Ci troviamo di nuovo in una distopia in cui gli assassini del 21mo secolo vivono come samurai dell’epoca Sengoku, in una “via della pistola” carica di onore, rimpianto e sangue.
Abito nero doppio petto corazzato in kevlar, armi da fuoco ricercate per stile e maneggevolezza, anelli, medaglioni, marchi a fuoco e missive vergate in regale pergamena con sigilli in cera lacca rievocanti rituali e codici da medioevo cavalleresco. Torna sulla scena l’uomo nato tra le strade dell’est Europa e forgiato per diventare simile a una lama, l’incarnazione della strega Baba Jaga, “l’uomo nero”, il signore dei killer. Oppure se vogliamo semplicemente il cinquantenne “John” (Keanu Reeves, che cinquant’anni li porta benissimo), che avrebbe voluto una vita tranquilla accanto a sua moglie e un cane, in una casetta con giardino nella periferia americana, ma che il destino ingrato ha preferito sguinzagliare di nuovo, iracondo e determinato a distruggere da solo, pezzo per pezzo, l’ordine costituito massimo degli assassini (e specchio dell’ordine mondiale): la Tavola. E dire che tutta la nuova e interminabile scia di sangue e bozzoli di John era nata “dal molto piccolo”: da una crudele ragazzata ai suoi danni per via della compravendita di un’auto. Dopo la devastazione di alcune delle più importanti famiglie criminali del mondo, la Tavola aveva ordinato infine a Winston (Ian McShine), il direttore dell’Hotel Continental di New York, di eliminare lui stesso John, suo amico. L’esecuzione ha avuto luogo negli ultimi piani dell’edifico (alla fine del terzo film), con l’uomo nero che dopo un colpo mortale di pistola a tradimento è caduto nel vuoto per svariati piani, disarticolandosi in un modo tale che nessun essere umano sarebbe potuto sopravvivere. Ma a raccogliere quelle carni contorte ancora incredibilmente vitali è accorto il “Bowery King” (Laurence Fishburne), il re del mondo sotterraneo dei senza tetto che da sempre si contrappone alla Tavola. John è incredibilmente rinato e subito si è gettato nel deserto da solo, dritto alla testa del capo della Tavola (George Georgiou), che ha subito schiacciato come un acino d’uva. La Tavola ha subito il colpo quasi con indifferenza e in brevissimo tempo, quasi “pigramente” si è ricostituita sotto la guida di un nuovo capo, il giovane ambizioso e aristocratico “Marchese di Gramont” (Bill Skarsgard). Il primo atto del nuovo capo è stato “punire Winston per il suo fallimento”, radendo al suolo il suo hotel. Ma gli hotel Continental, santuari e luoghi franchi di rifugio di ogni assassino (un po’ come le chiese in Highlander), abbiamo già scoperto che sono una catena pari agli Hilton e John Wick si è già rifugiato così nel Continental di Osaka, gestito dal suo vecchio amico Koji (Hiroyuki Sanada) e dalla sua figlia Akira (Rina Sawayama). Il marchese, scoperto il rifugio, manda all’attacco un esercito di assassini pesantemente armati e capillarmente corazzati capitanato dal suo personale braccio destro, il gigantesco Chidi (Marko Zaror, sempre più massiccio, “alto” e compiaciuto nel ruolo di cattivo). Ma per sicurezza invia sul posto anche Caine, un temibile e letale killer non vedente (Donnie Yen, che si inventa per l’occasione una variante gun-fu dello stile di combattimento alla Zatoichi) in passato grande amico di John e ora sotto perenne scacco della Tavola, che minaccia di uccidere sua figlia non appena lui rifiuti un incarico. Attirato dalla possibilità di ricavare tanti soldi, ad Osaka è giunto anche l’underdog “Mr Nobody” (Shamier Anderson), un talentoso cecchino solitario con al seguito un cane da caccia. Ma l’Osaka notturna dai ciliegi in fiore sarà solo l’inizio della nuova mattanza in giro per il mondo di John Wick, che presto si sposterà nella più assurda discoteca di Berlino per affrontare Killa (un gigantesco Scott Adkins, re indiscusso degli stunt-man, che nell’anno di The Whale di Brendan Fraser indossa per compiere delle acrobazie incredibili un simile costume di scena, che gli conferisce almeno duecento chili in più), per poi arrivare in Francia, dove insieme a Winston e King cercheranno di sovvertire la Tavola una volta per tutte, grazie a un duello rituale la cui preparazione sarà lunga, complessa e oltremodo sanguinosa. Con gli assassini di tutto il mondo che andranno ad affrontare John su tutte le strade della capitale francese (come sempre “guidati nella caccia” dalla voce alla radio di una sensuale e ironica Dj come in I guerrieri della notte di Walter Hill) per diverse ore, per incassare la più alta taglia mai garantita di sempre. Ma si può davvero sconfiggere la strega Baba Yaga?
Nel 2013 Derek Kolstad, un ragazzotto del Wisconsin di soli 24 anni ai suoi primissimi lavori per il cinema, scriveva una sceneggiatura di nome Scorn: un action che raccontava il tragico ritorno al mestiere dell’assassino di un uomo ormai ritiratosi dalle scene di nome “John Wick”, lo stesso nome del nonno materno di Kolstad. Come per il primo capitolo della saga di The Purge di Blumhouse, scritta da James DeMonaco e uscito sempre nel 2013, l’opera di Kolstad costruiva una vicenda dal sapore classico e ultra-collaudato (Purge è un “home invasion”, questa un “revenge movie”), ma collocata in un mondo distopico particolarmente originale quanto solido, accattivante: pieno di regole, istituzioni e costumi così suggestivi e atipici da poter essere esplorati anche in film successivi. Una formula che a distanza di 10 anni si è rivelata doppiamente vincente, anche perché a dirigere il “lato più classico della classica pellicola di genere action”, che su consiglio dell’attore principale Keanu Reeves assunse a tutti gli effetti il titolo John Wick c’era anche “chi l’action lo sapeva fare”, ossia due tra i più celebri coordinatori di stunt-man e scene di azione attivi sulla scena fin dagli anni 90: Chad Stahelski e David Leitch.
Chad Stahelski, praticante del Jeet Kune Do di Bruce Lee, cintura nera di Kick Boxing e primo americano a partecipare in Giappone nel torneo di arti marziali miste Shooto, è diventato in breve uno stunt-Man e coordinatore di stunt leggendario. Attivo fin dal 1994, nel suo primo film, Il corvo di Proyas, fu la controfigura del compianto Brandon Lee e in seguito divenne la controfigura ufficiale di Keanu Reeves nella saga di Matrix.
David Leitch ha invece imparato da solo come autodidatta le arti marziali e aperto dopo la laurea in relazioni internazionali un suo dojo, è noto per essere stato stunt-double di Brad Pitt in Fight Club e Troy ed è addirittura stato stunt-Double per il campione marziale Jean Claude Van Damme in due pellicole. Stahelski e Leitch fondavano insieme nel 1997 la 78Eleven, una società di formazione e coordinamento degli stunt-man sulla linea delle grandi scuole di arti marziali legate alle produzioni di Hong Kong, dal cui lavoro sarebbero usciti tra gli alti i premiati stunt della saga di Jason Bourne. I due sempre insieme nel 2009 si avvicinavano ancora di più alla cabina di regia, come coordinatori stunt e direttori di seconda unità di quella piccola (e stranamente poco celebrata) perla che è stata Ninja Assassin di John McTeigue. Nel 2014 per il film che scelsero per il debutto alla regia di Stahelski coinvolsero per il ruolo principale di John Wick un attore loro amico e grandissimo appassionato di arti marziali come Reeves, oltre a un raffinatissimo cast con nomi come Ian McShane, Joe Leguizamo, Michael Nyqvist, Willem Dafoe e il recentemente scomparso Lance Reddick (a cui questo ultima pellicola è dedicata). Per il personaggio di Reeves, con il pieno supporto ed entusiasmo dell’attore i due si inventarono tutto un particolare stile di combattimento misto, con attacchi a mani nude mutuati per lo più dal judo (per il sistema di prese e proiezioni) e mixati a un uso delle armi da fuoco secondo il particolare stile del Mozambique Drill (ma quando Wick si trova a usare un nunchaku compare ovviamente lo stile di Bruce Lee). La volontà comune era ovviamente farne un film-manifesto del “nuovo” genere action, con per fulcro lunghissime ed elaborate scene di combattimento e inseguimenti, ambientato in un modo distopico di “neo-samurai”. Un po’ come Matrix ma con meno robot e filosofia. Quello che ne è seguito è storia. John Wick negli anni è diventata una saga di successo dagli intrecci sempre più “epici” e dalla messa in scena sempre più complessa che ha attratto nel cast molti attori di successo (come tra i tanti Anjelica Hudson, Halle Barry, Laurence Fishburne, Peter Stormare, Franco Nero, Ruby Rose) come grandi interpreti del cinema action a base di marziali (Yamamotoyama Ryuta, Mark Decascos, Yayan Ruhian, Tiger Chen, Scott Adkins, Marko Zaroz, Donnie Yen). È già in produzione un capitolo 5 e uno spin-off dal titolo Ballerina con interprete principale Ana de Armas (ambientato tra il terzo e quarto film), oltre a una serie tv sull’Hotel Continental. Stahelski ha diretto tutti i film e dirigerà Ballerina, Leitch è passato a Deadpool 2, Atomica Bionda, Bullet Train. Con la 87Eleven Productions nata nel 2019, i due hanno già prodotto, seguendo sempre la stessa filosofia, pellicole interessanti come Nobody con Bob Odenkirk (in qualche modo “omaggiato” in John Wick 4 dal personaggio di Mister Nobody di Shamier Anderson).
La qualità produttiva della saga di John Wick, quando l’eccentricità del sul “mondo parallelo”, da subito è sembrata così peculiare da far pensare a molti che si trattasse di un autentico Cross-Over della serie Matrix delle Wachowski. Una teoria che è stata a lungo incoraggiata e corroborata da alcuni risvolti di trama come dalla presenza nel cast di entrambe le saghe di Reeves e Fishburne (con Carrie Ann Moss che pare voglia essere della partita per il quinto John Wick e forse seguirà anche Hugo Weaving), come dalla curiosa circostanza che prima del covid Matrix 4 e John Wick 4 erano misteriosamente schedulati in uscita quasi lo stesso giorno. Oggi sappiamo che non è così, ma in fondo è sempre suggestivo credere a questo strano “gemellaggio” e il maggiore indiziato resta la “Mozambique Drill”. L’unica tecnica del wick-verso per eliminare un avversario per sempre con un ultimo colpo alla testa, condicio sine qua non tutti i personaggi, anche se passati sotto uno schiacciasassi o caduti per centinaia di metri, sono in grado di rialzarsi e tornare a combattere senza problemi. Qualcosa che ricorda in qualche modo le leggi “sull’energia vitale” di un videogame...o di una simulazione alla Matrix. Tutta la realtà di John Wick sembra poi “sovrascritta” dalle regole di un videogame alla GTA e “chi comanda il mondo”, come i personaggi dell’Aggiudicatore e dell’Amministratore del terzo film, sembrano essere simili per atteggiamento e movenze ai programmi senzienti di Matrix. Ovviamente fino ad ora tutte queste si sono rivelati amabilissimi depistaggi ad opera degli stessi autori, ma in futuro…chissà…
Ma veniamo a noi e al quarto film, che si dimostra da subito il più lungo, il più spettacolare e il più epico della saga. In breve tempo passiamo dagli scontri a cavallo con revolver di un deserto dalle forti suggestioni western della sequenza d’apertura, ai samurai corazzati del ventunesimo secolo di una Osaka perennemente in equilibrio tra presente e futuro, dove un buon arco può colpire meglio di una mitragliatrice. Vedere insieme Sanada e Reeves, come padre e figlio sodali e armati di Katane e pistole, ci fa tornare in mente la “parte bella” del controverso, pasticciato ma esteticamente godibilissimo “b-movie” 47 ronin di Carl Rinsch. Lo scontro con le forze della Tavola avviene dall’ultimo piano dell’hotel verso il piano terra, in un percorso stilistico/marziale che cita L’ultimo combattimento di Chen (e in cui compare un nunchaku). Donnie Yen, l’attore che non a casa ha dato vita sullo schermo a una felice saga su Ip Man, il maestro di Bruce Lee, è ancora il più grande artista marziale del cinema e quando entra in scena con il suo killer cieco Caine fa sua la pellicola. Vederlo duellare con eleganza con Sanada è solo l’inizio e quando arriva a confrontarsi con Scott Adkins ci si aspetta per forza un re-match di quanto avveniva in Ip Man 4, con Yen che gli scarica addosso la classica raffica di pugni stile Wing-Chun. Adkins come sempre sa conferire eleganza e tempra a un personaggio da tutti i punti di vista disegnato per essere odioso e scorretto. Killa è un villain crudele a senso unico, signore e padrone di una Berlino notturna hi-tech che tra cascate d’acqua, pire di fuoco e mucchi di persone intente in balli sfrenati, ha il fascino di un girone dantesco. Si arriva a Parigi dopo un’ora a venti di film e Stahelski decide di fare la versione John Wick dei Guerrieri della notte. Una “Anabasi” a tutti gli effetti che farà lottare un Keanu Reeves sempre più stanco e incazzato contro un numero sproporzionato di killer che cresce di metro in metro lungo il percorso del suo duello finale. Ad accompagnarlo o contrastarlo “a fasi alterne” il killer cieco di Donnie Yen, il gigante quasi muto di Zaroz e l’interessante e misterioso Nobody di Shamier Anderson. È qui che il film deflagra. Le parole si riducono al minimo e assistiamo a una spettacolare quanto infinita sequenza di combattimento che si snoda tra le macchine a tutta velocità sulle strade degli Champs Elysees, edifici abbandonati, i parchi e le scalinate di Parigi. Il film cannibalizza il linguaggio dei videogame con sparatorie e cazzotti che ci vengono raccontati in articolati e lunghissimi piani alla Scorsese, dove l’obiettivo si sposta progressivamente con eleganza, raccontando l’azione stilisticamente con sempre nuovi punti di vista. Siamo accovacciati tra le macchine insieme a John Wick, in prima persona, mentre incede contro di lui un’orda di killer. Poi dall’alto lo seguiamo farsi largo stanza per stanza e piano per piano all’interno di una struttura diroccata quasi al buio, che ci viene illuminata proprio dalle sue bocche da fuoco (qui per l’occasione anche incendiarie). Dalle sue spalle vediamo poi John correre dal basso all’alto di una lungo e impervia scalinata, procedendo gradino dopo gradino eliminando nemici che a volte gli rotolano addosso o lo fanno cadere fino all’inizio del percorso. Per chi è nato ai tempi delle sale giochi sembra di rivivere al cinema i livelli delle sparatorie di Blood Brothers o Time Crisis, i labirinti da affrontare a volo d’uccello di Gautlet, i “barili” da saltare di Donkey Kong. Tutto riesce a fondersi in un linguaggio stilizzato quanto elegante, sempre funzionale quanto originale nel raccontare al meglio ogni scena attraverso interpreti che si buttano nell’azione a testa bassa, seguendo un articolatissimo percorso di guerra che definisce sul piano fisico/marziale il peculiare “carattere” di ogni personaggio. La realizzazione di questa parte è così convincente che il tempo letteralmente vola e se ne vorrebbe subito ancora, come fosse possibile inserire un nuovo gettone e incominciare una nuova partita.
Tutti bravi. Ne vogliamo un altro.
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