Ci troviamo in un’Italia di dieci anni
fa, nelle vicinanze di un fitto bosco autunnale, un po’ a giocare a nascondino
e un po’ in cerca di funghi in compagnia di un giovane papà e una bambina di
otto anni, Irene. È una giornata fredda ma divertente e la ricerca sta dando
buoni frutti, quando all’improvviso cambia tutto. La bambina corre tra
gli alberi, chiama il padre ma lui a un certo punto non le risponde più. Poi
lei trova il suo corpo, riverso ai margini di una strada sterrata. È stato
travolto da un’auto alla cui guida c’è un uomo, che ora fissa Irene. La guarda
negli occhi senza che lei possa farlo altrettanto bene, perché i suoi
lineamenti sono in parte nascosti dietro il vetro dell’auto, su cui si riflette
la luce del sole e i rami del bosco. Dopo un momento che pare infinito l’uomo
riparte e la bambina rimane da sola, cercando di imprimersi a fondo i pochi
dettagli di quel volto che è riuscita a immagazzinare: la forma del mento, le
linee del capo, la corporatura. Dettagli che confronterà ossessivamente con
tutti i volti che incontrerà in futuro, ritraendo tutti gli uomini che la
circondano con dei piccoli identikit realizzati con sempre più maestria. Irene
diventa grande ma non diventa una ritrattista. Ha bisogno di qualcosa su cui
sfogare la rabbia di quella perdita e la frustrazione di non trovare il
colpevole. Al liceo è una “ragazza difficile” (che ora ha il volto di
Aurora Giovinazzo), ma trasformando quella rabbia in grinta diviene anche una
piccola stella del nuoto agonistico. Dopo una gara particolarmente tesa
in cui per pochi millesimi arriva seconda, Irene molla un pugno alla vincitrice
che si burla di lei della sconfitta, guadagnando una sospensione dalle
competizioni. Decisa a mollare tutto, Irene abbandona la scuola e lo sport e trova fortunosamente lavoro in una fabbrica isolata nei campi, lontano da tutto
e da tutti. La fabbrica ha un gran numero di operai per lo più stranieri ed è
gestita da un giovane proprietario di nome Michele (Lorenzo Richelmy). Michele
è un uomo riservato e taciturno, si dice dal passato non cristallino, ma subito prende a cuore la storia della ragazza come se sentisse di “doverle
qualcosa” da molto tempo. Riuscire ad aiutare Irene in questo momento delicato
e confuso della sua vita, magari riuscire a farle tornare l’amore per il
nuoto, per lui diventa qualcosa di importante. Tra i due nasce un legame
speciale, frutto anche di un modo simile nell’osservare le persone e il mondo,
nella scelta di vivere la vita un po’ in disparte propria di chi ha sofferto.
La forte amicizia arriva quasi all’affetto, ma rimane “bloccata” nel fatto che
in realtà Michele nasconde qualcosa che non renderà possibile questo
rapporto.
Presentato al Festival del Cinema di
Roma nella rassegna Alice nella città, il film dell’esordiente Gianluca
Mangiasciutti porta in scena un interessante dramma psicologico scritto da
Serena Cervoni e Mariano Di Nardo, valorizzato da un linguaggio cinematografico
quasi da thriller scandinavo e dalla convincente interpretazione dei due giovani
e molto promettenti attori principali. Aurora Giovinazzo di recente era in
Freaks Out di Gabriele Mainetti, in un ruolo toccante e sfaccettato che le è
valso la candidatura a migliore attrice ai David di Donatello. Lorenzo Richelmy
lo abbiamo visto nel fortunato Il talento del Calabrone, nel ruolo del deejay a
fianco di un “esplosivo” Sergio Castellitto. È bello vederli insieme in questo
“dramma a due”, vestire i panni di personaggi al contempo combattenti e
combattuti, fragili quanto cazzuti, in perenne bilico tra se stessi e un mondo
ingrato. È un mondo ingrato da periferia post-industriale come quello evocato
dall’Acciaio di Silvia Avallone, ruvido quanto di cuore, pieno di boschi e
lunghe strade nel nulla intervallate da tavole calde. Una terra di confine da
western crepuscolare dove i personaggi di Irene e Michele si rincorrono,
inseguiti da un destino che emotivamente “prende forma” anche attraverso una
colonna sonora presente e pressante, con forti sottolineature “ansiogene”,
quasi da horror/slasher anni ‘80. L’uomo della strada si dimostra lodevole anche attraverso
un intreccio particolarmente originale, sviluppando una trama che
può stimolare il dibattito odierno sulla cosiddetta giustizia riparativa. È un
tema che abbraccia il campo giuridico quanto quello sociale nell’immaginare un
nuovo modo per costruire relazioni umane laddove è più difficile, laddove le
parti di una relazione sono una vittima e il reo dello stesso crimine. Un
argomento così difficile e complesso che “per farsi strada”, per essere
ulteriormente sviluppato a livello sociale, ha bisogno di studi sul campo
ma anche di storie, trovare voci anche nel cinema. Mangiasciutti sembra
avere particolare sensibilità e attenzione nell’affrontare una storia che a
tutti gli effetti può parlarci di giustizia riparativa e la visione di questa
pellicola può essere da stimolo se inserita nell’ambito di un convegno su
questo tema.
L’uomo sulla strada è una pellicola veloce, dalla narrazione priva di fronzoli e con buoni interpreti. È un film che descrive al meglio “la carezza in un pugno”, come canterebbe Celentano. Una buona prima prova per Gianluca Mangiasciutti, un regista in grado di mediare in modo originale tra thriller e ed emotività, che ora attendiamo nei suoi prossimi lavori con ancora più attenzione.
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