Catturare o costruire un’immagine,
magari la più estrema, ricca e roboante possibile, facendo uso di
centinaia di comparse, esplosivi, ricche scenografie, cavalli, inseguimenti in
auto, nani e ballerine, spade e fucili, draghi, regine e danzatrici del ventre,
vampiri e clown. Era diventato questo in breve il lavoro di Hollywood: essere
una fabbrica dei sogni che realizzava e vendeva al pubblico emozioni, stupore e
adrenalina, commozione e risate che non avrebbe mai vissuto così “in grande”,
in modo tanto spettacolare quanto definito. Il pubblico apprezzava e ne voleva
sempre di più. In breve il “successo” del cinema divenne per chi ne
fruiva, come per chi lo creava, una sorta di “dipendenza” da quelle immagini
lucenti, ardite, cariche di contrasti, passione e bellezza e caos. Al punto
che i soldi che iniziarono a girare furono enormi, facendo sentire i produttori
al pari di autentici re ed elevando gli attori a “divi”. Vivere una vita di
eccessi, dentro e fuori dalla pellicola, era diventato per chi faceva parte del
cinema uno status symbol da celebrare, in feste pantagrueliche degne degli
imperatori romani, cariche di ogni eccesso e sfoggio di grandezza. Una
grandezza che il giovane, volenteroso e squattrinato Manuel “Manny” Torres
(Diego Calva) era sicuro di raggiungere, un giorno non troppo lontano,
anche quando come galoppino di un importante produttore era intento a spingere
su una strada di montagna un veicolo in panne che stava precipitando a valle,
con all’interno un elefante spaventato. L’animale, terrorizzato al punto da
coprire Manny di escrementi e vomito, era l’attrazione principale di una grande
festa che si teneva in una villa sulle colline dove ci sarebbero stati balli,
sesso, alcol, musicisti e ballerine, divi e ricchi produttori. Alla festa
sarebbe arrivata in cerca di fortuna anche la determinata e sorridente Nellie LaRoy (Margot Robbie), bellissima ragazzaccia di umili origini in
vestito attillatissimo rosso fuoco, pronta a conquistare il suo primo ruolo
d’attrice facendo sapientemente uso delle sue grazie. Sul posto era invece già
arrivato e aveva già infranto un cuore il grande Jack Conrad (Brad Pitt),
l’attore e sex symbol del momento: un tipo capace con la sua “intensità
scenica” di risultare aggraziato e romantico in video, anche quando
completamente ubriaco e assonnato. Tra i molti musicisti chiamati ad intrattenere
gli invitati c’era il trombettista di colore Sidney Palmer (Jovan
Adepo), che per seguire questi eventi mondani aveva lasciato i club di musica
jazz. Come performer canora d’eccezione era presente un’artista eclettica,
poetessa e autrice dei testi cinematografici (quelli tra una scena e l’altra),
dall’aria esotica quanto misteriosa: madame Fay Zhu (Li Jun Li). Quella festa
avrebbe cambiato la vita di molti, dando loro la possibilità di accedere a un
mondo in cui chi aveva un bel viso e buona volontà poteva emergere, con un po’
di sana spavalderia e improvvisazione. I set erano dei piccoli mondi brulicanti
di ogni tipo di umanità, intenti a girare senza sosta più film lo stesso
giorno, con le comparse a cavallo che prima erano cowboy e poi guerrieri
medioevali che vorticavano in massa davanti alle macchine da presa, tra
esplosioni, vertenze sindacali, materiale di scena che si rompeva e qualche
sinistra morte accidentale. Anche Nellie LaRoy scopriva sul set di essere in
grado di avere una “intensità scenica”: riusciva a piangere a comando, da
qualsiasi occhi le fosse richiesto. Presto divenne famosa come Conrad,
diventando una beniamina dei rotocalchi a cui affibbiavano continui flirt. Ma
il successo di quella Hollywood non sarebbe durato molto. Il giro di affari
avrebbe stuzzicato presto l’interessante di gangster sinistri come
James McKay (Tobey Maguire). Cinici giornalisti come Elinor St.John (Jean
Smart) avrebbero stroncato anzitempo la carriera di divi “non più di moda”,
padri-manager improvvisati come Robert Roy (Eric Roberts) avrebbero mandato in
bancarotta delle stelle nascenti con infauste operazioni bancarie. C’era aria
di recessione, guerra e razzismo, ma il “danno più enorme” per il cinema lo fece
il sonoro. Non era più possibile recitare con la sola “intensità scenica”,
occorrevano lo studio, la giusta dizione e la pazienza infinita di rifare più
volte la stessa scena, nel caso che i primi rudimentali sistemi di
registrazione audio non funzionassero a dovere. I set si riempirono sempre
più di professionalità, di stress, di nuove morti accidentali, di personale
ultra qualificato. Questo portò un forte mutamento, anche nelle vite stesse
degli attori, produttori e registi. Nel caos la necessità di gestire sul
set una più rigida prospettiva di lavoro, dove lo spazio di scena, i microfoni e
le luci non potevano essere spostati, favorì lo sviluppo soprattutto di
un genere in particolare: il musical. Oltre alla necessità di doversi adeguare
a questa nuova onda, si aggiunse un fenomeno imprevisto, strano quanto
inaspettato: i film in cui i divi del muto per la prima volta parlavano non
vennero capiti e accettati e poteva non essere solo una questione di dizione o
mestiere. Era strano sentirli parlare, forse perché la voce di un divo era
all’epoca già stata “immaginata” dagli spettatori nella propria testa,
risultando qualcosa di molto differente dalla realtà. Era successo qualcosa di
simile alla vecchia Babilonia biblica, in cui per punirli della loro arroganza
Dio condannò gli abitanti a parlare delle nuove lingue, che li avrebbero
costretti a non capirsi più tra di loro. Chi sarebbe sopravvissuto a questo
drammatico avvento del sonoro?
C’è davvero “tutto” in Babylon.
È un’opera poderosa e complessa, ben
strutturata nella messa in scena, con una colonna sonora travolgente, non a
caso premiata con lode dalla critica. Davvero eccellente la come sempre
bellissima Margot Robbie, impegnata in una continua sfida di bravura che trova l’apice
in una scena in cui il suo personaggio è tenuto a ripetere la stessa scena una
decina di volte. Ogni tanto la sua Nellie ci ricorda nei tratti
Harley Queen o la sua Sharon Tate, ma per ora va benissimo così, finché
l’interpretazione della Robbie è così vitale, complessa e coinvolgente. Brad
Pitt crea un Jack Conrad che per movenze e modo di esprimersi (almeno in
lingua originale) sembra un parente stretto del suo tenente Aldo Raine di
Bastardi senza gloria. I tempi di Troy in cui appariva ancora come un “dio
dorato” (Almost Famous cit.) appaiono lontani ma Pitt sa farne tesoro, lavora su
malinconia, umiltà e autoironia e non ha paura nel rappresentare la
frustrazione di un attore famoso che scopre di non saper recitare.
Molto affascinanti i personaggi interpretati da Jovan Adepo e da Li Jun Li: il
trombettista e la “poetessa del muto”. Ci raccontano il mondo degli “addetti ai
lavori” all’ombra di Hollywood, che negli anni '20 erano spesso appartenenti a
minoranze etniche provenienti da un tessuto sociale povero e in cerca di
fortuna. Sono personaggi pieni di sfaccettature, valorizzate da alcuni dei
dialoghi più interessati, e Chazelle li mette spesso al centro di
meravigliosi momenti musicali.
Malinconica e “bonariamente crudele” la
giornalista interpretata da Jean Smart, a cui si deve il monologo più caustico
e sofferto della pellicola, quello sulle “regole del successo”.
Tobey Maguire si diverte un mondo a
recitare la parte del malavitoso dall’aria diabolica e non vediamo l’ora di
vederlo su un set con Nicolas Cage in un ipotetico remake di Nosferatu. Più
convenzionale del resto del cast il personaggio del bravo Diego Calva, che in
tutto il caos della pellicola deve per forza di cose essere l’unico “normale”,
la nostra guida in questo allucinato paese dei balocchi.
Babylon ci ha sorpreso, travolto e rapito per 195 minuti che sono sembrati un attimo. Ottimi gli interpreti, grandiosa la messa in scena, da godere sul più grande schermo e con il miglior comparto sonoro che trovate in zona. Babylon è grande cinema e l’ennesimo, affettuoso, manifesto alla settima arte che esce nelle sale in questo periodo, tra One Second di Zhang Yimou e Fabelmans di Steven Spielberg. Ogni tanto il cinema ha bisogno anche di parlare di se stesso, specie quando è sopravvissuto a una crisi importante come quella degli ultimi anni e anche per questo dobbiamo volergli un po’ bene. Gustatevi Babylon in sala, con il cellulare spento per tre ore e 19. Ne varrà la pena.
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Veramente un'opera enorme, che è riuscita a riconciliarmi con Chazelle dopo un paio di film non particolarmente apprezzati. Andrei a rivederlo anche ora!
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