giovedì 29 dicembre 2022

Avatar - la via dell’acqua: la nostra recensione dell’attesissimo nuovo capitolo della saga cinematografica fantasy/sci-fi di James Cameron

 


Sinossi: tredici anni dopo le vicende della prima pellicola siano di nuovo sul pianeta Pandora, a seguire le vicende del popolo Na’vi contro gli invasioni del “popolo del cielo”. Dopo la cacciata degli invasori terresti da Pandora c’è stato un lungo periodo di pace, con l’avatar ex-Marine Jake Sully (Sam Worthington) e la na’vi Neytiri (Zoe Saldana) che hanno messo su famiglia e adottato anche una piccola nata dall’avatar della dottoressa Grace (Sigurney Weaver) e un misterioso ragazzino umano. Jake è ora a capo del suo popolo e cerca di conciliare come meglio gli riesce i compiti di leader militare e di genitore. Tra i due fratelli più grandi viene a instaurarsi un legame non dissimile da quello che legava Jake e il suo fratello gemello, con uno che si sente un po’ la pecora nera della famiglia. Il padre guida entrambi in un percorso di crescita, insegnandogli a cacciare e diventare adulti, mentre Naytiri ha un po’ dimesso gli abiti della guerriera per quelli della madre amorevole. Ma l’equilibrio si rompe con il ritorno del popolo del cielo, tra le cui fila milita anche il clone-Avatar del terribile colonnello Miles (Stephen Lang). La famiglia di Jake sembra presto essere il principale bersaglio di Miles e del suo esercito personale di Avatar-marines e Jake e i suoi saranno costretta a lasciare la foresta che è sempre stata la loro casa per fuggire altrove, magari trovando momentaneo rifugio presso i Na’vi del popolo dell’acqua: un popolo con cui finora non hanno avuto molti rapporti e in cui pure il corpo appare più simile a quello di esseri acquatici rispetto a quello di un primate. Tuttavia anche gli invasori sembrano interessati al popolo dell’acqua per via di una miracolosa sostanza che si può ricavare dalle creature, simili a balene e megattere, che vivono in quelle terre. Sarà forse l’inizio di una nuova guerra. 

 


La personale “Via dell’acqua” di Cameron:

C’era una volta James Cameron. Un tredicenne, figlio di un ingegnere, che dopo una lezione del liceo sui fondali sottomarini scrisse di getto una sceneggiatura, su degli scienziati che venivano in contatto con una civiltà extraterrestre che viveva in fondo al mare. Divenuto un quasi laureando di fisica, nutrendo all’epoca infinite passioni che spaziavano dalla fantascienza alla filosofia e ovviamente ricomprendevano ancora i mondi sommersi, un giovane Cameron del 1977, folgorato dalle Guerre Stellari di Lucas, sognò di diventare anche lui un regista cinematografico. Avrebbe fatto quello “da grande”, cioè da lì a un anno circa, realizzando i migliori film con gli effetti speciali possibili. Nel 1978 grazie solo alla sua fortissima convinzione, spinse un consorzio di dentisti californiani a produrgli un cortometraggio, scritto e diretto da lui, ambientato nello spazio e a base di alieni: Xenogenesis. Quel lavoro piacque molto a livello visivo al produttore Roger Corman, che volle Cameron agli effetti speciali prima nel 1980, per il divertente I magnifici sette nello spazio e poi nel 1981, per quella follia camp de Il pianeta del terrore. Ma Cameron piaceva molto pure a John Carpenter, che lo volle sempre nel 1981 sul set ad aiutarlo per il leggendario 1997: fuga da New York e sempre in quell’anno Cameron interessò tantissimo al cinema italiano, che lo avrebbe fatto debuttare alla regia con il b-movie Piranha Paura. Un film ambientato sott’acqua come lui aveva sempre sognato dal liceo. Solo che con Piranha Paura le cose non andarono benissimo e presto Cameron venne licenziato, si dice proprio per la poca dimestichezza con i set ambientati sott’acqua. Fu un duro colpo per quella carriera già partita in modo folgorante: “l’acqua lo aveva fregato”, ma Cameron non si arrese e giurò che da grande avrebbe fatto i migliori film con gli effetti speciali ambientati sott’acqua. Così, per fregio. Ma prima “della rivincita sull’acqua”, la leggenda dice che il grande regista ebbe una intossicazione alimentare (forse dovuta a una frittura di pesce? Era sempre la “maledizione dell’acqua”?) sul set di Piranha Paura, in seguito alla quale fu ricoverato in un ospedale dove, in una notte da incubo, sognò “il Terminator”. Una macchina-soldato invincibile proveniente dal futuro e che sarebbe diventata il soggetto della sua prima pellicola da regista, nel 1984. Sembra che per convincere i produttori a girare Terminator, Cameron abbia vestito/truccato da Terminator il suo amico e attore Lance Henricksen, facendolo irrompere nella casa di produzione durante la presentazione del progetto, armato di mitragliatori, occhiali neri e giubbotto in pelle, provocando svariati buffi infarti. Con un budget risicato ma ottimi effetti di trucco/visivi, una trama cupa quanto esaltante e una interprete eccezionale come Linda Hamilton, Terminator piacque, incassò, fece decollare la carriera di Arnold Schwarzenegger con buona pace dì Henricksen che non ebbe la parte, e spinse Cameron nel 1985 a puntare di nuovo sulla storia di un’altra macchina-soldato invincibile, scrivendo la sceneggiatura di Rambo 2 la vendetta. Lo scritto però non piacque a uno Stallone che sembra abbia riscritto tutto da capo da solo, di notte, trasformandolo nel razzie award per la peggiore sceneggiatura di quell’anno, che fu accreditato ovviamente pure a Cameron. Cameron era triste di nuovo ma di lì a poco, sempre in quel 1985, l’oceanografo Robert Ballard scoprì il relitto del Titanic e il regista iniziò ad appassionarsi a quella storia e ritornò all’idea di realizzare un maestoso film ambientato sott’acqua come in quel racconto che aveva realizzato ai tempi del liceo. Era il 1986 e un Cameron con “ancora addosso” il successo di Terminator come ottimo biglietto da visita, ci riprovava. Tornava alla regia con un film dal budget non troppo alto, ma che contava di meravigliosi effetti visivi, che parlava di alieni come il suo primo cortometraggio, quanto di macchine-soldato invincibili, sia in campo di supersoldati che di Terminator. Era il fantascientifico, orrorifico, bellico e satirico Aliens - Scontro Finale, seguito di Alien di Ridley Scott: un film subito cult che avrebbe “anticipato tematicamente e cinematograficamente” un adattamento del romanzo Fanteria dello Spazio del 1959 (quanto ispirato la serie di giochi di ruolo con soldatini Warhammer 40000), avrebbe avuto per protagonista una ottima interprete come Sigurney Weaver e avrebbe permesso all’amico Lance Henricksen di recitare più o meno in un ruolo da Terminator. A livello di fantascienza, oltre alle basi spaziali, gli alieni e i robot, c’erano nel film vari velivoli militari hi-tech e pure degli esoscheletri con braccia meccaniche simili a quelle dei sottomarini impiegati nell’esplorazione oceanica. Fu un clamoroso successo che spinse gli stessi produttori entusiasti della Fox, nel 1989, a commissionare a Cameron una nuova pellicola piena di tanti effetti speciali, veicoli strani e ambientazioni fantasiose, tutta ad ambientazione acquatico/fantascientifica: The Abyss. The Abyss, che riportava nel cast anche un attore-feticcio di Cameron come Michael Biehn, qui nell’inedito ruolo di “cattivo con i baffi”. Fu un autentico calvario produttivo. A partire dalla volontà di far fare il corso di sub a tutto il cast e maestranze per poi girarlo alle Cayman (prime prove tecniche di sonoro, poi cassate), poi cambiare idea e girarlo alle Bahamas (troppe tempeste), poi cambiare tutto e girarlo allagando una centrale nucleare in Carolina del sud. Ma a posteriori fu uno dei suoi film più amati e stimati. C’erano gli alieni, i militari, tanti sottomarini come quello di Ballard che aveva esplorato il Titanic e naturalmente mini-sottomarini con braccia meccaniche per espirazione oceanica e addirittura progettazioni di super-hi/tech-basi a più livelli e trivellatori sottomarini. Ma Cameron, senza contare gli enormi passi in avanti che fece fare alla computer grafica per la creazione da zero di alieni “liquidi”,  oltre a tutto questo arsenale di modellini verosimili di veicoli e strutture futuribili per Abyss, aveva pure immaginato una tecnologia semi-scientifica sperimentale per dotare i sommozzatori “dell’ossigeno liquido”, necessario per l’esplorazione delle fosse oceaniche per evitare l’esplosione delle bombole tradizionali per l’alta pressione. Cameron ci credeva sempre di più nello studio del mondo sommerso in tutte le sue componenti e non era più per lui solo fantascienza, pareva che volesse andarci di persona sott’acqua, nella fossa delle Marianne. Nel 1991 Cameron tornava al suo cyborg del cuore con Terminator 2, sviluppava la sua compagnia di effetti speciali cinematografici Digital Domain, ma non si allontanava troppo “dall’acqua” e scriveva e produceva lo stesso anno pure un film sui surfisti per la regia della sua nuova compagna Kathryn Bigelow: Point Break. Surfisti con il volto di Keanu Reeves e Patrick Swazie che per permettersi di vivere solcando le onde a più non posso erano rapinatori di banche, ma anche un po’ filosofi e un po’ santoni: degli hippie 2.0 per i quali l’incontro con le onde e in genere con la natura, attraverso gli “sport estremi”, era una esperienza mistica, fusionale e trascendente, simile a provare la ayahuasca. Una trascendenza che è alla base anche del successivo film della Bigelow: Strange Days, con Ralph Fiennes, Juliette Lewis e Angela Bassett. Un film anche questo realizzato in collaborazione con Cameron. Un film thriller sci-fi su una tecnologia virtuale che permetteva (attraverso una apparecchiatura che si connetteva con la corteccia cerebrale) di rivivere le esperienze di vita di un’altra persona. Il film si apriva con una scena (che verrà in qualche modo ripresa in Avatar) in cui un uomo sulla sedia a rotelle riusciva, proprio attraverso a questa tecnologia, a provare la sensazione di correre su una spiaggia con le proprie gambe. Un film in cui le “esperienze forti”, come quelle da sport estremo, si “vendevano”. Quella magia futuristica poteva far sentire chiunque come gli scavezzacollo di Point Break, bellissimi e atleticissimi, e concettualmente per Cameron poteva essere molto simile come esperienza al “futuro del cinema”, solo che all’epoca il cinema non era dotato di una tecnologia che permettesse una immersività nella scena e nei “panni dei protagonisti” di quella portata. Per questo, almeno per il momento, Cameron doveva saperne ancora di più sul concetto di “immersività“ e non c’era forse modo migliore che “immergersi di persona nel 3d oceanico”. Dopo i piranha, gli alieni sottomarini e i trivellatori hi-tech di Abyss, i surfisti filosofi di Point Break e i “viaggiatori spirituali” di Strange Days, era giunto per Cameron il momento di andare in mare direttamente lui. Nel 1997 sempre la Fox produceva per Cameron Titanic, uno dei film di maggiore successo della storia del cinema, premiato da pubblico e critica con centinaia di ore di repliche e mille riconoscimenti, nonché l’occasione d’oro per il cineasta di approfondire maniacalmente la tecnologia di Ballard che dal 1985 permetteva l’esplorazione del fantomatico relitto. Nel documentario Ghost of the Abyss del 2003 Cameron affrontava ancora più nello specifico la storia dell’affondamento del Titanic, senza tirare in ballo questa volta Leonardo di Caprio. Nel 2005 nel documentario Aliens of the deep, Cameron insieme a dei membri della NASA arrivava a esplorare una catena montuosa sottomarina con un sommergibile le cui specifiche sono state elaborate da idee di James Cameron stesso. Il ragazzino che al liceo aveva scritto un racconto sugli alieni che vivono in fondo al mare stava andando in cerca di creature rare negli abissi oceanici, su un sommergibile fatto da lui, dopo essere diventato uno dei registi cinematografici più influenti e pagati al mondo. Un po’ come Leonardo Da Vinci, per qualcuno. Quel mondo marino misterioso e in gran parte inesplorato ispirò nel 2009 il mondo di Pandora protagonista di Avatar. Un mondo che Cameron creò pezzo per pezzo, fin dal più piccolo dettaglio, insieme a un plotone di scienziati esperti di flora e fauna, dai muschi alle pietre fluttuanti. Un mondo alieno ma se vogliamo molto simile a una visione del nostro mondo, se vivessimo in maggiore armonia e equilibrio con la natura e gli effetti speciali. Un mondo dove dei grandi alberi fungono da “coscienza collettiva trascendente”, che collegano la dimensione dei vivi a quella dei morti. Un mondo in cui il legame tra umani e animali è suggellato a livello spirituale quanto fisico da collegamenti neurali. Un mondo che sembra l’America dei pellerossa al momento dell’invasione “ultra-tecnologica” dei cowboy. Un mondo al quale è possibile accedere solo attraverso dei “corpi” altrui, attraverso una tecnologia sci-fi, ma che al cinema più essere goduto al meglio per mezzo di una ulteriore e specifica tecnologia 3d, studiata sempre da Cameron con la creazione di macchine da prese ad hoc, che proprio da Avatar ha iniziato a farsi largo nelle sale (anche se dopo poco per costi e un livello tecnico non sempre pari ai lavori di Cameron è un po’ uscita di scena). Nel primo Avatar l’acqua non era la componente principale del film, ma in questo La via dell’acqua del 2022, 13 anni dopo il primo film, ci possiamo immergere in un nuovo mondo sottomarino alieno pieno di colori e stranezze. Godere di questa pellicola in una sala cinematografica dotata del meglio della tecnologia 3D e Audio è una esperienza unica che offre davvero un nuovo livello di interazione e coinvolgimento con lo schermo cinematografico. Non male per un regista licenziato al primo film perché non abbastanza bravo a dirigere un paio di scene sott’acqua in un horror low budget. 

 


Avatar secondo atto:

Avatar torna nelle sale con un comparto tecnico impressionante, offrendo una delle esperienze cinematografiche più interessanti e avvolgenti che una sala in 3d può oggi offrire, specie dopo il lungo periodo in cui tale tecnologia è sembrata cadere in disuso. È un film poderoso nelle sue oltre tre ore di durata, ma che riesce a ripagare il pubblico con una storia di ampio respiro, descrive uno sviluppo armonioso del legame tra uomo e natura, riesce a cogliere con particolare cura e leggerezza la natura sottile e speciale dei rapporti tra genitori e figli. L’atmosfera calda e rarefatta, unita alla brillantezza dei colori e all'armonia trascendente della partitura orchestrale della colonna sonora, avvicinano esteticamente La via dell’acqua a pellicole di Malick come La sottile linea rossa e L’albero della vita. Sul piano dell’azione La via dell’acqua omaggia in un fresco e originale modo fantasy, carico di ingegnose soluzioni visive, gli inseguimenti al treno e gli scontri tra indiani e cowboy del genere western, quanto le avventurose e tese cacce alla balena del più celebre romanzo di Melville. La cinematografia e lo stile di Cameron sono onnipresenti ed è molto facile seguire tracce di stile che ci portano tra gli esoscheletri e marines di Aliens Scontro Finale, come tra i “drogati dell’azione” di Point Break, tra le creature marine luminose di Abyss, in mezzo a enormi navi e “astro-navi” che colano a picco, rompendosi dall’interno e allagandosi come in Titanic. Nel personaggio di Stephen Lang, come nella prima pellicola, ci sono un po’ delle tracce del Terminator di Schwarzenegger, il Jake di Worthington ci ricorda  il Kyle Reese / il caporale Hicks di Michael Biehn e in Zoe Saldana scorre un po’ di Sarah Connor e Ripley. Cameron gioca narrativamente con gli archetipi (nel primo Avatar c’erano echi di Pocahontas, non a caso come ne Il nuovo mondo di Malick), scegliendo di partire da personaggi all’apparenza semplici per poi costruirli in modi anche piuttosto interessanti intorno a temi come la paternità, il ruolo sociale e la necessità di venire a contatto con persone che appaiono diverse per cultura quanto per “forma fisica”. Jake e Miles nello specifico vivono durante il film molte esperienze speculari che li rendono più interessanti e strutturati di quanto accadesse nel primo film. Ma ciò che alla pellicola riesce al meglio è di farci tuffare per tre ore in un mondo davvero unico e alieno, in un viaggio che è prima di tutto sensoriale piuttosto che narrativo, mettendoci a contatto con creature digitali fantasiose quanto internamente coerenti, immergendoci in fondali oceanici ricolmi di pesci colorati e fosforescenti e facendoci volare sulle ali di creature anfibie simili a pesci volanti. Seguendo una tavolozza visiva a tinte contrastate quanto abbagliante che ci rimanda alle tavole di Moebius quanto di Vicente Segrelles, quanto all'arte grafica digitale di Martin Edmondson per i Reflections. Un autentico spettacolo visivo.


Conclusioni: Avatar torna nelle sale con un film bello lungo ma pieno di azione, spunti, colori e atmosfera. Un film da assaporare se riuscite nella migliore sala possibile, magari con un impianto sonoro SDDS, con lo schermo avvolgente, con gli occhialini 3d, il pop corn, la bibita, la poltrona comoda. È un'esperienza sensoriale appagante e oggi al cinema quanto mai unica nel suo genere, una dimostrazione concreta dello spettacolo che un'ottima sala cinematografica può offrire per superare ancora i sempre più elevati standard della visione casalinga. Tre ore che ci portano in un altro mondo, a tutti gli effetti. Un po’ una piccola vacanza da noi stessi, a leggerla in un modo che piacerebbe a Philip K. Dick, ma in uno spettacolo che pur nelle semplificazioni piacerebbe magari anche a Frank Herbert. Cameron torna in sala dopo 13 anni e lo fa a modo suo, in grande stile, settando nuovi livelli per quello che dobbiamo aspettarci da qui in futuro per un film di fantascienza e azione. Tre ore a volte possono sembrare tante, le tematiche più prettamente spirituali e ambientaliste possono alle volte apparire toste, ma lo spettacolo è qui davvero gigantesco e La via dell’acqua sa offrire un'esperienza davvero da provare. 

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