Irlanda, 1923. Mentre dal mare
riecheggiano le cannonate della guerra civile irlandese che si combatte
nell’entroterra, ci troviamo sulla costa, nella piccola e “ipoteticamente
pacifica” isola di Inisherin. È in questo posto sperduto che vivono il
musicista Colm Doherty (Brendan Gleeson) e il pastore Padraic Suilleabhain (Colin Farrell). I due sono amici da sempre, metodicamente inseparabili al punto
che alle due di ogni pomeriggio scendono al pub locale, prendono due birre e
tirano fino alle due di notte, a chiacchierare e farsi compagnia. Padraic è un
tipo segaligno sui quaranta che vive con la sorella Siobhan (Kerry Condon,
vista anche in Better call Saul), ha l’aria mite e corrucciata ed è molto
legato alla sua asinella, che tratta quasi come una bimba. Colm è un omone sui
sessanta che sembra amare solo il violino e il suo cane, vive da solo in una
casa diventata troppo grande, parla pochissimo ed è molto riservato. Due amici
quando tra le anime di Inisherin c’è poco da scegliere, al netto di quei
quattro o cinque ubriaconi del bar che parlano pochissimo e un paio di
musicisti folk di passaggio. C’è la irritabile proprietaria della drogheria, che
guarda tutti con i suoi occhi pungenti, fa continue domande, toglie il saluto
se non hai sempre nuovi pettegolezzi da raccontarle, va in estasi quando
ascolta storie cruente. C’è il viscido poliziotto locale (Gary Lydon), che ama
compiere abusi sui deboli e gestire personalmente le esecuzioni pubbliche,
perché poi gli offrono sempre il pranzo. C’è una vecchina inquietante dal
sorriso sinistro (Sheila Flitton), che pare una strega ma anche “la morte” de
Il settimo sigillo di Bergman: appare sempre di sorpresa da una zona in
penombra, si muove spettrale lungo la costa, quando parla profetizza sventure o
ricorda a tutti da quanti anni hanno perso i loro congiunti, citando ogni
data di decesso con precisone assoluta. C’é il prete locale che giunge sull’isola
la domenica su una barca, mite e bonaccione, ma con cui non è mai troppo facile
aprirsi per gli isolani: fa domande troppo complicate e spinge le persone di
parlare tra loro, entrambe attività “difficili”. C’è poi Dominic (Barry
Keoghan), il giovane e dimesso figlio del poliziotto, che è un po’ stralunato
ma di cuore. Di cuore un po’ come Siobhan, amante dei libri e dello sherry, che
dovrebbe pensare più a se stessa a farsi una famiglia sua, lontana da quel
posto. Forse Dominic e Siobhan se ne andranno un giorno da quell’isolotto,
magari quando la guerra sarà finita o forse un po’ prima. Perché ora ad
Inisherin è iniziata un’altra guerra, su scala più piccola ma non meno
sanguinolenta, tra Com e Padraic. Il conflitto scoppia all’improvviso il primo di aprile, quasi fosse uno scherzo.
Padraic, puntuale alle due, si presenta
da Colm per andare insieme al pub, ma non lo trova in casa. La porta è chiusa,
dalla finestra la poltrona del soggiorno su cui Colm è solito sedersi è vuota.
Il pastore decide così di andare solo al pub, con tutte le persone che incontra
nel tragitto che gli domandano quasi ossessivamente: “Perché non sei con Colm
oggi? Non avrete mica litigato?”. Padraic beve da solo la sua pinta e solo dopo
incrocia per caso l’amico, che non sembra intenzionato a parlargli per nessun
motivo. Non è chiaro cosa abbia portato a questo mutismo e a questa distanza,
che sembra farsi sempre più forte, ma dopo un paio di giorni di ricerca di
chiarimenti Padraic scopre da Colm che a lui, quella amicizia, “non gli va più
a genio”. Quelle che per uno erano “bellissime chiacchiere”, per l’altro erano diventate “tediosissime chiacchiere”. Le avvincenti serate a raccontarsi storie
per uno, erano diventate per l’altro “due interminabili ore a parlare dei
problemi gastrici della tua capra”. Qualcosa aveva cambiato il loro rapporto
negli anni, anche se Colm non sapeva identificare “cosa”. Di sicuro senza stare
ad ascoltare Padraic h24 il musicista avrebbe potuto comporre nuove
canzoni: aveva calcolato che gli bastavano tre giorni per realizzare un
brano e in tutto il tempo “di anni” che aveva “perso” a parlare con il pastore
avrebbe potuto comporre tante opere grandiose, qualcosa da tramandare ai
posteri. Per questo Colm dal primo di aprile aveva deciso che non sarebbero
stati più amici e non avrebbero passato più del tempo insieme, neanche al pub.
Padraic cerca di accettare la situazione pur nella sua eccessiva durezza,
capisce che l’amico ha bisogno di ritagliarsi un suo tempo “tutto personale” e
si fa da parte, si richiude un po’ in casa con la sua asinella, cerca di
portare le pecorelle al pascolo ogni giorno come se nulla fosse, cerca magari
di farsi amico Dominic nonostante le mille differenze dovute all’età, ma non è
per niente felice. Siobhan, vedendo così giù il fratello, appena può cerca di prendere a male parole Colm e in quel momento il musicista si rende
conto che forse con Padraic è stato troppo duro, ma sente di non aver potuto
fare altrimenti. Passano i giorni. Poi però Padraic si accorge che Colm
non ha problemi a parlare con praticamente tutti gli altri abitanti dell’isola
salvo lui, perdendo con loro il tempo che perdeva prima con lui, al punto da
stare ora al pub a brindare insieme a quell’assurdo e violento poliziotto
locale. Padraic vuole così dare fine a quella assurdità per tornare amici come
prima e ogni volta che ha a tiro Colm vuole un confronto, fino a che il
musicista gli intima con forza di smettere di cercarlo o parlare con lui: se
non lo lascerà stare, lui si taglierà ogni volta un dito delle sue mani. Così
lui non potrà più suonare il violino e sarà colpa sua. Molto presto Colm
passa ai fatti.
McDonagh torna a raccontare una storia
su due persone che hanno eretto tra di loro dei muri di comunicazione
invalicabili dopo il suo straordinario Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Il
regista è anche qui sceneggiatore e sceglie come interpreti principali la
coppia di attori che aveva già diretto nel suo divertente film d’esordio del
2008, In Bruges - la coscienza dell’assassino, collocando la storia in un luogo
della “provincia irlandese” ancora più isolato, in un contesto dalle tinte “forti e ruspanti”, non troppo dissimile dai romanzi sulla gente di montagna del
nostro Mauro Corona. In una cornice naturalistica quasi da favola bucolica, ma
pervasa da un’aria gelida quasi da far battere i denti, viene descritta la vita dura, ciclica e ingrata, di uomini che si sentono così dolorosamente
ancorati al loro territorio che i loro lineamenti e animo si sono induriti,
incidendo sui loro volti rughe che appaiono come intagliate nel legno, scolpite
nei sassi della stessa natura che li circonda. Le relazioni umane
diventano sempre più aspre, sporadiche e turbolente “senza un vero
perché”, forse per colpa degli “spiriti cattivi irlandesi” richiamati dal
titolo originale. Si avverte il malessere di abitare un mondo immobile di
confine sul punto di scomparire, davanti a un futuro che si trova “altrove“,
oltre la costa, “nelle città” dove le giovani generazioni andranno
inevitabilmente a vivere. Un luogo dove in quel momento si sta combattendo una
guerra per l’indipendenza le cui cannonate arrivano fino all’isola,
trasformando la noia degli abitanti in paranoia. Di rimbalzo questo piccolo
mondo antico si incattivisce ancora di più, con la comunicazione tra le persone
che diventa simile a un caotico scontro con i propri demoni interiori, dove
“sull’altro” si finisce solo per proiettare la propria frustrazione, cercando
di incolparlo di stati d’animo (propri di una voglia di ribellione) che si
faticano a riconoscere. Una condizione che è difficile riconoscere anche per il
personaggio del prete, con cui gli isolani non riescono mai ad aprirsi del
tutto, rendendo la sua istruzione non dissimile allo scenario solo
estetico raccontato da Nanni Moretti ne La messa è finita.
Giocando sul dramma che è alla base di
questo magmatico territorio emotivo, McDonagh innesta nel racconto la
componente più gustosamente mistica e grottesca della narrazione: il folk. Gli
spiriti dell’isola arriva così a evocare le streghe Banshee delle storie e
canzoni irlandesi, sia pure nel corpo di una stramba vecchietta. Quasi fossimo
in un body horror di Cronenberg parliamo di auto-mutilazione sull’onda di una
sanguigna metafora/favola-nera sulla difficoltà ad amare, non dissimile
idealmente a quanto cantava Fabrizio De Andrè nella sua La ballata
dell’amore cieco. Di colpo, per queste suggestioni, possiamo accostare una
pellicola che nasce quasi come una commedia di costume ai lavori di Robert
Eggers, alle atmosfere di Lamb di Vladimir Johannsson, al Sacrificio del cervo
sacro di Lanthimos. La distanza emotiva tra i personaggi di Farrell e Gleeson
e i “fuochi” che ne deriveranno “per superarla” potranno qui assumere
tinte horror, quanto trovare un senso, nella forma di un liberatorio moto eversivo.
Il film di Martin McDonagh si prende
tutto il tempo necessario per arrivare al suo punto di rottura e svolta,
divertendo e un po’ torturando lo spettatore nell’attesa di assistere a un
meccanismo narrativo che appare metodico quanto crudele, che può essere
percepito come inevitabile quanto intimamente, si spera, mutabile. È un film
che non lascia indifferenti e “ci macina dentro” anche dopo la visione, come
solo le opere migliori sanno fare.
Molto bravi tutti gli interpreti, con
una menzione speciale per i due protagonisti. Colin Farrell è in grado di
toccare con il suo personaggio tenero e scontroso corde emotive molto
forti, riuscendo a giocare anche con la sua fisicità attraverso una
preparazione al ruolo che deve essere stata non banale, che ne ha mutato
profondamente postura ed espressività. Gleeson al contempo riesce a
riempire di sfumature, con piccole ma incisive note emotive, un personaggio che
ha il difficilissimo e ingrato compito di esprimere l’immobilismo e la
meccanicità di una persona pervasa da un fortissimo malessere emotivo, sul
punto di implodere. Molto bella e fredda la fotografia scelta, quasi
“berganiana” nella resa della distanza tra i personaggi (piccoli) e l’ambiente
circostante (sterminato). La colonna sonora trova invece una dimensione
sognante e onirica nei toni aspri e squillanti della ballata folk.
Il nuovo film di Martin McDonagh è una pellicola dall’andamento lento ma coinvolgente, con il sapore della ballata tragica, che racconta la difficoltà e la necessità di porre delle barriere tra noi stessi e gli altri. Come nel caso di Tre Manifesti, McDonagh è un autore che ama suscitare interrogativi più che dare risposte, in grado di sconfinare dalla commedia alla tragedia con una tale eleganza e continuità da non farcene accorgere, da lasciare nel pubblico una sana inquietudine che lo accompagnerà oltre i titoli di coda. Caratteristiche che confermano Martin McDonagh come uno degli autori più interessanti di questo periodo.
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