Ci troviamo in una scuola italiana dei giorni nostri, in un sabato pomeriggio assolato. All’interno della palestra dell’istituto sono stati convocati dalla preside (Giovanna Mezzogiorno) alcuni genitori, mentre fuori i rispettivi figli stanno giocando nel campetto a basket.
L’imprenditore Franco (Claudio Santamaria) e Carmen (Raffaella Rea) credono di essere lì perché la loro relazione clandestina, consumata di recente e più volte nel parcheggio davanti alla scuola, è stata infine scoperta, con la preside che ha deciso di ficcanasare nelle loro vicende personali. Si sono già accordati per negare tutto e contro-denunciare con forza la calunnia, quando in palestra arrivano anche Aldo (Sergio Rubini) e Rossella (Angela Finocchiaro), i genitori adottivi di un ragazzo di origine straniera compagno di classe dei loro figli. Forse l’incontro potrebbe riguardare un atto di bullismo? Impossibile: i loro tre ragazzi stanno giocando a basket e ridendo insieme, a pochi metri da loro. Magari la ragione dell’incontro può essere diversa. La palestra è fatiscente e Franco e Carmen da ex alunni sono sicuri che non viene ritinteggiata da oltre 20 anni. La scuola crolla a pezzi e loro sono persone abbastanza abbienti, appartenenti al circolo del Tennis, mentre Aldo lavora in ospedale: può essere che la preside li stia cercando di coinvolgere in una raccolta fondi per una ristrutturazione dell’edificio con annessa anche una moderna infermeria.
Strano, ma possibile. Certo, se fosse questa la ragione, perché una convocazione urgente, di sabato pomeriggio?
In pochi minuti la preside arriva, con tutto il classico alone di supponenza e antipatia che da sempre si trascina dietro, da quando ha sostituito il figlio di Franco con un ragazzino portatore di handicap come protagonista della recita annuale. Puro finto buonismo. La situazione subito si fa tesa appena la preside parla e la ristrutturazione della palestra diviene l’ultimo dei problemi. Una ragazza le ha raccontato che tre ragazzi, i loro tre ragazzi, l'hanno stuprata proprio in quella palestra, tra le parallele e i cuscini per il salto acrobatico. Lo hanno fatto più volte e hanno ripreso le scene sul cellulare. La ragazza ha inizialmente provato a dimenticare l’accaduto, ma le azioni si sono ripetute nel tempo, diventando quasi una consuetudine per il “branco”. I filmati la preside non li ha ancora visionati ma “stanno girando”. La ragazza piangeva, era scossa e ci sono volute ore prima che raccontasse dell’accaduto. Era sincera e l’intenzione della preside è ora quella di chiamare quanto prima la polizia. Questa convocazione improvvisa con i genitori degli aggressori ha lo scopo di un iniziale confronto della scuola con loro, per aiutarli a preparare i rispettivi ragazzi a parlare con le autorità e collaborare. Non si vuole demonizzare nessuno, ma cercare di risolvere al meglio il tutto, nell’interesse dei minori.
I quattro genitori sono attoniti: l’immagine di immacolata innocenza che hanno dei loro figli sta come andando in frantumi. Così i quattro iniziano ad affrontare le classiche cinque fasi di “elaborazione del lutto” del modello Kubler-Ross: rifiuto, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione. I genitori subito cercano di ricostruire i fatti concentrandosi metodicamente sulla assoluta innocenza dei loro “bambini”, senza nemmeno considerare l’ipotesi che quanto hanno appena ascoltato sia vero. “La ragazza si è sbagliata” diventa presto rabbiosamente “la ragazza è una facile, che è solita ubriacarsi alle feste” o peggio “li ha abbindolati, ha fatto loro violenza e ci ha incastrati per i nostri soldi”. Perché alla fine può essere tutta una questione di soldi, no? Una truffa ai danni di figli di ricchi imprenditori da parte di una ragazzina “che sa usare il suo corpo”, una bega che si può risolvere in contanti. La preside un po’ schifata dall’evolversi della situazione esce dalla palestra, per chiamare la babysitter e dirle che farà tardi, magari di aggiungere un paio di ore. Carmen esce di volata, va a prendere dal figlio, che sta giocando a basket con gli altri, e il suo cellulare. Il gruppo vede il filmato. È allora che tutto assume una prospettiva differente e i fatti necessitano di una nuova elaborazione.
Al rientro della preside, tutti i genitori sono concordi su una cosa: fargliela pagare cara se non starà dalla loro parte.
Cosa può “fare” o “costringersi a pensare” un genitore, pur di preservare dentro di sé, anche solo a livello “inconscio”, l’immagine immacolata e “l’onore” del proprio figlio? Fino a che punto un genitore può spingersi ad accusare la scuola, lo stato e il mondo intero prima di rivolgere a se stesso la più banale e terribile delle domande: “io quanto sono stato bravo, come primo educatore di mio figlio, se mio figlio ha commesso errori così gravi?”. Domande terribili per i genitori di oggi come di ieri, che nessuno ha davvero la forza di affrontare, specie in un momento storico in cui i genitori per motivi di lavoro hanno sempre meno tempo da dedicare personalmente ai figli. Tutto il mondo a tutti i livelli deve essere così “a prova di bimbo piccolo”, proprio per supplire alla mancanza di sorveglianza e guida di genitori consciamente e inevitabilmente assenteisti. Senza tenere conto del fatto che i bambini diventano piano piano inevitabilmente adulti senza essere preparati ad esserlo, anche se i genitori provano a fare il massimo che possono. Il rischio concreto è che i problemi educativi, la morale, la sessualità, il “cosa è bene e cosa è male” e tutto quanto riguarda una inevitabile conoscenza più approfondita del mondo, siano questioni che non si affrontino mai, per nessun motivo, perché sarebbe come aprire ai propri “eterni pargoli” una porta “sul male” (e sul crescere) ormai inaccettabile perché ingestibile per mancanza del giusto tempo. Poi il “male” inevitabilmente arriva, perché nel mondo il male esiste. Il male terrorizza, ma pure può sedurre, qualcuno potrebbe pure considerarlo eccitante, “divertente”, pronto a conferire in un attimo potere ed emancipazione. Ed è “per pochi”. Sale così un fascino del proibito che presto scoppia in faccia a dei ragazzini anestetizzati da un mondo che “non ne parla e non ne può parlare”, senza che loro sappiano davvero “che cos’è”. Ma ora sono consci che può esistere ed è facile sperimentarlo. Educare è diverso da coccolare o proiettare sui figli i sogni dei genitori. Ma è meglio per troppi adulti non pensarci, rimandare all’infinito la questione anche quando inevitabilmente arriva qualcuno che come impegno sociale deve dare una istruzione e dei giudizi ai ragazzi, come fanno gli insegnanti e la scuola in genere. Questi “intrusi” vengono (tragicamente) sempre più visti come un “nemico naturale della famiglia”. In passato gli insegnanti erano addirittura stimati e ringraziati per il loro supporto educativo, ma i tempi cambiano, anche la scuola ha le sue colpe e trovare una fiducia tra famiglia e l’istruzione scolastica è un equilibrio complesso e qualche volta complicato. Far quadrare le cose assume alle volte contorni eroici.
La sceneggiatura dei fratelli Di Innocenzo, tratta dallo spettacolo teatrale La palestra di Giorgio Scianna, è una riflessione sull’eroismo di un’insegnante (il personaggio della Mezzogiorno) nel diventare lei stessa “un reale ponte” tra la famiglia e una delle massime istituzioni, la giustizia, aiutando in concreto dei ragazzi e le loro famiglie in una situazione molto difficile. Un “farsi da tramite” spericolato, sentito quanto pericoloso e che va a infrangersi con un mondo dei genitori incapace di riflettere su se stesso. Al punto che i figli sulla scena non sono nemmeno rappresentati visivamente, se non “citati a livello sonoro” attraverso i rimbalzi di un pallone da basket oltre le pareti della palestra. Un “oggetto perfetto e intoccabile dell’ego” più che delle persone con cui relazionarsi . Allo stesso modo è assente la vittima, la polizia, uno psicologo o un assistente sociale, perché quello che viene a delinearsi fin dalle prime battute è uno scontro alla O.K. Coral tra scuola e genitori. O un “pomeriggio di sabato di fuoco”, se preferite. Ce lo dice la primissima scena: quando i genitori arrivano con le auto sul polveroso parcheggio dell’instituito alzando mulinelli di terra, con una colonna sonora da film western. Con Santamaria che dice “aspettateci qui, torneremo tra un’ora” come un bandito pronto a rapinare la banca. La palestra è come la banca diroccata di una città fantasma, un corpo in decomposizione pieno di crepe e calcinacci, per lo più ricordato dagli ex studenti come alcova per relazioni clandestine fuori orario. La preside di Giovanna Mezzogiorno come il classico direttore spaventato ma pronto a prendersi una pallottola parla piano, usa troppe parole, è ricurva, di bassa statura, gentile oltre il necessario. Santamaria sventola la carta di credito e la parlantina da consumato commerciante come una colt, senza scrupoli e umanità. Il personaggio di Raffaella Rea ha la gentilezza del rapinatore che ripete “queste cose non succederebbero se le istituzioni funzionassero bene” e Rubini e la Finocchiaro, con il loro cagnolino e l’aria smarrita, incarnano la classica famiglia per bene che da un momento all’altro può tirare fuori il forcone e farsi giustizia da sola. Se il campo della palestra è il luogo del duello, il buio degli spogliatoi permette di accedere a un altro mondo, un luogo interiore in cui qualcuno può di nascosto dagli altri piangere e magari combattere con quella domanda ossessiva: “sono stato un bravo genitore?”. È un dietro le quinte doveroso, silenzioso e doloroso che ci permette per un attimo di guardare “oltre la maschera” di personaggi troppo arrabbiati per poter dialogare in pubblico.
Il film di Cipani è un forte atto di accusa ai modi in cui oggi, in troppi casi (spesso riportati tragicamente anche dalla cronaca locale), viene vissuta la relazione tra famiglia e scuola. Si parla anche di bullismo e violenza di genere, ma sono argomenti che la pellicola, per scelta precisa, ritiene necessario affrontare solo dopo che diviene possibile instaurare un minimo clima di fiducia tra genitori e insegnanti. È un film che in questa ricerca infruttuosa di dialogo diviene rabbioso e irrisolto, urlando l’urgenza di ripensare a questo rapporto complesso in modo più strutturato e consapevole, magari con il coinvolgimento attivo di più attori sociali. Un coinvolgimento che virtuosamente si sta facendo largo all’interno di iniziative tra operatori del terzo settore per ora ancora sporadiche ma positive, da sviluppare ulteriormente. Molto bravi tutti gli attori, anche perché quasi tutti intenti a impersonare personaggi umanamente inadeguati, sgradevoli e manipolativi. La visione passa velocemente, con un coinvolgimento dello spettatore che può “montare” insieme alla sua rabbia per come la vicenda va a dipanarsi e concludersi.
Un film che fa riflettere e incazzare, di quelli necessari per poter immaginare un mondo diverso.
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