Siamo in una baita isolata tra le Alpi.
All’esterno è tutto bianco, ordinato, freddo, quasi asettico. Ogni cosa sembra avvolta da un silenzio perenne. Ma all’interno dell'abitazione c’è vergogna, tragedia, rabbia, musica a tutto volume.
Al primo piano ha luogo una strana intervista tra una ragazza dell’Università e la padrona di casa, una nota scrittrice e traduttrice che ha vissuto per molti anni in Inghilterra. Si parla dell’atteso prossimo libro. Si parla della improvvisa scelta di aver lasciato tutto, comprese cattedre universitarie, per andare a vivere isolata con il marito francese in un luogo in cui si parla solo tedesco. Si parla della necessità di mettere al primo posto la famiglia. I sorrisi cordiali si fanno col tempo sempre più tirati e le risposte alle domande sempre più confuse, mano a mano che la musica sale, piena di urla e tamburi che sembrano voler sfondare le pareti.
Fino a che il caos sonoro dal piano di sopra arriva a interrompere ogni sorta di dialogo. Poi di nuovo silenzio. L’autrice (Sandra Huller) offre un té alla sua ospite. Per tranquillizzarla dice che suo marito, insegnante ora in congedo, è intento nel bricolage per trasformare la dimora in un Bed and Breakfast e che si sta impegnando tanto. È per questo un po’ stressato, ma quella musica a tutto volume “lo calma”, è tutto ok. La donna cerca di apparire convincente, ma il rumore riparte subito, aumenta, fino a farsi intollerabile per “violenza”. La scrittrice inizia ad avere una crisi di nervi, cominciano a scendere dalle sue guance le lacrime, con gli occhi sembra lanciare del messaggio di aiuto alla sua interlocutrice.
A due piani di distanza il figlio della donna, ipovedente, esce in fretta da una porta secondaria della casa con il suo cane. Forse per fare una passeggiata tra la natura in una bella giornata di sole. Forse perché quel rumore, che arriva fino allo scantinato dove si trova, è troppo alto anche lui e forse teme cosa potrebbe seguire “a quel rumore” tra i suoi genitori, quando si presentano in genere situazioni di questo tipo. Anche l’intervistatrice dopo poco lascia l’abitazione.
Infine anche la musica cessa.
Al ritorno dalla passeggiata il ragazzino, guidato dal cane, trova il corpo senza vita del padre a pochi metri da casa. Forse è caduto dalla balconata dell’ultimo piano. Forse è stato spinto giù da qualcuno.
Iniziano le indagini. Si analizzano schizzi di sangue, rimbalzi del corpo contro prima sul balcone del primo piano e poi sulla tettoia della rimessa. Si cercano impronte, dettagli, il minimo indizio.
Si chiamano gli avvocati e la moglie sceglie di essere seguita da un suo amico inglese, così come sceglie una interprete tedesca per deporre in aula per farsi capire al meglio. Vengono chiamati gli assistenti sociali per il bambino, che durante tutto il processo dovrà vivere altrove.
Inizia il processo, dove in un miscuglio linguistico tra francese, tedesco e inglese vengono alla luce solo discordanze, si fanno largo testimonianze e indizi solo parziali, mentre l’unica certezza scientifica rimane una morte per caduta.
Insieme all’autopsia del cadavere va in scena anche l’autopsia di una famiglia. Non servono molte altre parole per introdurre lo spettatore dentro alla cattedrale di ghiaccio visiva ed emotiva messa in scena da Justin Triet. Un viaggio all’interno della disgregazione umana che ci porta a contatto di personaggi simili ai fantasmi di loro stessi, racchiusi ognuno in un dolore incomunicabile quanto indicibile. Tutti sono sulla scena carnefici e tutti sono vittime in misura uguale, mancano un Hercule Poirot o una Signora Fletcher a ordinare per lo spettatore gli eventi, manca quella spesso “salvifica” certezza cinematografica di sapere come sono andate le cose e ci permette di puntare il dito sul colpevole.
È in scena una famiglia che dopo tante crisi e non detti esplode come una bomba nucleare, con una tale carica dirompente che non ci permette di ragionare sui cocci per avere una ricostruzione dei fatti.
C’è tra i personaggi un imprescindibile problema di lingua e di relativa comprensione tra culture di matrici diverse, dove il peso di una singola parola deve essere misurato con una cura spesso bizantina per non incorrere nel Lost in translation. C’è giuridicamente un problema relativo alla comprensione della disabilità e alla conseguente capacità di un disabile di saper leggere con chiarezza una situazione particolarmente strana e complessa per via dei suoi limiti fisici. C’è un problema relativo all’interesse del minore, nel poter continuare ad avere rapporti significativi con la sua famiglia in un momento in cui lo stato per legge gliela tiene lontana. C’è un problema relativo al valore reale di documenti e registrazioni realizzati in momenti di rabbia e confusione (non si parla di social ma ci siamo vicinissimi).
Anatomia di una caduta nei suoi 150 minuti non annoia neanche un secondo, proprio per il suo farci sentire costantemente immersi e turbati dalle mille domande che animano la pellicola. Veniamo, grazie all’occhio attento della regista, spinti costantemente a ragionare sui volti, sui dettagli rilevati dalla scienza, sulla morfologia dei luoghi, sulle procedure. Infine, estenuati, la pellicola ci spinge con intelligenza a puntare il dito sui mille ingranaggi sociali fallati che oggi tengono insieme lo stato di incertezza esistenziale di una famiglia che, caduta a parte, potrebbe essere quella di chiunque.
È un film che fa incazzare e lo sa fare bene, sfruttando al meglio tutti gli strumenti del cinema, dall’uso della macchina da presa all'interpretazione, dal valore del comparto sonoro ad una attentissima costruzione delle locations.
È per questo un film da non perdere, da studiare e comprendere nelle sue mille sfumature tecniche quanto tematiche.
Straordinari gli interpreti per la naturalezza e umanità “affranta” che riescono ad infondere nei loro personaggi. Adeguatamente glaciali le location, tra chalet di montagna e aule di tribunale ugualmente fredde, riprese con un particolare realismo e dovizia di dettagli. Meravigliosa la messa in scena, per ritmo e continue suggestioni narrative volte a scompigliare le carte, tra machiavelliche procedure sociali e giuridiche che quasi sembrano affliggere più che rendersi utili ad un fattore umano sempre più contratto e confuso.
Forse per l’intelligenza della sua costruzione una delle migliori pellicole degli ultimi anni.
Justine Triet, reduce dall’ottimo Sybil - Labirinti di donna, scrive e dirige un perfetto meccanismo narrativo che fonde alla perfezione il meglio dell’odierno cinema sociale (anche dei Dardenne, per l’essenzialità e chiarezza nella messa in scena), il thriller giudiziario e il giallo investigativo.
Una lezione di cinema.
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