Sinossi: tredici anni dopo le vicende della prima pellicola siano di nuovo sul pianeta Pandora, a seguire le vicende del popolo Na’vi contro gli invasioni del “popolo del cielo”. Dopo la cacciata degli invasori terresti da Pandora c’è stato un lungo periodo di pace, con l’avatar ex-Marine Jake Sully (Sam Worthington) e la na’vi Neytiri (Zoe Saldana) che hanno messo su famiglia e adottato anche una piccola nata dall’avatar della dottoressa Grace (Sigurney Weaver) e un misterioso ragazzino umano. Jake è ora a capo del suo popolo e cerca di conciliare come meglio gli riesce i compiti di leader militare e di genitore. Tra i due fratelli più grandi viene a instaurarsi un legame non dissimile da quello che legava Jake e il suo fratello gemello, con uno che si sente un po’ la pecora nera della famiglia. Il padre guida entrambi in un percorso di crescita, insegnandogli a cacciare e diventare adulti, mentre Naytiri ha un po’ dimesso gli abiti della guerriera per quelli della madre amorevole. Ma l’equilibrio si rompe con il ritorno del popolo del cielo, tra le cui fila milita anche il clone-Avatar del terribile colonnello Miles (Stephen Lang). La famiglia di Jake sembra presto essere il principale bersaglio di Miles e del suo esercito personale di Avatar-marines e Jake e i suoi saranno costretta a lasciare la foresta che è sempre stata la loro casa per fuggire altrove, magari trovando momentaneo rifugio presso i Na’vi del popolo dell’acqua: un popolo con cui finora non hanno avuto molti rapporti e in cui pure il corpo appare più simile a quello di esseri acquatici rispetto a quello di un primate. Tuttavia anche gli invasori sembrano interessati al popolo dell’acqua per via di una miracolosa sostanza che si può ricavare dalle creature, simili a balene e megattere, che vivono in quelle terre. Sarà forse l’inizio di una nuova guerra.
La personale “Via dell’acqua” di
Cameron:
C’era una volta James Cameron. Un
tredicenne, figlio di un ingegnere, che dopo una lezione del liceo sui
fondali sottomarini scrisse di getto una sceneggiatura, su degli scienziati che
venivano in contatto con una civiltà extraterrestre che viveva in fondo al
mare. Divenuto un quasi laureando di fisica, nutrendo all’epoca infinite
passioni che spaziavano dalla fantascienza alla filosofia e ovviamente ricomprendevano
ancora i mondi sommersi, un giovane Cameron del 1977, folgorato dalle Guerre
Stellari di Lucas, sognò di diventare anche lui un regista cinematografico.
Avrebbe fatto quello “da grande”, cioè da lì a un anno circa, realizzando
i migliori film con gli effetti speciali possibili. Nel 1978 grazie solo alla
sua fortissima convinzione, spinse un consorzio di dentisti californiani
a produrgli un cortometraggio, scritto e diretto da lui, ambientato nello
spazio e a base di alieni: Xenogenesis. Quel lavoro piacque molto a livello
visivo al produttore Roger Corman, che volle Cameron agli effetti speciali
prima nel 1980, per il divertente I magnifici sette nello spazio e poi nel
1981, per quella follia camp de Il pianeta del terrore. Ma Cameron piaceva
molto pure a John Carpenter, che lo volle sempre nel 1981 sul set ad aiutarlo
per il leggendario 1997: fuga da New York e sempre in quell’anno Cameron
interessò tantissimo al cinema italiano, che lo avrebbe fatto debuttare alla
regia con il b-movie Piranha Paura. Un film ambientato sott’acqua come lui
aveva sempre sognato dal liceo. Solo che con Piranha Paura le cose non andarono
benissimo e presto Cameron venne licenziato, si dice proprio per la poca
dimestichezza con i set ambientati sott’acqua. Fu un duro colpo per quella
carriera già partita in modo folgorante: “l’acqua lo aveva fregato”, ma Cameron
non si arrese e giurò che da grande avrebbe fatto i migliori film con gli
effetti speciali ambientati sott’acqua. Così, per fregio. Ma prima “della rivincita
sull’acqua”, la leggenda dice che il grande regista ebbe una intossicazione
alimentare (forse dovuta a una frittura di pesce? Era sempre la “maledizione
dell’acqua”?) sul set di Piranha Paura, in seguito alla quale fu ricoverato in
un ospedale dove, in una notte da incubo, sognò “il Terminator”. Una
macchina-soldato invincibile proveniente dal futuro e che sarebbe diventata il
soggetto della sua prima pellicola da regista, nel 1984. Sembra che per
convincere i produttori a girare Terminator, Cameron abbia
vestito/truccato da Terminator il suo amico e attore Lance Henricksen,
facendolo irrompere nella casa di produzione durante la presentazione del
progetto, armato di mitragliatori, occhiali neri e giubbotto in pelle,
provocando svariati buffi infarti. Con un budget risicato ma ottimi effetti di
trucco/visivi, una trama cupa quanto esaltante e una interprete
eccezionale come Linda Hamilton, Terminator piacque, incassò, fece
decollare la carriera di Arnold Schwarzenegger con buona pace dì Henricksen che
non ebbe la parte, e spinse Cameron nel 1985 a puntare di nuovo sulla storia di
un’altra macchina-soldato invincibile, scrivendo la sceneggiatura di Rambo 2 la
vendetta. Lo scritto però non piacque a uno Stallone che sembra abbia riscritto
tutto da capo da solo, di notte, trasformandolo nel razzie award per la
peggiore sceneggiatura di quell’anno, che fu accreditato ovviamente pure a
Cameron. Cameron era triste di nuovo ma di lì a poco, sempre in quel 1985,
l’oceanografo Robert Ballard scoprì il relitto del Titanic e il regista iniziò
ad appassionarsi a quella storia e ritornò all’idea di realizzare un maestoso
film ambientato sott’acqua come in quel racconto che aveva realizzato ai tempi
del liceo. Era il 1986 e un Cameron con “ancora addosso” il successo di
Terminator come ottimo biglietto da visita, ci riprovava. Tornava alla regia
con un film dal budget non troppo alto, ma che contava di meravigliosi effetti
visivi, che parlava di alieni come il suo primo cortometraggio, quanto di
macchine-soldato invincibili, sia in campo di supersoldati che di Terminator.
Era il fantascientifico, orrorifico, bellico e satirico Aliens - Scontro
Finale, seguito di Alien di Ridley Scott: un film subito cult che avrebbe
“anticipato tematicamente e cinematograficamente” un adattamento del romanzo
Fanteria dello Spazio del 1959 (quanto ispirato la serie di giochi di ruolo
con soldatini Warhammer 40000), avrebbe avuto per protagonista una ottima
interprete come Sigurney Weaver e avrebbe permesso all’amico Lance Henricksen
di recitare più o meno in un ruolo da Terminator. A livello di fantascienza,
oltre alle basi spaziali, gli alieni e i robot, c’erano nel film vari velivoli
militari hi-tech e pure degli esoscheletri con braccia meccaniche simili a
quelle dei sottomarini impiegati nell’esplorazione oceanica. Fu un
clamoroso successo che spinse gli stessi produttori entusiasti della Fox, nel
1989, a commissionare a Cameron una nuova pellicola piena di tanti effetti
speciali, veicoli strani e ambientazioni fantasiose, tutta ad
ambientazione acquatico/fantascientifica: The Abyss. The Abyss, che riportava
nel cast anche un attore-feticcio di Cameron come Michael Biehn, qui
nell’inedito ruolo di “cattivo con i baffi”. Fu un autentico calvario
produttivo. A partire dalla volontà di far fare il corso di sub a tutto il cast e
maestranze per poi girarlo alle Cayman (prime prove tecniche di sonoro, poi
cassate), poi cambiare idea e girarlo alle Bahamas (troppe tempeste), poi
cambiare tutto e girarlo allagando una centrale nucleare in Carolina del sud.
Ma a posteriori fu uno dei suoi film più amati e stimati. C’erano gli alieni, i
militari, tanti sottomarini come quello di Ballard che aveva esplorato il
Titanic e naturalmente mini-sottomarini con braccia meccaniche per espirazione oceanica
e addirittura progettazioni di super-hi/tech-basi a più livelli e trivellatori
sottomarini. Ma Cameron, senza contare gli enormi passi in avanti che fece fare
alla computer grafica per la creazione da zero di alieni “liquidi”, oltre
a tutto questo arsenale di modellini verosimili di veicoli e strutture
futuribili per Abyss, aveva pure immaginato una tecnologia semi-scientifica
sperimentale per dotare i sommozzatori “dell’ossigeno liquido”, necessario per
l’esplorazione delle fosse oceaniche per evitare l’esplosione delle bombole
tradizionali per l’alta pressione. Cameron ci credeva sempre di più nello
studio del mondo sommerso in tutte le sue componenti e non era più per lui solo
fantascienza, pareva che volesse andarci di persona sott’acqua, nella fossa
delle Marianne. Nel 1991 Cameron tornava al suo cyborg del cuore con Terminator
2, sviluppava la sua compagnia di effetti speciali cinematografici Digital
Domain, ma non si allontanava troppo “dall’acqua” e scriveva e produceva lo
stesso anno pure un film sui surfisti per la regia della sua nuova compagna
Kathryn Bigelow: Point Break. Surfisti con il volto di Keanu Reeves e Patrick
Swazie che per permettersi di vivere solcando le onde a più non posso
erano rapinatori di banche, ma anche un po’ filosofi e un po’ santoni:
degli hippie 2.0 per i quali l’incontro con le onde e in genere con la natura,
attraverso gli “sport estremi”, era una esperienza mistica, fusionale e
trascendente, simile a provare la ayahuasca. Una trascendenza che è alla base
anche del successivo film della Bigelow: Strange Days, con Ralph Fiennes,
Juliette Lewis e Angela Bassett. Un film anche questo realizzato in
collaborazione con Cameron. Un film thriller sci-fi su una tecnologia virtuale
che permetteva (attraverso una apparecchiatura che si connetteva con la
corteccia cerebrale) di rivivere le esperienze di vita di un’altra
persona. Il film si apriva con una scena (che verrà in qualche modo ripresa in
Avatar) in cui un uomo sulla sedia a rotelle riusciva, proprio attraverso a
questa tecnologia, a provare la sensazione di correre su una spiaggia con le
proprie gambe. Un film in cui le “esperienze forti”, come quelle da sport
estremo, si “vendevano”. Quella magia futuristica poteva far sentire chiunque
come gli scavezzacollo di Point Break, bellissimi e atleticissimi, e
concettualmente per Cameron poteva essere molto simile come esperienza al
“futuro del cinema”, solo che all’epoca il cinema non era dotato di una
tecnologia che permettesse una immersività nella scena e nei “panni dei
protagonisti” di quella portata. Per questo, almeno per il momento, Cameron
doveva saperne ancora di più sul concetto di “immersività“ e non c’era forse
modo migliore che “immergersi di persona nel 3d oceanico”. Dopo i piranha, gli
alieni sottomarini e i trivellatori hi-tech di Abyss, i surfisti filosofi di
Point Break e i “viaggiatori spirituali” di Strange Days, era giunto per
Cameron il momento di andare in mare direttamente lui. Nel 1997 sempre la Fox
produceva per Cameron Titanic, uno dei film di maggiore successo della storia
del cinema, premiato da pubblico e critica con centinaia di ore di repliche e
mille riconoscimenti, nonché l’occasione d’oro per il cineasta di approfondire
maniacalmente la tecnologia di Ballard che dal 1985 permetteva l’esplorazione
del fantomatico relitto. Nel documentario Ghost of the Abyss del 2003 Cameron
affrontava ancora più nello specifico la storia dell’affondamento del Titanic,
senza tirare in ballo questa volta Leonardo di Caprio. Nel 2005 nel
documentario Aliens of the deep, Cameron insieme a dei membri della NASA
arrivava a esplorare una catena montuosa sottomarina con un sommergibile
le cui specifiche sono state elaborate da idee di James Cameron stesso. Il
ragazzino che al liceo aveva scritto un racconto sugli alieni che vivono in
fondo al mare stava andando in cerca di creature rare negli abissi oceanici, su
un sommergibile fatto da lui, dopo essere diventato uno dei registi
cinematografici più influenti e pagati al mondo. Un po’ come Leonardo Da Vinci,
per qualcuno. Quel mondo marino misterioso e in gran parte inesplorato ispirò
nel 2009 il mondo di Pandora protagonista di Avatar. Un mondo che Cameron creò
pezzo per pezzo, fin dal più piccolo dettaglio, insieme a un plotone di
scienziati esperti di flora e fauna, dai muschi alle pietre fluttuanti. Un
mondo alieno ma se vogliamo molto simile a una visione del nostro mondo, se
vivessimo in maggiore armonia e equilibrio con la natura e gli effetti
speciali. Un mondo dove dei grandi alberi fungono da “coscienza collettiva
trascendente”, che collegano la dimensione dei vivi a quella dei morti.
Un mondo in cui il legame tra umani e animali è suggellato a livello spirituale
quanto fisico da collegamenti neurali. Un mondo che sembra l’America dei
pellerossa al momento dell’invasione “ultra-tecnologica” dei cowboy. Un mondo
al quale è possibile accedere solo attraverso dei “corpi” altrui, attraverso una
tecnologia sci-fi, ma che al cinema più essere goduto al meglio per mezzo di
una ulteriore e specifica tecnologia 3d, studiata sempre da Cameron con la
creazione di macchine da prese ad hoc, che proprio da Avatar ha iniziato a
farsi largo nelle sale (anche se dopo poco per costi e un livello tecnico non
sempre pari ai lavori di Cameron è un po’ uscita di scena). Nel primo Avatar
l’acqua non era la componente principale del film, ma in questo La via
dell’acqua del 2022, 13 anni dopo il primo film, ci possiamo immergere in un
nuovo mondo sottomarino alieno pieno di colori e stranezze. Godere di questa
pellicola in una sala cinematografica dotata del meglio della tecnologia 3D e
Audio è una esperienza unica che offre davvero un nuovo livello di interazione
e coinvolgimento con lo schermo cinematografico. Non male per un regista
licenziato al primo film perché non abbastanza bravo a dirigere un paio di
scene sott’acqua in un horror low budget.
Avatar secondo atto:
Avatar torna nelle sale con un comparto
tecnico impressionante, offrendo una delle esperienze cinematografiche più
interessanti e avvolgenti che una sala in 3d può oggi offrire, specie dopo il
lungo periodo in cui tale tecnologia è sembrata cadere in disuso. È un film
poderoso nelle sue oltre tre ore di durata, ma che riesce a ripagare il
pubblico con una storia di ampio respiro, descrive uno sviluppo armonioso del
legame tra uomo e natura, riesce a cogliere con particolare cura e leggerezza
la natura sottile e speciale dei rapporti tra genitori e figli. L’atmosfera
calda e rarefatta, unita alla brillantezza dei colori e all'armonia
trascendente della partitura orchestrale della colonna sonora, avvicinano
esteticamente La via dell’acqua a pellicole di Malick come La sottile linea
rossa e L’albero della vita. Sul piano dell’azione La via dell’acqua omaggia in
un fresco e originale modo fantasy, carico di ingegnose soluzioni visive, gli inseguimenti al treno e gli scontri tra indiani e cowboy del genere
western, quanto le avventurose e tese cacce alla balena del più celebre romanzo
di Melville. La cinematografia e lo stile di Cameron sono onnipresenti ed è
molto facile seguire tracce di stile che ci portano tra gli esoscheletri e
marines di Aliens Scontro Finale, come tra i “drogati dell’azione” di Point
Break, tra le creature marine luminose di Abyss, in mezzo a enormi navi e
“astro-navi” che colano a picco, rompendosi dall’interno e allagandosi come in
Titanic. Nel personaggio di Stephen Lang, come nella prima pellicola, ci sono
un po’ delle tracce del Terminator di Schwarzenegger, il Jake di Worthington ci
ricorda il Kyle Reese / il caporale Hicks di Michael Biehn e in Zoe
Saldana scorre un po’ di Sarah Connor e Ripley. Cameron gioca narrativamente
con gli archetipi (nel primo Avatar c’erano echi di Pocahontas, non a caso
come ne Il nuovo mondo di Malick), scegliendo di partire da personaggi
all’apparenza semplici per poi costruirli in modi anche piuttosto interessanti
intorno a temi come la paternità, il ruolo sociale e la necessità di venire a
contatto con persone che appaiono diverse per cultura quanto per “forma
fisica”. Jake e Miles nello specifico vivono durante il film molte esperienze
speculari che li rendono più interessanti e strutturati di quanto
accadesse nel primo film. Ma ciò che alla pellicola riesce al meglio è di farci
tuffare per tre ore in un mondo davvero unico e alieno, in un viaggio che è prima
di tutto sensoriale piuttosto che narrativo, mettendoci a contatto con
creature digitali fantasiose quanto internamente coerenti, immergendoci in
fondali oceanici ricolmi di pesci colorati e fosforescenti e facendoci volare
sulle ali di creature anfibie simili a pesci volanti. Seguendo una tavolozza
visiva a tinte contrastate quanto abbagliante che ci rimanda alle tavole di
Moebius quanto di Vicente Segrelles, quanto all'arte grafica digitale di
Martin Edmondson per i Reflections. Un autentico spettacolo visivo.
Conclusioni: Avatar torna nelle sale con un film bello lungo ma pieno di azione, spunti, colori e atmosfera. Un film da assaporare se riuscite nella migliore sala possibile, magari con un impianto sonoro SDDS, con lo schermo avvolgente, con gli occhialini 3d, il pop corn, la bibita, la poltrona comoda. È un'esperienza sensoriale appagante e oggi al cinema quanto mai unica nel suo genere, una dimostrazione concreta dello spettacolo che un'ottima sala cinematografica può offrire per superare ancora i sempre più elevati standard della visione casalinga. Tre ore che ci portano in un altro mondo, a tutti gli effetti. Un po’ una piccola vacanza da noi stessi, a leggerla in un modo che piacerebbe a Philip K. Dick, ma in uno spettacolo che pur nelle semplificazioni piacerebbe magari anche a Frank Herbert. Cameron torna in sala dopo 13 anni e lo fa a modo suo, in grande stile, settando nuovi livelli per quello che dobbiamo aspettarci da qui in futuro per un film di fantascienza e azione. Tre ore a volte possono sembrare tante, le tematiche più prettamente spirituali e ambientaliste possono alle volte apparire toste, ma lo spettacolo è qui davvero gigantesco e La via dell’acqua sa offrire un'esperienza davvero da provare.
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