Cina, giorni nostri. Una pericolosa associazione criminale dedita alla droga, che potremmo chiamare “gli occidentali”, sta espandendo il suo losco traffico dentro i confini dello Stato di Mao, facendo leva su dei traffichini locali collaborazionisti, disadattati e pure un po’ tossici. La droga originale straniera, la “Rainbow“, viene per motivi di marketing ribattezzata In Cina “Red“ in virtù dell’unico colore che si vede mentre la si assume, potenziandone gli effetti collaterali relativi al senso di paranoia e ad un’incontinenza bruciante (a uso ridere di una specifica gag). A contrastare la “Red” si mobilita la “Blue”, ossia la Blue SWAT Commando, una squadra di super Elite della polizia composta da modelli di intimo palestrati e spesso a torso nudo, espertissimi in ogni tattica militare, ogni mezzo, ogni arma, dotati di cameratismo e sense of humor, rispettosi della parità di genere, dall’uniforme impeccabile, patrioti inappuntabili. Mentre le indagini filano di un liscio che non ci si crede, la SWAT, divisa in squadra 1 e 2, si diletta in scontri simulati di tutti i tipi, alternandosi nei ruoli di buoni o cattivi (non a caso squadra blu buona e rossa cattiva), finendo spesso in situazioni in cui tutti si tolgono la canotta e mostrano gli addominali, mentre in sottofondo c’è un pezzo cinese che sembra la Haka degli All Blacks del rugby. Piccoli spaccati di critica sociale: la squadra 2 patisce dei piccoli favoritismi nei simulati, le esercitazioni costano un po’ troppo per il budget della divisione, il cecchino interpretato da Nailiang Jia ama fischiettare (incredibilmente, pure in lingua originale, forse un effetto collaterale di Casa di Carta) “Bella ciao”. Fine della critica sociale, anche perché qui non siamo in Tropa de Elite di Padilha: passiamo al piatto forte, le colorate e accurate scene action tattiche tipiche della SWAT. Ci sarebbe da dire che pure nei film sulla SWAT americana, compreso quello con Colin Farrell e Samuel Jackson, la trama era più una scusa per incatenare delle esercitazioni reali tipiche del corpo scelto, con basso interesse per cose più “cinematografiche”, compresa una decente rappresentazione del “nemico/sagoma da abbattere”. Pure qui è uguale e quando non si menano, per finta tra di loro, i nostri eroi patiscono il confronto con un nemico inadeguato, sfigato, autolesionista, male armato e generalmente pezzente. Roba che le sagome del tiro a segno delle fiere, a forma di papera, c’hanno più dignità. Tra i debosciati che infastidiscono in modo minimale il super team, eccoti il boss locale drogatissimo che va in giro con il pannolone o il writer sovversivo in tuta colorata armato di balestra, arrivando agli sconfortantissimi villain occidentali. Se nella saga di Wolf Warrior avevamo per lo meno cattivi bidimensionali ma tenaci, resistenti e latori di morte e con pure carisma come il Tomcat di Scott Adkins, il Big Daddy di Frank Grillo, la Moneymaker e Kozlov, in questo SWAT c’è la fiera della parodia discount delle “americanate”. Abbiamo come capo trafficante occidentale un Heisenberg dei poveri, segue uno straccionissimo sosia demenziale di Dominic Toretto e altra roba scarsa, imbarazzante e generica (tra cui la versione scema del Tomcat di Adkins!!!) che cade puntualmente come birilli senza sottrarre troppo tempo su schermo ai palestrati a torso nudo cinesi in primo piano. Insomma, riusciranno i nostri eroi a battere il nemico senza neanche sudare?
Non è Tropa d’Elite, ma non è manco
Sniper di Dante Lam o PTU di Johnny To, dove la polizia è protagonista ma
combatte anche con la sua anima nera e fallimenti personali. SWAT di Ding
Sheng, per altro regista degli ottimi Little Big Soldier e New Police 2013:
Lockdown con Jackie Chan, è più vicino alle brochure sulle attività e mezzi del
corpo d’elite cui la pellicola è dedicata, come altri prodotti occidentali del
“brand SWAT”. Non c’è volutamente troppa introspezione, si punta all’azione,
specie alla simulazione fedele aggiornata agli ultimi giocattoli hi-tech del
corpo (dai droni volanti ai robottini da spionaggio con cingoli, passando alle
armi da disturbo elettronico) e qualche volta allo humor. Gli attori, peraltro
giovani e simpatici, un po’ tutti uguali come ne La Sottile linea rossa (citazione volta a innervosire i fan di Malick) sono chiamati la maggior parte
del tempo (quando non fanno le gag e i discorsi motivazionali patriottici, per
intenderci) a ricreare scenari tattici di squadra perfettamente
coordinati, al punto che quando si arriva alle scene di repertorio che
riguardano i veri membri della Blue SWAT Commando (perché pure queste ci
toccano) non si avvertono le differenze. Anche “gli originali” sono
palestratissimi, impeccabili, affascinanti e ben coordinati, a differenza di
quei mangia-hamburger dei reali soldati americani che interpretavano se stessi
nell’analogo film-brochure Act of Valor, dimostrandosi tanto dei soldati da
paura quanto degli uomini comuni, dal fisico comune e panciuto, nonché con
fragilità emotive (oltre che attori canissimi). Qui non accade tutto questo
aspetto “documentaristico” sul mondo interiore dello SWAT medio cinese e salvo
il piccolissimo dramma del cecchino che deve trovare coraggio, tutti sono
perfetti e simpatici nella vita quotidiana come nelle indubbiamente
spettacolari scene di simulazione di combattimento (ed essendo attori veri non
recitano neanche male). Se Wolf Warrior era poi il festival dell’iperviolenza
liberatoria, con concessioni fantasy come i lupi digitali da affrontare con le
baionette, SWAT nasconde sotto il tappeto ogni possibile lettura favolistica
come apparizione di sangue, predilige per la maggior parte del tempo i
proiettili di vernice delle simulazioni tra squadra 1 e 2 e quando occorre
menare le mani “con le paperelle del tiro a segno” lo fa nel modo più asettico e
non compiaciuto.
Piccolissima ma gustosa la critica al
sessismo, con momenti che da un lato puntano alla parità di genere considerando
che “questa donna può combattere come un uomo”, alternati a momenti in cui i
maschietti ancora continuano a vedere le donne come invisibili se non oggetti
sessuali. Nel momento più assurdo, un cattivo occidentale che sorveglia l’isola
dei cattivi viene abbindolato da una donna-swat che gli compare sulla costa, si
scioglie i capelli e lo irretisce come fosse una sirena.
Divertente, con ritmo, una bella fotografia ma forse troppo pettinato e abbastanza semplice nell’intreccio (action americano “light” anni ‘80 style), SWAT è un ottimo passatempo senza troppe pretese. Un po’ come una puntata di Carabinieri, aiuta molto a cogliere il lato più simpatico delle forze dell’ordine. Tre passi indietro al film action orientale medio, ma la serata coi pop corn te la fa fare.
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