mercoledì 4 gennaio 2023

Fairytale: la nostra recensione del film surreale, sarcastico e metafisico di Aleksander Sokurov

 


Ci troviamo in un luogo al di fuori del tempo e dello spazio, una zona montuosa rossastra carica di polveri e nebbia, sulla quale è costruita una città austera quanto spoglia, simile a un unico grande mausoleo. È un luogo solenne quanto bizzarro, che in alcuni tratti architettonici ricorda il purgatorio dantesco di Gustave Dore’ e per l’atmosfera sinistra e impalpabile ci rimanda agli albori “horror” del cinema, al Calderone infernale di George Melies. Tuttavia questi luoghi spaventosi sono pervasi anche di un pizzico di pura follia satirica in stile Monty Python, uno “sberleffo” che si fa apprezzare mettendosi in piena luce, su una balconata che si pone orgogliosamente al di sopra e davanti a quelle architetture gotiche e contorte: un bell’orinatoio a cielo aperto. Simpatiche latrine attaccate al muro con triplici tubi di scarico (chissà perché i triplici tubi di scarico, poi...), senza finestre, muretti divisori od orpelli a coprirne la funzione d’uso con pietosa privacy: il trionfo scenico dei cessi a vista.  A fare “i loro bisogni” su questo palcoscenico mesto contornato da una cornice sontuosa, con lo sguardo tenuto oltre l’orizzonte per cercare di nobilitarsi un po’, ci sono “degli” Hitler, “degli” Stalin, “dei” Mussolini e “dei” Winston Churchill. Tutti sono “al plurale”, copie di se stessi con vestiti e movenze da fonti, periodi storici e occasioni diverse. Questi “condottieri” fanno quello che devono con le latrine e poi si disperdono sulla piana. Piccoli gruppi di Hitler confabulano tra di loro pensosi, ripetendo “perché in vita non hanno scelto come compagna la figlia di Wagner?” oppure “Perché non hanno raso al suolo Londra o Parigi quando potevano farlo?” I Mussolini si complimentano tra di loro per l’innata eleganza e portamento, gli Stalin cercano di conquistare alleati con la loro generosità e i loro vini, i Churchill sembrano ignorare tutti e sono sempre in disparte, alle prese con un enorme telefono militare da campo con cui cercano di contattare la Regina. Ognuno parla la sua lingua (i sottotitoli sono quindi utili) e in genere nessuno ascolta troppo cosa hanno da dirgli gli altri gruppi: tutti si limitano a parlare di se stessi e della loro grandezza, più simili a “piccoli sciami” che a personaggi. Poi il loro potere e influenza si manifesta, reale quanto le latrine, solido come le convinzioni più granitiche. Succede che in questo luogo tanto simile al purgatorio appaiano delle masse oceaniche di anime che simili a enormi onde si avvicinano alla rocca elevata dove si trovano questi potenti del passato. Il popolo delle anime dalle strade li acclama, intona festante inni in loro onore (che ricordano per solennità anche il primo atto del Boris Godunov), li ringrazia, si commuove e piange. Questi “sciami di potenti” sono compiaciuti, ebbri e sorridenti, quasi non si curano delle poche anime che invece di cantare sussurrano parole d’odio, li vorrebbero con loro all’inferno dove li hanno portati e non pare nemmeno essere troppo distante da lì. Un po’ di gloria, i doverosi ringraziamenti alle folle e poi, diradatasi l’onda, i grandi tornano alle latrine e aspettano. Aspettano  il loro turno per parlare con Dio. Dio sta al termine di un enorme salone pieno di colonne dall’aria austera, dietro a una porta chiusa dalla quale si intuisce venga irradiata una luce infinita. Nessuno sembra in grado di varcare quel confine. Di fatto i condottieri sono bloccati in quello strano mondo da tanto, tantissimo tempo, come chi fa la coda alle poste, nello stesso contrappasso dantesco. La porta si socchiude, qualcuno diceb“tornate più tardi” e poi si richiude e in attesa di un nuovo tentativo tutti ritornano sui loro passi. La routine di una attesa infinita. Un Hitler non si spiega questo stallo metafisico, perché “nel suo progetto” non erano contemplati degli stalli metafisici. Un Mussolini per ammazzare il tempo cerca di ingelosire uno Stalin, ricordandogli che Lenin lo avrebbe preferito a lui. Uno o due Churchill continuano a cercare la Regina al telefono da campo, inascoltati come tutti i loro fratelli. Qualcuno si fa coraggio ripentendo il discorso di Dunkirk. C’è anche Gesù in quel luogo, che si desta dal sonno dal suo sepolcro nella stessa posa del Cristo Morto di Mantegna. I condottieri cercano di farselo amico, lo considerano in fondo un “ragazzino” e per questo facile da circuire, magari per avere qualche favore presso suo Padre. Ma Gesù neanche li ascolta, asceticamente e divinamente è annoiatissimo, stufo di dover aspettare la procedura che lo tiene rilegato in quel luogo da tempo immemore per il solo fatto che deve essere “lui l’ultimo a chiudere il varco”, forse per la faccenda dell'apocalisse. Un altro personaggio che ogni tanto il gruppo rincorre è Napoleone. Anche se nessuno sembra essere mai riuscito a incrociarlo, tutti si vantano di averlo fatto. Forse è più fantasma di loro o forse ha convinto Dio a spostarlo altrove: nessuno ne è certo e quindi tutti la trovano una cosa impossibile. L’attesa è tanta, troppa, ma la gioia di incontrare periodicamente le folle oceaniche festanti spinge gli sciami dei condottieri a tirare avanti. Una camminatina, una capatina alle latrine, guardare l’orizzonte e rifare lo stesso giro un’altra volta. Forse per sempre.


Come La corazzata Potemkin di Ejzenstejn, Fairytale ha il fascino di una creatura filmica che vive al di fuori delle regole del tempo e dello spazio. È un film che sovverte il linguaggio del cinema: frantuma ogni orizzonte visivo dilatandolo e rendendo labirintica ogni inquadratura, de-centra continuamente i personaggi da ogni trama ed evoluzione, terrorizza nelle forme e nei modi una storia che dovrebbe magari apparire sulla carta buffa. Perché il soggetto è sì buffo, quasi da barzelletta nei presupposti, ma presto affonda in una satira nerissima, in una filosofia esistenzialista tragica da rivaleggiare con il più autentico pessimismo cosmico. Lo spettatore, forse l’unico vero protagonista/ospite di questa visione artistica, è spinto a perdersi nello schermo come accade nella celebre sindrome di Stendhal. Tra tanti uomini-sciame in cerca di un centro di gravità permanente che non sembra mai arrivare, tra questa città infinita e polverosa dall’animo sepolcrale e quell’onda infinita carica di anime che accorrono ad acclamare i potenti del mondo. Davanti agli occhi dello spettatore va in scena la spettale parata di una umanità informe quanto illusa, condannata alla coazione a ripetere gli stessi sbagli e stessa bandiere senza riconoscersi come un unico popolo. I “grandi del mondo” appaiono tristi e autoreferenziali specchi di una grandezza effimera. “L’onda delle anime” continua a celebrare questi grandi come fossero delle divinità, quasi inconsapevole di non trovarsi più sulla Terra ma in un mondo spirituale, dove essere di uno schieramento o l’altro non ha più alcun valore. Sono tutti fantasmi che ripetono inconsapevoli lo stesso percorso esistenziale e lo spettatore questo può coglierlo plasticamente: la narrazione volutamente  irregolare e frammentaria scelta da Sokurov spinge a ragionare su come l’umanità anche davanti ai più grandi misteri dell’esistenza continui a ricercare degli alibi divisivi, ponendosi all’ombra “degli” Hitler, “degli” Stalin, “dei” Mussolini e “dei” Churchill. 

Di fatto possiamo parlare a tutti gli effetti di un “cinema di spettri”, in quanto la pellicola è stata realizzata estrapolando da filmati d’epoca i personaggi storici reali, rispettando la sgranatura di contorni e fotogrammi, garantendo la sinistra evanescenza lattescente del bianco e nero degli anni '40. Rincorrendo le tecniche del cinema degli albori per la “macchinosità” dei movimenti di ripresa e le scelte di scenografie pittorico/barocche il purgatorio di Sokurov diviene quasi un non-luogo speculare alla Metropolis di Lang. Le musiche spesso mi matrice classica e lirica chiudono il quadro ideale di una bella gita all’inferno come la poteva organizzare solo un autore del cinema profondamente amante e consapevole della potenza immaginifica di questo mezzo. Potremmo definire Fairytale la sua personale versione politico/esistenzialista del Canto di Natale di Dickens. 


Dopo la tetralogia del potere il grande autore russo non è ancora domo nel ricercare una forma di cinema che sappia essere insieme onirico quanto politico, intimo quanto epico. In un mondo in cui “le etichette sono tutto” per aiutare il consumatore alla migliore fruizione, Sokurov ci butta nel suo Fairytale senza alcun libretto di istruzioni, facendoci assaporare la vertigine e imponenza del suo cinema colto e surreale. A volersi immergere nel 2022 in una forma così astratta quanto elaborata di cinema, c’è forse il rischio di finire in ginocchio sui ceci a guardare L’esorciccio, come nel Secondo tragico Fantozzi. Ma è un’esperienza che va provata, magari anche solo per constatare che “non fa per noi”, assaporando tutti i densissimi e labirintici ottanta minuti di questo lungometraggio stranissimo quanto unico nel suo genere, per nulla addomesticato e che non vuole affatto sembrare lineare, semplice, accomodante. Decisamente non per tutti, ma l’ennesima testimonianza dello sconfinato potere immaginifico della settima arte, anche quando viene riportata a tecniche e linguaggi di quasi un secolo fa.

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