giovedì 26 gennaio 2023

Babylon: la nostra recensione del nuovo film di Damien Chazelle con Brad Pitt e Margot Robbie

 


Los Angeles, anni 20 del novecento. C’era una volta la grande Hollywood, nata e crescita come la massima espressione del potere del cinema sull’immaginazione. La pellicola era in bianco e nero e muta, con le sale cinematografiche che offrivano un accompagnamento sonoro a parte, ruspante, spesso con musica dal vivo. La narrazione di un film avveniva mediante dei testi che intervallavano le immagini su schermo e “riassumevano” quanto veniva mostrato a video, sospendendo di qualche secondo l’azione. Senza la necessità di dover dire delle battute e padroneggiare la dizione, agli attori cinematografici era richiesta una capacità recitativa che non andava oltre il sembrare a proprio agio nel gestire le emozioni 
sul quel video senza sonoro: potremmo chiamarla “intensità scenica”. Con pochi gesti, accennando con la bocca qualche parola e con uno sguardo appropriato, potevano apparire magnifici o seducenti, arcigni o tragici: perfetti modelli plastici impressi su una tela in nitrato d’argento. Volti in grado di carpire il tormento e l’estasi, l’ebbrezza e malinconia di una “vita di celluloide" che veniva creata dalla macchina da presa, scattando ventiquattro fotogrammi al secondo. 


Catturare o costruire un’immagine, magari la più estrema, ricca e roboante possibile, facendo uso di centinaia di comparse, esplosivi, ricche scenografie, cavalli, inseguimenti in auto, nani e ballerine, spade e fucili, draghi, regine e danzatrici del ventre, vampiri e clown. Era diventato questo in breve il lavoro di Hollywood: essere una fabbrica dei sogni che realizzava e vendeva al pubblico emozioni, stupore e adrenalina, commozione e risate che non avrebbe mai vissuto così “in grande”, in modo tanto spettacolare quanto definito. Il pubblico apprezzava e ne voleva sempre di più. In breve il  “successo” del cinema divenne per chi ne fruiva, come per chi lo creava, una sorta di “dipendenza” da quelle immagini lucenti, ardite, cariche di contrasti, passione e bellezza e caos. Al punto che i soldi che iniziarono a girare furono enormi, facendo sentire i produttori al pari di autentici re ed elevando gli attori a “divi”. Vivere una vita di eccessi, dentro e fuori dalla pellicola, era diventato per chi faceva parte del cinema uno status symbol da celebrare, in feste pantagrueliche degne degli imperatori romani, cariche di ogni eccesso e sfoggio di grandezza. Una grandezza che il giovane, volenteroso e squattrinato Manuel “Manny” Torres (Diego Calva) era sicuro di raggiungere, un giorno non troppo lontano,  anche quando come galoppino di un importante produttore era intento a spingere su una strada di montagna un veicolo in panne che stava precipitando a valle, con all’interno un elefante spaventato. L’animale, terrorizzato al punto da coprire Manny di escrementi e vomito, era l’attrazione principale di una grande festa che si teneva in una villa sulle colline dove ci sarebbero stati balli, sesso, alcol, musicisti e ballerine, divi e ricchi produttori. Alla festa sarebbe arrivata in cerca di fortuna anche la determinata e sorridente Nellie LaRoy (Margot Robbie), bellissima ragazzaccia di umili origini in vestito attillatissimo rosso fuoco, pronta a conquistare il suo primo ruolo d’attrice facendo sapientemente uso delle sue grazie. Sul posto era invece già arrivato e aveva già infranto un cuore il grande Jack Conrad (Brad Pitt), l’attore e sex symbol del momento: un tipo capace con la sua “intensità scenica” di risultare aggraziato e romantico in video, anche quando completamente ubriaco e assonnato. Tra i molti musicisti chiamati ad intrattenere gli invitati c’era il trombettista di colore Sidney Palmer (Jovan Adepo), che per seguire questi eventi mondani aveva lasciato i club di musica jazz. Come performer canora d’eccezione era presente un’artista eclettica, poetessa e autrice dei testi cinematografici (quelli tra una scena e l’altra), dall’aria esotica quanto misteriosa: madame Fay Zhu (Li Jun Li). Quella festa avrebbe cambiato la vita di molti, dando loro la possibilità di accedere a un mondo in cui chi aveva un bel viso e buona volontà poteva emergere, con un po’ di sana spavalderia e improvvisazione. I set erano dei piccoli mondi brulicanti di ogni tipo di umanità, intenti a girare senza sosta più film lo stesso giorno, con le comparse a cavallo che prima erano cowboy e poi guerrieri medioevali che vorticavano in massa davanti alle macchine da presa, tra esplosioni, vertenze sindacali, materiale di scena che si rompeva e qualche sinistra morte accidentale. Anche Nellie LaRoy scopriva sul set di essere in grado di avere una “intensità scenica”: riusciva a piangere a comando, da qualsiasi occhi le fosse richiesto. Presto divenne famosa come Conrad, diventando una beniamina dei rotocalchi a cui affibbiavano continui flirt. Ma il successo di quella Hollywood non sarebbe durato molto. Il giro di affari avrebbe stuzzicato presto l’interessante di gangster sinistri come James McKay (Tobey Maguire). Cinici giornalisti come Elinor St.John (Jean Smart) avrebbero stroncato anzitempo la carriera di divi “non più di moda”, padri-manager improvvisati come Robert Roy (Eric Roberts) avrebbero mandato in bancarotta delle stelle nascenti con infauste operazioni bancarie. C’era aria di recessione, guerra e razzismo, ma il “danno più enorme” per il cinema lo fece il sonoro. Non era più possibile recitare con la sola “intensità scenica”, occorrevano lo studio, la giusta dizione e la pazienza infinita di rifare più volte la stessa scena, nel caso che i primi rudimentali sistemi di registrazione audio non funzionassero a dovere. I set si riempirono sempre più di professionalità, di stress, di nuove morti accidentali, di personale ultra qualificato. Questo portò un forte mutamento, anche nelle vite stesse degli attori, produttori  e registi. Nel caos la necessità di gestire sul set una più rigida prospettiva di lavoro, dove lo spazio di scena, i microfoni e le luci non potevano essere spostati, favorì lo sviluppo soprattutto di un genere in particolare: il musical. Oltre alla necessità di doversi adeguare a questa nuova onda, si aggiunse un fenomeno imprevisto, strano quanto inaspettato: i film in cui i divi del muto per la prima volta parlavano non vennero capiti e accettati e poteva non essere solo una questione di dizione o mestiere. Era strano sentirli parlare, forse perché la voce di un divo era all’epoca già stata “immaginata” dagli spettatori nella propria testa, risultando qualcosa di molto differente dalla realtà. Era successo qualcosa di simile alla vecchia Babilonia biblica, in cui per punirli della loro arroganza Dio condannò gli abitanti a parlare delle nuove lingue, che li avrebbero costretti a non capirsi più tra di loro. Chi sarebbe sopravvissuto a questo drammatico avvento del sonoro? 


Damien Chazelle, il geniale regista e sceneggiatore di Whiplash, La La Land e First Man, torna al cinema con un film sotto tutti i punti di vista “gigantesco”, per celebrare al meglio la grandiosità e gli eccessi della Hollywood dell’epoca d’oro del muto. Ne è uscita una pellicola dalla durata poderosa di 195 minuti, costruita su macro-sequenze dal montaggio incrociato cariche di scenografie sfarzose, movimenti di camera complessi, numeri musicali onirici e satirici, scene d’azione con un esercito di comparse, effetti visivi a non finire, momenti intimisti quanto epici, sequenze fortemente sensuali come drammatiche, persino qualche excursus nel genere horror e non solo. Un mare magnum barocco che punta a una visione così olistica del cinema da soffrire di un mal celato horror vacui, ma che nonostante lo “stordimento” riesce sempre a trovare una sua grazia espositiva, affascinando tanto per la sua messa in scena magniloquente quanto per i ritratti dei suoi personaggi, umani quanto dolentemente realistici. Nella mega-festa Hollywoodiana che apre il film riecheggiano suggestioni visive e sonore che sembrano prese in prestito dalle opere di Fellini come dall’Underground di Emir Kusturica. Nelle caotiche scene sul set si avverte lo humor nero dei Monty Python, la sequenza con Tobey Maguire disegna un dantesco viaggio all’inferno che rievoca il calderone infernale di Melies quanto il Nosferatu di Murnau e quasi ci porta nel “futuro del cinema” dello slasher movie. C’è del western, nel modo in cui Manny cerca di risolvere una vertenza sindacale “importante”, come c’è un po’ del cinema crepuscolare di Viale del tramonto e naturalmente, come in quasi tutta la filmografia di Chazelle, è presente il musical. Un musical che viene dipinto ancora una volta, come in La la land, in una chiave aspra quanto malinconica, solare quanto ingannevole, con il regista qui intenzionatissimo a farci cambiare per sempre la percezione di uno dei più grandi classici della storia del musical. Rimango dell’idea che Chazelle abbia dei “conti in sospeso” con il genere musical, che andranno magari a manifestarsi ulteriormente nelle sue future pellicole. Babylon nell’antologico groviglio in cui si inerpica si trasforma progressivamente in una lettera d’amore al cinema vera e propria, sentita quanto sofferta, rivolta a “tutto il cinema” del passato, presente e futuro. Ma al contempo riesce a inquadrarsi perfettamente nella poetica di Chazelle, raccontando storie di personaggi le cui passioni si trasformano in ossessioni, spingendoli oltre i limiti verso spirali grandiose quanto autodistruttive. Guardando gli attori del muto di Babylon ritornano in mente l’insegnante e l’allievo di Whiplash, con i muscoli tesi e la rabbia pulsante con cui si confrontano e scontrano nella creazione del brano jazz definitivo, giocando nel campo dell’arte il tutto per tutto, a discapito della propria carriera e salute. Ogni tanto viene facile trovare similitudini con le atmosfere di C’era una volta a Hollywood di Tarantino, ragionando sui personaggi in parte speculari interpretati da Pitt e la Robbie in entrambe le pellicole, ma Babylon parla di “attori particolari”, se vogliamo più vicini a quelli descritti da Boogie Nights di Paul Thomas Anderson. Sono persone che vivono lo “stato incerto del successo”, catapultate nello star system un po’ per caso, magari solo perché hanno un bel viso o un corpo atletico. Persone con passioni e sogni che vengono elogiate e poi masticate dal sistema con pari indifferenza, come fossero pezzi di carne intercambiabili, da gettare via preferendogli persone più giovani o “più fresche”. Una realtà tragica per gli attori del muto di ieri, ma che potrebbe non essere dissimile oggi a quello a cui potrebbero andare incontro quelli che possono essere considerati per similitudine i “nuovi divi”, ossia le nuove generazioni di influencer resi noti dai social. 


C’è davvero “tutto” in Babylon.

È un’opera poderosa e complessa, ben strutturata nella messa in scena, con una colonna sonora travolgente, non a caso premiata con lode dalla critica. Davvero eccellente la come sempre bellissima Margot Robbie, impegnata in una continua sfida di bravura che trova l’apice in una scena in cui il suo personaggio è tenuto a ripetere la stessa scena una decina di volte.  Ogni tanto la sua Nellie ci ricorda nei tratti Harley Queen o la sua Sharon Tate, ma per ora va benissimo così, finché l’interpretazione della Robbie è così vitale, complessa e coinvolgente. Brad Pitt crea un Jack Conrad che per movenze e modo di esprimersi (almeno in lingua originale) sembra un parente stretto del suo tenente Aldo Raine di Bastardi senza gloria. I tempi di Troy in cui appariva ancora come un “dio dorato” (Almost Famous cit.) appaiono lontani ma Pitt sa farne tesoro, lavora su malinconia, umiltà e autoironia e non ha paura nel rappresentare la frustrazione di un attore famoso che scopre di non saper recitare.  Molto affascinanti i personaggi interpretati da Jovan Adepo e da Li Jun Li: il trombettista e la “poetessa del muto”. Ci raccontano il mondo degli “addetti ai lavori” all’ombra di Hollywood, che negli anni '20 erano spesso appartenenti a minoranze etniche provenienti da un tessuto sociale povero e in cerca di fortuna. Sono personaggi pieni di sfaccettature, valorizzate da alcuni dei dialoghi più interessati, e Chazelle li mette spesso al centro di meravigliosi momenti musicali. 

Malinconica e “bonariamente crudele” la giornalista interpretata da Jean Smart, a cui si deve il monologo più caustico e sofferto della pellicola, quello sulle “regole del successo”.

Tobey Maguire si diverte un mondo a recitare la parte del malavitoso dall’aria diabolica e non vediamo l’ora di vederlo su un set con Nicolas Cage in un ipotetico remake di Nosferatu. Più convenzionale del resto del cast il personaggio del bravo Diego Calva, che in tutto il caos della pellicola deve per forza di cose essere l’unico “normale”, la nostra guida in questo allucinato paese dei balocchi. 

Babylon ci ha sorpreso, travolto e rapito per 195 minuti che sono sembrati un attimo. Ottimi gli interpreti, grandiosa la messa in scena, da godere sul più grande schermo e con il miglior comparto sonoro che trovate in zona. Babylon è grande cinema e l’ennesimo, affettuoso, manifesto alla settima arte che esce nelle sale in questo periodo, tra One Second di  Zhang Yimou e Fabelmans di Steven Spielberg. Ogni tanto il cinema ha bisogno anche di parlare di se stesso, specie quando è sopravvissuto a una crisi importante come quella degli ultimi anni e anche per questo dobbiamo volergli un po’ bene. Gustatevi Babylon in sala, con il cellulare spento per tre ore e 19. Ne varrà la pena. 

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1 commento:

  1. Veramente un'opera enorme, che è riuscita a riconciliarmi con Chazelle dopo un paio di film non particolarmente apprezzati. Andrei a rivederlo anche ora!

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