chiara
indicazione d'uso di stampo televisivo.
Così mi
trovo un po' nell'imbarazzo di quando ero nell'estate del 1994 al cinema
estivo a guardare Il giudice ragazzino di Placido, per cercare di
lumare una mia compagna di classe (spoiler: non ci sono mai riuscito). Quella
sera ero riuscito a sedermi di fianco a lei con alle spalle (giuro!!!!) sua
madre (ri-spoiler: certo, con premesse di questo tipo... nella seconda uscita
cinematografica la situazione è pure peggiorata, in sala tra me e lei c'era tutto
il gruppo scout di cui faceva parte... non prendete appuntamenti al cinema,
mai). Ora, Il Giudice Ragazzino è un film ugualmente importante per il fatto
di raccontare la coraggiosa e sfortunata vita del giudice Livatino e la visione
di queste pellicole ha un po' la funzione di un rito, una celebrazione di etica
che è anche mistica se vogliamo. È proprio il far rivivere gli eventi davanti
al fuoco con la tua collettività, ti verrebbe voglia di partecipare a una
fiaccolata dopo la visione, prendere una chitarra e cantare La Libertà di
Gaber. Insomma, il cinema può essere "anche questo" ed è importate
anche "per questo". Solo che questa ritualità, che ci mette se
vogliamo direttamente in contatto con la Storia, con la "S maiuscola", si scontra per forma anche sul modo in cui la storia con la "s
minuscola" è rappresentata. O almeno questo vale per
me. Così nell'estate del 1994, a fine visione de Il giudice ragazzino di
Placido, ancora al buio prima dei titoli di coda, con tutta la sala che subito
dopo tra qualche lacrima partiva con un applauso spontaneo a celebrazione
della vita del giudice Livatino, io con la mia voce da ragazzino parlo. È un
commento breve e lapidario: "Certo, che questo film è una vera
cagata". È stato come se fossi entrato in chiesa durante il presepe
vivente lamentandomi che il bambino che faceva Gesù stava giocando con il
pallone da calcio. Il film di Placido, che ho rivisto di recente in parte
rivalutandolo almeno per la "sobrietà", era un compitino svogliato e
frettoloso (come quasi tutta la cinematografia di Placido, per me), di cui
però se parlavi male ti prendevi da tutti, e a ragione, dello stronzo. Perché
il rito collettivo non prevede un giudizio sulla rappresentazione della Storia,
la Storia rivive da sola a prescindere se il bambino che fa Gesù nel presepe
vivente ha otto anni e con il pallone ha appena colpito le palle del corista
pastorello che ha imprecato. Capite quindi qual e' il mio cruccio?
Certo Federica Angeli è per me molto più bella della
Gerini. È un po' l'effetto Erin Brockovich, dove Julia Roberts non
poteva minimamente competere con la persona reale che interpretava a cinema.
La Gerini ci mette impegno, ma a interpretare i
"criminali cattivi" ci mettono questi tizi.
Un Rodolfo Laganà che dire luciferino è poco. Ma
soprattutto lui, Mirko Frezza
Io da oggi sono fan a vita di Mirko Frezza. Ha lo
sguardo da matto e il fisico enorme di un Gerald Butler, con tutta la
"possenza" di un Kane Hodder. Il buon Frezza gira la sua parte a
questo livello di convinzione...
E stiamo davvero a un passo da Non aprite quella porta.
Urla, occhi di fuoco, violenze sui minori con tutta la convinzione dell'uomo
nero. Gli manca la motosega ma il gliela darei sulla fiducia. Perché Dario
Argento non sta lavorando con Frezza a un nuovo film slasher??
Poi però
ti rendi conto che i "cattivi" sono solo quei tre, che si limitano a
guardarti male e scappare in due sullo stesso (piccolo) Booster mentre
inveiscono contro la protagonista frasi uscite da Squadra
anitifurto. Fanno un po' tristezza. Ma si poteva scegliere un registro un
minimo più sottile? Certo, non si può pretendere sempre un approfondimento sul
fascino del male stile Scorsese, magari. Ma ve lo vedete Frezza che gira per
Ostia conciato e motivato come un Urukai con tutti che se la fanno sotto e lui
che guarda storto tutti? Ma può essere credibile questo approccio per
rappresentare il modo sotterraneo e crepuscolare in cui in genere si
radica il crimine negli ambienti sociali più apparentemente tranquilli?
E poi
c'è Pannofino a interpretare il caporedattore del giornale per cui lavora la
protagonista.
Che io amo Pannofino, ma dopo Boris non ce la faccio
davvero a vedermelo in un ruolo serio. Anche il suo Nero Wolfe è buffo, perché
lui hai il "corpaccione" e ogni tanto le faccette buffe te le tira
fuori spontanee, come sudore. Così, dopo aver visto i "cattivi" di
Non aprite quella porta aggirarsi con il Booster per le vie di Ostia, Pannofino
è un'altra (pur amabilissima!!) macchietta che rende ancora più strana
la pellicola. E non aiuta certo all'intreccio il presepio dei coprotagonisti.
C'è il ristoratore, l'edicolante, la signora delle
pasterelle, l'addetto alle deposizioni dei carabinieri. La protagonista
"visita" questo piccolo presepe, con gli omini montati all'interno
dello specifico scenario, periodicamente. Ma non interagisce mai
davvero con loro al punto che quando per un puro caso uno di loro compare al di
fuori dal suo "diorama" ci si sorprende e quasi ci si tranquillizza
che scompaia di nuovo dopo aver detto una singola battuta.
Ma la vera sciagura è Francesco Venditti, nel ruolo del
marito della protagonista.
C'è una rocambolesca e disordinatamente dolce scena di
sesso nei primi minuti del film. Poi si spegne, per sempre. Per il resto del
film, ogni volta che la moglie gli rivolge la parola, lui la tratta come se si
fosse fatta un amante e stia tradendo il suo nido domestico. La giornalista può
parlare delle minacce che subisce come giornalista, può parlare delle nuove
grate alle porte o può spiegare ai bambini il perché ora è sotto scorta (lo fa
in un modo molto tenero di "occultare la realtà" che mi ha ricordato
La vita è bella). Il marito fa la faccia dell'uomo cornuto, sempre, e minaccia
di tornare da sua madre. Anche qui è l'assenza di sfumature a lasciare confusi.
Si poteva fare di più, forse, per gestire la dinamica della coppia, come per
rappresentare i criminali, come per rappresentare il "presepe
popolare". Avrei voluto vedere di più Ostia, magari con tutta la calma e
poesia di "altre Roma". Come quella in viaggio sulla vespa di Moretti
(Caro Diario) o con il passo veloce e mattutino di Giulio Base (Cartoline di
Roma), senza per forza scomodare Fellini. La storia della Angeli parla anche di
un "mare rubato" e io su quel mare (presente in un'unica bella
sequenza, sottolineata bene dalla colonna sonora di Mirkoeilcane, ma come
avrebbe potuto indugiare ed esplorare quel "mare a sbarre" un regista
come Edoardo De Angelis?) e su quelle sbarre che lo contengono ci avrei
indugiato di più, come sulle sbarre della sempre più fortificata casa della
giornalista, che le impediscono di vedere "sua figlia che gioca in
giardino". La storia che all'epoca la scorta non era stata concessa
al marito e ai figli poteva essere esplorata di più, poteva essere un film a
sé migliore del marito che si sente "tradito dal lavoro della
moglie". Certo i cattivi fanno paura, almeno prima di vederli
impennare su quel motorino che fa fatica a tenerli in sella. C'è una scena
molto bella e molto potente, nel contesto di una aggressione
notturna, che richiama magnificamente lo "stordimento dell'omertà"
rappresentato anche in film come La casa dalle finestre che
ridono.
Questo
film di Bonivento sceglie troppo spesso le inquadrature strette degli
sceneggiati Rai. Sente troppo forte il bisogno di spiegare le situazioni senza
dare il giusto peso all'assordante silenzio che emana questa materia. Si dà troppa briga nel dissipare dubbi e sfumature, nel dividere nettamente buoni da
cattivi. Forse funziona meglio per il pubblico televisivo classico, magari un
po' "vintage", della nostra vecchia TV italiana. A me ha fatto
di sicuro uno strano effetto. E secondo molto di quanto ho già letto in giro
per la rete, mi sento di nuovo al cinema estivo nel 1994.
La
Storia di Federica Angeli è però straordinaria ed è importante che sia ricordata.
Dopo la visione magari buttatevi sul libro omonimo pubblicato della
Baldini-Castoldi. Ne vale la pena. Per salutarvi da questa recensione mi è poi
venuto in mente questo pezzo di Silvestri, per me qui cade davvero a
pennello.
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