martedì 24 gennaio 2023

Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin): la nostra recensione del nuovo film drammatico di Martin McDonagh con Colin Farrell e Brendan Gleeson

 


Irlanda, 1923. Mentre dal mare riecheggiano le cannonate della guerra civile irlandese che si combatte nell’entroterra, ci troviamo sulla costa, nella piccola e “ipoteticamente pacifica” isola di Inisherin. È in questo posto sperduto che vivono il musicista Colm Doherty (Brendan Gleeson) e il pastore Padraic Suilleabhain (Colin Farrell). I due sono amici da sempre, metodicamente inseparabili al punto che alle due di ogni pomeriggio scendono al pub locale, prendono due birre e tirano fino alle due di notte, a chiacchierare e farsi compagnia. Padraic è un tipo segaligno sui quaranta che vive con la sorella Siobhan (Kerry Condon, vista anche in Better call Saul), ha l’aria mite e corrucciata ed è molto legato alla sua asinella, che tratta quasi come una bimba. Colm è un omone sui sessanta che sembra amare solo il violino e il suo cane, vive da solo in una casa diventata troppo grande, parla pochissimo ed è molto riservato. Due amici quando tra le anime di Inisherin c’è poco da scegliere, al netto di quei quattro o cinque ubriaconi del bar che parlano pochissimo e un paio di musicisti folk di passaggio. C’è la irritabile proprietaria della drogheria, che guarda tutti con i suoi occhi pungenti, fa continue domande, toglie il saluto se non hai sempre nuovi pettegolezzi da raccontarle, va in estasi quando ascolta storie cruente. C’è il viscido poliziotto locale (Gary Lydon), che ama compiere abusi sui deboli e gestire personalmente le esecuzioni pubbliche, perché poi gli offrono sempre il pranzo. C’è una vecchina inquietante dal sorriso sinistro (Sheila Flitton), che pare una strega ma anche “la morte” de Il settimo sigillo di Bergman: appare sempre di sorpresa da una zona in penombra, si muove spettrale lungo la costa, quando parla profetizza sventure o ricorda a tutti da quanti anni hanno perso i loro congiunti, citando ogni data di decesso con precisone assoluta. C’é il prete locale che giunge sull’isola la domenica su una barca, mite e bonaccione, ma con cui non è mai troppo facile aprirsi per gli isolani: fa domande troppo complicate e spinge le persone di parlare tra loro, entrambe attività “difficili”. C’è poi Dominic (Barry Keoghan), il giovane e dimesso figlio del poliziotto, che è un po’ stralunato ma di cuore. Di cuore un po’ come Siobhan, amante dei libri e dello sherry, che dovrebbe pensare più a se stessa a farsi una famiglia sua, lontana da quel posto. Forse Dominic e Siobhan se ne andranno un giorno da quell’isolotto, magari quando la guerra sarà finita o forse un po’ prima. Perché ora ad Inisherin è iniziata un’altra guerra, su scala più piccola ma non meno sanguinolenta, tra Com e Padraic. Il conflitto scoppia all’improvviso il primo di aprile, quasi fosse uno scherzo. 

Padraic, puntuale alle due, si presenta da Colm per andare insieme al pub, ma non lo trova in casa. La porta è chiusa, dalla finestra la poltrona del soggiorno su cui Colm è solito sedersi è vuota. Il pastore decide così di andare solo al pub, con tutte le persone che incontra nel tragitto che gli domandano quasi ossessivamente: “Perché non sei con Colm oggi? Non avrete mica litigato?”. Padraic beve da solo la sua pinta e solo dopo incrocia per caso l’amico, che non sembra intenzionato a parlargli per nessun motivo. Non è chiaro cosa abbia portato a questo mutismo e a questa distanza, che sembra farsi sempre più forte, ma dopo un paio di giorni di ricerca di chiarimenti Padraic scopre da Colm che a lui, quella amicizia, “non gli va più a genio”. Quelle che per uno erano “bellissime chiacchiere”, per l’altro erano diventate “tediosissime chiacchiere”. Le avvincenti serate a raccontarsi storie per uno, erano diventate per l’altro “due interminabili ore a parlare dei problemi gastrici della tua capra”. Qualcosa aveva cambiato il loro rapporto negli anni, anche se Colm non sapeva identificare “cosa”. Di sicuro senza stare ad ascoltare Padraic h24 il musicista avrebbe potuto comporre nuove canzoni: aveva calcolato che gli bastavano tre giorni per realizzare un brano e in tutto il tempo “di anni” che aveva “perso” a parlare con il pastore avrebbe potuto comporre tante opere grandiose, qualcosa da tramandare ai posteri. Per questo Colm dal primo di aprile aveva deciso che non sarebbero stati più amici e non avrebbero passato più del tempo insieme, neanche al pub. Padraic cerca di accettare la situazione pur nella sua eccessiva durezza, capisce che l’amico ha bisogno di ritagliarsi un suo tempo “tutto personale” e si fa da parte, si richiude un po’ in casa con la sua asinella, cerca di portare le pecorelle al pascolo ogni giorno come se nulla fosse, cerca magari di farsi amico Dominic nonostante le mille differenze dovute all’età, ma non è per niente felice. Siobhan, vedendo così giù il fratello, appena può cerca di prendere a male parole Colm e in quel momento il musicista si rende conto che forse con Padraic è stato troppo duro, ma sente di non aver potuto fare altrimenti. Passano i giorni. Poi però Padraic si accorge che Colm non ha problemi a parlare con praticamente tutti gli altri abitanti dell’isola salvo lui, perdendo con loro il tempo che perdeva prima con lui, al punto da stare ora al pub a brindare insieme a quell’assurdo e violento poliziotto locale. Padraic vuole così dare fine a quella assurdità per tornare amici come prima e ogni volta che ha a tiro Colm vuole un confronto, fino a che il musicista gli intima con forza di smettere di cercarlo o parlare con lui: se non lo lascerà stare, lui si taglierà ogni volta un dito delle sue mani. Così lui non potrà più suonare il violino e sarà colpa sua.  Molto presto Colm passa ai fatti. 


McDonagh torna a raccontare una storia su due persone che hanno eretto tra di loro dei muri di comunicazione invalicabili dopo il suo straordinario Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Il regista è anche qui sceneggiatore e sceglie come interpreti principali la coppia di attori che aveva già diretto nel suo divertente film d’esordio del 2008, In Bruges - la coscienza dell’assassino, collocando la storia in un luogo della “provincia irlandese” ancora più isolato, in un contesto dalle tinte “forti e ruspanti”, non troppo dissimile dai romanzi sulla gente di montagna del nostro Mauro Corona. In una cornice naturalistica quasi da favola bucolica, ma pervasa da un’aria gelida quasi da far battere i denti, viene descritta la vita dura, ciclica e ingrata, di uomini che si sentono così dolorosamente ancorati al loro territorio che i loro lineamenti e animo si sono induriti, incidendo sui loro volti rughe che appaiono come intagliate nel legno, scolpite nei sassi della stessa natura che li circonda.  Le relazioni umane diventano sempre più aspre, sporadiche e turbolente “senza un vero perché”, forse per colpa degli “spiriti cattivi irlandesi” richiamati dal titolo originale. Si avverte il malessere di abitare un mondo immobile di confine sul punto di scomparire, davanti a un futuro che si trova “altrove“, oltre la costa, “nelle città” dove le giovani generazioni andranno inevitabilmente a vivere. Un luogo dove in quel momento si sta combattendo una guerra per l’indipendenza le cui cannonate arrivano fino all’isola, trasformando la noia degli abitanti in paranoia. Di rimbalzo questo piccolo mondo antico si incattivisce ancora di più, con la comunicazione tra le persone che diventa simile a un caotico scontro con i propri demoni interiori, dove “sull’altro” si finisce solo per proiettare la propria frustrazione, cercando di incolparlo di stati d’animo (propri di una voglia di ribellione) che si faticano a riconoscere. Una condizione che è difficile riconoscere anche per il personaggio del prete, con cui gli isolani non riescono mai ad aprirsi del tutto, rendendo la sua istruzione non dissimile allo scenario solo estetico raccontato da Nanni Moretti ne La messa è finita


Giocando sul dramma che è alla base di questo magmatico territorio emotivo, McDonagh innesta nel racconto la componente più gustosamente mistica e grottesca della narrazione: il folk. Gli spiriti dell’isola arriva così a evocare le streghe Banshee delle storie e canzoni irlandesi, sia pure nel corpo di una stramba vecchietta. Quasi fossimo in un body horror di Cronenberg parliamo di auto-mutilazione sull’onda di una sanguigna metafora/favola-nera sulla difficoltà ad amare, non dissimile idealmente a quanto cantava Fabrizio De Andrè nella sua La ballata dell’amore cieco. Di colpo, per queste suggestioni, possiamo accostare una pellicola che nasce quasi come una commedia di costume ai lavori di Robert Eggers, alle atmosfere di Lamb di Vladimir Johannsson, al Sacrificio del cervo sacro di Lanthimos. La distanza emotiva tra i personaggi di Farrell e Gleeson e  i “fuochi” che ne deriveranno “per superarla” potranno qui assumere tinte horror, quanto trovare un senso, nella forma di un liberatorio moto eversivo.

Il film di Martin McDonagh si prende tutto il tempo necessario per arrivare al suo punto di rottura e svolta, divertendo e un po’ torturando lo spettatore nell’attesa di assistere a un meccanismo narrativo che appare metodico quanto crudele, che può essere percepito come inevitabile quanto intimamente, si spera, mutabile. È un film che non lascia indifferenti e “ci macina dentro” anche dopo la visione, come solo le opere migliori sanno fare.

Molto bravi tutti gli interpreti, con una menzione speciale per i due protagonisti. Colin Farrell è  in grado di toccare con il suo personaggio tenero e scontroso corde emotive molto forti, riuscendo a giocare anche con la sua fisicità attraverso una preparazione al ruolo che deve essere stata non banale, che ne ha mutato profondamente postura ed espressività. Gleeson al contempo riesce a riempire di sfumature, con piccole ma incisive note emotive, un personaggio che ha il difficilissimo e ingrato compito di esprimere l’immobilismo e la meccanicità di una persona pervasa da un fortissimo malessere emotivo, sul punto di implodere. Molto bella e fredda la fotografia scelta, quasi “berganiana” nella resa della distanza tra i personaggi (piccoli) e l’ambiente circostante (sterminato). La colonna sonora trova invece una dimensione sognante e onirica nei toni aspri e squillanti della ballata folk.

Il nuovo film di Martin McDonagh è una pellicola dall’andamento lento ma coinvolgente, con il sapore della ballata tragica, che racconta la difficoltà e la necessità di porre delle barriere tra noi stessi e gli altri. Come nel caso di Tre Manifesti, McDonagh è un autore che ama suscitare interrogativi più che dare risposte, in grado di sconfinare dalla commedia alla tragedia con una tale eleganza e continuità da non farcene accorgere, da lasciare nel pubblico una sana inquietudine che lo accompagnerà oltre i titoli di coda. Caratteristiche che confermano Martin McDonagh come uno degli autori più interessanti di questo periodo. 

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