Siamo in una grande città della Corea
del Sud dei giorni nostri. Il più giovane Ispettore della prefettura centrale è
l’investigatore Jang Hae-Joon (Park Har-Il), un uomo scrupoloso quanto
accorto, coraggioso e ligio al dovere quanto sensibile, empatico. Un uomo che
per tutti avrebbe fatto tanta strada. Le indagini hanno portato Jang Hae-Joon a
occuparsi di una giovane ragazza di origine cinese sospettata di omicidio, che
di professione è un’infermiera che assiste degli anziani, Song Seo-Rae (Tai
Wai). L’ispettore la torchia sorvegliandola giorno e notte assiduamente, fino a
dormire in macchina sotto casa sua. Ma senza mai apparire invadente, senza mai
giudicarla e mostrandosi anzi carino in ogni circostanza. Anche quando deve
interrogarla alla centrale, l’ispettore si ritaglia del tempo per pranzare con
lei nell’ufficio delle indagini, ordina il migliore cibo da asporto e alla fine
le porta pure uno spazzolino, monouso, per lavarsi i denti. Per Song Seo-Rae è
un comportamento da uomo gentile e “di altri tempi”, simile agli eroi degli
sceneggiati in costume della televisione che segue per imparare il coreano. Un
uomo decisamente migliore di quello che era suo marito: un funzionario
dell’immigrazione manesco e corrotto che parlava tutto il giorno solo della sua
unica passione: la montagna. Gli aveva voluto bene quando lei era diventata
l’oggetto principale del suo lavoro: quando aveva fatto accertamenti su di lei
dopo che da immigrata clandestina era arrivata in Corea su una nave, rischiando
la vita. Ma quell’amore si era presto spento. Da una montagna infine era
caduto, forse spinto da qualcuno o forse “caduto da solo”, suicida, per il senso
di colpa di essere stato colto con le mani nel sacco per delle somme di denaro
illecite.
La donna appare all’ispettore sollevata
e attenta, mentre lui le racconta le dinamiche della morte. Vuole vedere le
foto delle rilevazioni, ascoltare ogni dettaglio, fare domande e deduzioni.
Song Seo-Rae per Jang Hae-Joon possiede un modo di pensare simile al suo,
in grado di seguirlo nei medesimi percorsi mentali. Forse lei può capirlo più
della moglie e magari aiutarlo nel suo lavoro. Un giorno l’ispettore
arriva a mostrarle le foto di alcuni casi su cui sta indagando e la donna
effettivamente gli fornisce lo spunto per trovare un assassino. Per Jang
Hae-Joon di sicuro non può essere lei la colpevole dell’omicidio del
marito: è una donna intelligente, troppo onesta e gentile, che la sera si occupa di
vecchietti e di giorno guarda in tv sceneggiati per imparare una lingua che mastica
ancora poco. La comunicazione tra i due è stimolante anche per via di questa
differenza linguistica. La donna quando deve esprimere dei concetti complessi
parla in cinese, con un programma di traduzione del cellulare che
successivamente traduce ogni frase in coreano con una voce meccanica. Spesso
trovano utile e rapido scambiarsi dei messaggi scritti e vocali, che però
riascoltano e conservano, cercando di capire “le parole più complicate” che
nella rispettiva lingua non esistono. Diventa presto un rapporto modo simile a
una relazione epistolare, con la voce meccanica del traduttore vocale che
ogni tanto si pone tra i due come “nuncio”, come un valletto che riferisce le
comunicazioni negli sceneggiati in costume. Ogni tanto i due fantasticano
immaginandosi vestiti con degli abiti tradizionali. Sembra amore. Poi
l’indagine prende una piega strana e l’ispettore viene mandato in esilio nella
provincia, dove l’incarico più eccitante sembra occuparsi dei furti di
testuggini marine compiute da degli estemporanei ladri in bici.
L’ispettore sembra caduto in una
profonda depressione e la moglie lo sente sempre più distante, così evanescente
da essere poco interessante. Poi però un giorno, al mercato, quella sospettata
di origine cinese torna nella sua vita. Cercando di ricucire una relazione dai
contorni sempre più strani, inquietanti, quasi impossibili. Una relazione che
per lei può essere possibile e appagante solo se l’ispettore tornerà ad
avere nei suoi confronti le stesse attenzioni che le dedicava quanto la riteneva
colpevole di omicidio, quando era l’oggetto principale del suo lavoro.
Il regista Park-Chan Wook, torna nelle
sale con un thriller psicologico con protagonisti la magnifica Tang Wei (che
ha esordito nel 2007 in Lussuria di Ang Lee) e il divo Park Hae-il (che
abbiamo visto in Memorie di un assassino, di Bong Joon-ho). È una storia che
all’inizio sembra portarci nei territori di Attrazione Fatale e Basic Instinct,
ma che presto vira e prende la forma di un elegante e raffinato, ma anche
parecchio surreale, gioco platonico sullo stile di In The mood of love di Wong
Kar-Wai. Un In the mood of love quindi “fieramente targato” Park-Chan Wook,
pervaso dalle sue tipiche invenzioni visive folli e dal suo animo
narrativo metamorfico. È un film che nel raccontare questa strana relazione
sentimentale passa con grazia e sprezzo del pericolo dal thriller all’action,
dal dramma sentimentale al comico e infine arriva al melodramma “enorme e
simbolico/pittorico”, senza perdere mia una sua identità e anzi rendendo i
personaggi sempre più interessanti e sfaccettati. Sul campo delle invenzioni
visivo/narrative accennavamo sopra al peculiare “linguaggio” misto
cinese/coreano che la coppia cerca di incastrare in un continuo “lost in
translation”, attraverso traduttori vocali e messaggi registrati (che è
qualcosa di molto originale e affascinante), come abbiamo accennato alla
passione dei due per gli sceneggiati in costume, ma il regista non si
limita certo a questo. Veniamo lanciati in un caleidoscopio fatto di omicidi in
free climbing (con indagini in free climbing tra il realistico e il
surreale), testimoni/vecchietti reticenti amanti di una stessa canzoncina
tradizionale (“La nebbia”, che sentiremo più volte), tartarughe di mare rapite
che mordono, guanti in maglia di ferro per gli scontri all’arma bianca che
sembrano in dotazione standard nella polizia coreana. Poi una marea di
“passioni strane”. La passione strana per gli spazzolini monouso (che magari
in Corea è una cosa normalissima portarsi in tasca pronti all’uso degli
spazzolini monouso verdi), la passione strana per il burro cacao a uso erotico
(da usare per metterlo sulle labbra del partner), la passione strana per gli
strumenti di rilassamento per il sonno stile bombole di ossigeno (…) e poi il
top: quella serie di feticismi correlati che potremmo far rientrare nella
categoria “feticismo del detective/indiziato”. Che è tutto un “annusarsi e
ispezionarsi a distanza”: con l’ispettore che guarda il cestino dei rifiuti e
si immagina l’indiziata che fa il the, con l’indiziata che quando parla al
telefono se lo immagina come davanti a sé ma con la voce del cellulare, con i
due che si mettono le manette per tenersi la mano come fossero anelli nuziali.
Sono tutte idee che basterebbe per cinque film ma che il regista di Old Boy
elargisce tutte insieme, dando alla pellicola un sapore tutto particolare che i
due ottimi interpreti riescono a cogliere e gestire con gusto e originalità. Il
film ha una durata sulle due ore, ma le continue sorprese messe in campo
rendono la visione molto fluida, sempre in attesa di qualcosa di nuovo.
Bellissima la fotografia, che passa dalle luci fredde della metropoli ai colori
caldi/ tenui di un villaggio di provincia per arrivare al gelo di un mare
notturno, rappresentato in modo quasi magico ed epico con onde giganti come nei
quadti di Hokusai.
Decision to leave è il nuovo film di un regista che ha una visione gioiosamente olistica del cinema e non vuole farsi incasellare, capace di passare dalla sua celebre Trilogia della vendetta (Mr Vendetta, Old Boy, Lady Vendetta) al sexy horror vampirico (Thrist), a una fantascienza gentile (I’m a cyborg but It’s ok), al racconto erotico in costume (Mademoiselle), al noir americano Hitchcockiano (Stoker). Un esploratore dei generi che in ogni sua opera infonde “contaminazioni di genere” di ogni tipo, ardite quanto originali. Decision to leave continua questa gioiosa tradizione, riuscendo a coinvolgerci e sorprenderci con idee sempre interessanti e con un’ottima coppia di interpreti. Qualcuno vorrebbe Park-Chan Wook solo relegato “ai thriller”, specialmente dopo aver visto Old Boy e non avendo capito che in Old Boy c’erano dentro almeno sessanta generi di film diversi, tra cui il thriller. Noi siamo contenti che esistano ancora registi così ricchi di immaginazione e stile e non possiamo che consigliarvi caldamente la visione di questa nuova opera di Park-Chan Wook. Non vedrete più allo stesso modo delle manette, le dolci tartarughe marine e le buche sulla spiaggia che fanno i bambini. Questo è il potere del cinema.
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