Ci troviamo in un luogo al di fuori del
tempo e dello spazio, una zona montuosa rossastra carica di polveri e nebbia,
sulla quale è costruita una città austera quanto spoglia, simile a un unico
grande mausoleo. È un luogo solenne quanto bizzarro, che in alcuni tratti
architettonici ricorda il purgatorio dantesco di Gustave Dore’ e per l’atmosfera sinistra e impalpabile ci rimanda agli albori “horror” del cinema,
al Calderone infernale di George Melies. Tuttavia questi luoghi spaventosi sono
pervasi anche di un pizzico di pura follia satirica in stile Monty Python, uno
“sberleffo” che si fa apprezzare mettendosi in piena luce, su una balconata che
si pone orgogliosamente al di sopra e davanti a quelle architetture gotiche e
contorte: un bell’orinatoio a cielo aperto. Simpatiche latrine attaccate al
muro con triplici tubi di scarico (chissà perché i triplici tubi di scarico,
poi...), senza finestre, muretti divisori od orpelli a coprirne la funzione d’uso
con pietosa privacy: il trionfo scenico dei cessi a vista. A fare “i loro
bisogni” su questo palcoscenico mesto contornato da una cornice sontuosa, con lo
sguardo tenuto oltre l’orizzonte per cercare di nobilitarsi un po’, ci sono
“degli” Hitler, “degli” Stalin, “dei” Mussolini e “dei” Winston Churchill.
Tutti sono “al plurale”, copie di se stessi con vestiti e movenze da fonti,
periodi storici e occasioni diverse. Questi “condottieri” fanno quello
che devono con le latrine e poi si disperdono sulla piana. Piccoli gruppi di
Hitler confabulano tra di loro pensosi, ripetendo “perché in vita non hanno
scelto come compagna la figlia di Wagner?” oppure “Perché non hanno raso al
suolo Londra o Parigi quando potevano farlo?” I Mussolini si complimentano tra
di loro per l’innata eleganza e portamento, gli Stalin cercano di conquistare
alleati con la loro generosità e i loro vini, i Churchill sembrano ignorare
tutti e sono sempre in disparte, alle prese con un enorme telefono militare da
campo con cui cercano di contattare la Regina. Ognuno parla la sua lingua (i
sottotitoli sono quindi utili) e in genere nessuno ascolta troppo cosa hanno da
dirgli gli altri gruppi: tutti si limitano a parlare di se stessi e della loro
grandezza, più simili a “piccoli sciami” che a personaggi. Poi il loro potere e
influenza si manifesta, reale quanto le latrine, solido come le convinzioni più
granitiche. Succede che in questo luogo tanto simile al purgatorio appaiano
delle masse oceaniche di anime che simili a enormi onde si avvicinano alla rocca elevata dove si trovano questi potenti del passato. Il popolo delle
anime dalle strade li acclama, intona festante inni in loro onore (che
ricordano per solennità anche il primo atto del Boris Godunov), li ringrazia,
si commuove e piange. Questi “sciami di potenti” sono compiaciuti, ebbri e
sorridenti, quasi non si curano delle poche anime che invece di cantare
sussurrano parole d’odio, li vorrebbero con loro all’inferno dove li hanno portati
e non pare nemmeno essere troppo distante da lì. Un po’ di gloria, i doverosi
ringraziamenti alle folle e poi, diradatasi l’onda, i grandi tornano alle
latrine e aspettano. Aspettano il loro turno per parlare con Dio. Dio sta
al termine di un enorme salone pieno di colonne dall’aria austera, dietro a una
porta chiusa dalla quale si intuisce venga irradiata una luce infinita. Nessuno
sembra in grado di varcare quel confine. Di fatto i condottieri sono bloccati
in quello strano mondo da tanto, tantissimo tempo, come chi fa la coda alle
poste, nello stesso contrappasso dantesco. La porta si socchiude, qualcuno
diceb“tornate più tardi” e poi si richiude e in attesa di un nuovo tentativo
tutti ritornano sui loro passi. La routine di una attesa infinita. Un Hitler
non si spiega questo stallo metafisico, perché “nel suo progetto” non erano
contemplati degli stalli metafisici. Un Mussolini per ammazzare il tempo cerca
di ingelosire uno Stalin, ricordandogli che Lenin lo avrebbe preferito a lui.
Uno o due Churchill continuano a cercare la Regina al telefono da campo,
inascoltati come tutti i loro fratelli. Qualcuno si fa coraggio ripentendo il
discorso di Dunkirk. C’è anche Gesù in quel luogo, che si desta dal sonno dal
suo sepolcro nella stessa posa del Cristo Morto di Mantegna. I
condottieri cercano di farselo amico, lo considerano in fondo un “ragazzino” e
per questo facile da circuire, magari per avere qualche favore presso suo
Padre. Ma Gesù neanche li ascolta, asceticamente e divinamente è annoiatissimo,
stufo di dover aspettare la procedura che lo tiene rilegato in quel luogo da
tempo immemore per il solo fatto che deve essere “lui l’ultimo a chiudere il
varco”, forse per la faccenda dell'apocalisse. Un altro personaggio che ogni
tanto il gruppo rincorre è Napoleone. Anche se nessuno sembra essere mai
riuscito a incrociarlo, tutti si vantano di averlo fatto. Forse è più fantasma
di loro o forse ha convinto Dio a spostarlo altrove: nessuno ne è certo e
quindi tutti la trovano una cosa impossibile. L’attesa è tanta, troppa, ma la
gioia di incontrare periodicamente le folle oceaniche festanti spinge gli
sciami dei condottieri a tirare avanti. Una camminatina, una capatina alle
latrine, guardare l’orizzonte e rifare lo stesso giro un’altra volta. Forse per
sempre.
Come La corazzata Potemkin di
Ejzenstejn, Fairytale ha il fascino di una creatura filmica che vive al di
fuori delle regole del tempo e dello spazio. È un film che sovverte il
linguaggio del cinema: frantuma ogni orizzonte visivo dilatandolo e rendendo
labirintica ogni inquadratura, de-centra continuamente i personaggi da ogni
trama ed evoluzione, terrorizza nelle forme e nei modi una storia che dovrebbe
magari apparire sulla carta buffa. Perché il soggetto è sì buffo, quasi da
barzelletta nei presupposti, ma presto affonda in una satira nerissima, in una
filosofia esistenzialista tragica da rivaleggiare con il più autentico
pessimismo cosmico. Lo spettatore, forse l’unico vero protagonista/ospite di
questa visione artistica, è spinto a perdersi nello schermo come accade nella
celebre sindrome di Stendhal. Tra tanti uomini-sciame in cerca di un centro di
gravità permanente che non sembra mai arrivare, tra questa città infinita e
polverosa dall’animo sepolcrale e quell’onda infinita carica di anime che accorrono
ad acclamare i potenti del mondo. Davanti agli occhi dello spettatore va in
scena la spettale parata di una umanità informe quanto illusa, condannata alla
coazione a ripetere gli stessi sbagli e stessa bandiere senza riconoscersi come
un unico popolo. I “grandi del mondo” appaiono tristi e autoreferenziali
specchi di una grandezza effimera. “L’onda delle anime” continua a celebrare
questi grandi come fossero delle divinità, quasi inconsapevole di non trovarsi
più sulla Terra ma in un mondo spirituale, dove essere di uno schieramento o
l’altro non ha più alcun valore. Sono tutti fantasmi che ripetono inconsapevoli
lo stesso percorso esistenziale e lo spettatore questo può coglierlo
plasticamente: la narrazione volutamente irregolare e frammentaria scelta
da Sokurov spinge a ragionare su come l’umanità anche davanti ai più
grandi misteri dell’esistenza continui a ricercare degli alibi divisivi,
ponendosi all’ombra “degli” Hitler, “degli” Stalin, “dei” Mussolini e
“dei” Churchill.
Di fatto possiamo parlare a tutti gli
effetti di un “cinema di spettri”, in quanto la pellicola è stata realizzata
estrapolando da filmati d’epoca i personaggi storici reali, rispettando la
sgranatura di contorni e fotogrammi, garantendo la sinistra evanescenza
lattescente del bianco e nero degli anni '40. Rincorrendo le tecniche del cinema
degli albori per la “macchinosità” dei movimenti di ripresa e le scelte di
scenografie pittorico/barocche il purgatorio di Sokurov diviene quasi un
non-luogo speculare alla Metropolis di Lang. Le musiche spesso mi matrice
classica e lirica chiudono il quadro ideale di una bella gita all’inferno come
la poteva organizzare solo un autore del cinema profondamente amante e
consapevole della potenza immaginifica di questo mezzo. Potremmo definire Fairytale la sua personale versione politico/esistenzialista del Canto di Natale di
Dickens.
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