C’è una Roma postapocalittica, circondata da un incendio che avanza, con i lapilli e la cenere che cadono dal cielo come una sinistra e sporca neve. La corrente elettrica non è più stabile e la sera la capitale più volte finisce nel buio, del Medioevo e della paura, all’improvviso. La temperatura è sui quaranta gradi ed è difficile anche solo respirare, provare a correre significa accasciarsi dopo pochi metri. Con queste premesse, non è forse un caso che ovunque infurino caos e violenza.
Manuel (Gianmarco Franchini) è poco più di un ragazzino, ama la musica trap e un po’ di trasgressione, ma accudisce amorevolmente un padre invalido e malato (Tony Servillo). Purtroppo è finito in un losco affare per colpa di alcuni poliziotti senza scrupoli, capitananti dal disperato e sempre più instabile Vasco (Adriano Giannini), dovendo per questo ricorrere all’aiuto dello “zio” Polniuman (Valerio Mastrandrea) e alla sua piccola rete criminale. È così che Manuel finisce sotto la custodia svogliata del Cammello (Pierfrancesco Favino), un uomo pericoloso e giudicato mentalmente instabile, uscito dal carcere solo perché sta morendo di cancro. È l’ultimo posto in cui la polizia può trovare il ragazzo, anche perché il Cammello ha un grosso debito nel confronti del padre di Manuel, al punto da volersi magari vendicare di lui. Ma forse nonostante tutto e tutti tra il Cammello e il ragazzo può nascere un sentimento diverso. Per il giovane può essere l’occasione per scegliere di riprendersi la propria vita dopo una serie di piccoli errori che l'hanno compromessa. Per l’uomo, ormai ridotto a una maschera di muscoli e dolore, è forse l’ultima occasione per sentirsi di nuovo un padre e un uomo per bene, prima di morire.
La città si trasformerà presto in un far west suburbano che non farà sconti di sangue e pallottole. Un luogo pieno di nascondigli e trappole dove contenere fucili e luoghi per le torture, ma anche un carnaio così confuso e ingestibile di uomini disperati in fuga, al cui centro chiunque può trovare un modo per confondersi, nascondersi e forse fuggire via, oltre il fuoco, oltre la stazione dei treni.
Dopo i celerini corrotti e kamikaze di ACAB e dopo le famiglie criminali moderne con rigurgiti del grande impero di Suburra, Sollima chiude con questo thriller/pulp/disaster movie la sua trilogia sulla “Roma criminale”. È un film notturno e ruvido, con colori e atmosfere alla 1997: fuga da New York, ma è anche un film dal sapore tragico sul difficile rapporto tra padri e figli. È un film che rievoca il “fascino della criminalità”, ma che al contempo non si perde in troppi elogi della stessa, con risvolti caustici, carichi di disillusione e tristezza, vicine alle migliori pagine di Scerbanenco.
Adagio prende il nome dal titolo del trascinante pezzo dei Subsonica che si può ascoltare a fine pellicola e che in fondo racchiude in sé tutto quanto la pellicola ha da dire. È una storia crepuscolare, fatta di uomini falliti giunti all’ultimo round della loro esistenza, per preservare come possono le loro future generazioni in una lotta fratricida. Uno stato d’animo preciso di uomini silenziosi e in corsa, o intenti a bofonchiare mezze parole con rabbia, a cui contribuisce emotivamente tutto lo score sonoro curato sempre dai Subsonica, quanto brani particolarmente calzanti presi tra i fiori all’occhiello di Califano e Patty Pravo.
Roma brucia, come ai tempi di Nerone, mentre ha luogo una lotta a guardie e ladri dove onore e vergogna continuamente si mischiano e confondono. Al centro c’è il ragazzo confuso ma combattivo, perennemente in bilico tra fanciullezza e un’inevitabile e forse predefinita adolescenza criminale, interpretato dal bravo Franchini. È un ragazzo che combatte per lo più disarmato, ma a proteggere le sue spalle arrivano tre autentici mostri, ma dall’animo molto umano, che sembrano usciti direttamente da un film di Takashi Miike o da un fumetto di Frank Miller. Il Daytona di Servillo sembra pazzo, ubriaco e malfermo. Guarda in aria mentre continua a ripetere ossessivamente le tabelline per calmarsi, appare assente, vive in ciabatte e pigiama, spettinato e storto. Ma quando occorre sa muoversi come un fantasma e colpire di sorpresa con i suoi coltelli, rapido e letale, “irriconoscibile” come il Kaiser Soze dei Soliti Sospetti. Il Polniuman di Mastrandrea appare se possibile ancora più inerme: cieco e quasi impossibilitato a lasciare il suo appartamento, sporco e solitario. Ma nel buio può essere letale e colpire con precisione anche con una pistola. Il Cammello di un Favino non dissimula invece per nulla la sua pericolosità: completamente glabro e muscoloso, dallo sguardo torvo e quasi alieno, mette a disagio anche solo a guardarlo. Possiede una forza erculea e una sopravvivenza simile al Marv di Sin City, ma forse la sua debolezza risiede proprio nella necessità di ritrovare almeno mentalmente una propria “forma umana”.
Se questi sono “i buoni”, Il Vasco di Giannini, che sembra per follia e attacchi isterici il Gary Oldman di Leon, avrà il suo bel daffare per tenere testa a tutti e tre, invischiandosi sempre più in un caccia da incubo in cui sono però in gioco anche i soldi per il suo affidamento dei figli. Anche Vasco quindi infine combatte per qualcosa di buono, nonostante tutto.
Non ci sono eroi, non ci sono davvero “cattivi”, tutta Roma brucia mentre stormi di uccelli migrano altrove, i treni per scappare sono fuori uso e le persone si accalcano e accasciano per strada dal caldo. Per rendere questo incubo credibile non si è lesinato negli effetti speciali e nella costruzione di riuscite scene di massa: l’inferno di Sollima è davvero vivido, affascinante quanto realisticamente terribile.
In questo viaggio di sola andata verso l’auto distruzione collettiva non mancano però momenti di puro lirismo, scene di riscatto esistenziale, donne che cercano di cambiare in meglio i loro uomini, malinconici addii e incontri casuali dal sapore amaro quanto ironico. Sollima sceglie di avvolgere il tutto in una cornice “patinata”, quasi da cinefumetto, non lesinando sull’azione più sanguigna e brutale, indugiando nello splatter, senza risparmiare sul conto dei morti e scene tragiche fino all’amarissimo finale, quasi un omaggio allo Strange Days delle Bigelow. Tutto funziona come i poliziotteschi anni ‘70 a cui questa idea di cinema espressamente e affettuosamente si ispira, compreso il fatto che sotto “la superficie” di queste produzioni “a tinte forti” si possono spesso riscontrare alcuni temi proprio della tragedia (quella di Seneca soprattutto), insieme a momenti di grande poesia.
E sotto quel cielo di lapilli e cenere che evocano quasi Pompei c’è tutta la potenza che il nostro cinema di genere sa ancora oggi offrire.
Se cercate un buon film pulp/action/catastrofico da vedere a Natale, dribblando commedie e cartoni animati, siete nel posto giusto. Ancora una volta Sollima non delude le aspettative e si conferma un ottimo cantore del crime movie nostrano.
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