sabato 2 dicembre 2023

Il paese del melodramma: la nostra recensione del nuovo film di Francesco Barilli, con Luca Magri e Luc Merenda

 


Parma, oggi più che mai, specie in un’estate torrida e spietata in cui anche gli animi prendono fuoco, è “il paese del melodramma”. 

La Vita della città di Giuseppe Verdi gira tutta intorno a un teatro lirico sempre più austero e distante dal mondo, mentre la Morte, quella con la falce (impersonata da Luc Merenda), vaga tra le lapidi del cimitero rimpiangendo la scomparsa dei grandi compositori e cantanti del passato, che lì riposano.

La Morte guarda la statua di Verdi e sogna di poter trovare ancora, oggi a Parma, qualcuno “all'altezza” delle sue composizioni. Spera magari di trovare un interprete per il Macbeth, l’opera verdiana più “sanguinaria” e quindi quella da lei più amata. 

Lo sguardo del tristo mietitore per caso incrocia quello del lirico Carlo Gandolfi (Luca Magri) al cimitero anche se “ancora tra i vivi”, qualche lapide più in là,  mentre sta cambiando i fiori della tomba di sua moglie e sua figlia. Era “uno bravo”, ma da quando loro sono morte, pochi anni prima, in volo su un aereo, è profondamente cambiato. Oggi Carlo “annega nell’alcol” un dolore che pare profondo come un buco nero, tutti i giorni, con meticolosa costanza etilica, fin dalle prime luci del mattino fino a notte fonda. L’uomo imponente e sicuro di sé al centro delle locandine del teatro regio è ormai scomparso. La giacca sgualcita, la cravatta storta, i capelli più disordinati che arruffati, occhiali da sole che miserevolmente nascondono occhiaie e occhi arrossati, piccoli e avvinazzati, che quasi si feriscono con la sola luce del giorno. La voce e la concentrazione ormai se ne sono andate, la casa si è “svuotata” se non per qualche poster che ricorda la prestigiosa carriera passata, ogni tentativo di “riempirla con altro”, che non sia alcol, magari anche solo una partner occasionale incontrata in un bar, è tragico. Carlo litiga con tutti, arriva tardi agli incontri o li diserta, per fuggire verso un altro bar o un’altra bottiglia del minimarket. Quel “vortice liquido dorato”, che nel bicchiere descrive il whisky appena versato, sa per lui essere ipnotico, caldo e accogliente come i tempi d’oro. 

Del resto solo con l’alcol Carlo si sente ancora grande e potente sulla scena di Parma, come lo era sul palcoscenico a teatro, con il suo Giulio Cesare. Ma l’illusione è nascosta male agli occhi degli altri concittadini e il tenore Ferrarini (Eugenio Maria De Giacomi), suo antico rivale, ormai lo tratta pure in pubblico alla stregua di un mentecatto, mentre nessuno dice niente e tutti guardano altrove. Carlo forse non ha più neanche le ultime cartucce artistiche da sparare durante le lezioni private. Forse avrebbe preferito davvero essere esploso in aria pure lui, tre anni fa. 

La morte però “vuole crederci”, nella rinascita artistica di questo Carlo Gandolfi, ex promessa del lirico. Ma per vederlo a teatro in una performance di livello “va rimesso tutto a nuovo”, con le giuste motivazioni. 

Più che un contratto “faustiano” serve prima di tutto una seria disintossicazione vecchio stampo. Poi serve che Carlo torni a studiare per davvero, poi serve ridargli quella fiducia persa. Solo allora la tragedia interiore e il rancore, che stanno nuotando ancora dentro Carlo insieme al whisky cattivo, potranno trasformarsi, sublimarsi e fornire il giusto “spirito artistico” per una genuina interpretazione tragica. 

Del resto le cose migliori, la Morte se lo ricorda bene, Verdi le ha create “risalendo”, quando era più pieno di dolore e disperazione. 

Il dolore, se sotto controllo, può essere benzina per l’arte. 

La morte si insinua con questo intento nella vita di Carlo: come fosse il miglior motivatore e psicologo desiderabile. Lo spinge a riscoprire le tante bellezze della Parma che lo circonda, lo tiene lontano dall’alcol, lo sgrida e a volte pure lo coccola. Ogni tanto “prende in prestito” il volto di persone a lui care. Ogni tanto veste i panni di sporadici passanti. Quando vuole farsi ascoltare con maggiore attenzione la Morte si presenta direttamente con la falce di ordinanza per colloqui più “formali”, come ha fatto per la prima volta, quando lo ha incontrato al cimitero: promettendogli la morte in caso si rifiutasse di interpretare il Macbeth. Quando Carlo torna a fare pasticci con la dipendenza il mietitore invece lo spaventa a morte cacciandolo, anche in pieno giorno, in incubi terrificanti pieni di fantasmi alla Dickens. Lo fa per il suo bene ma soprattutto per avere un Macbeth decente a teatro. 

Carlo dopo un primo momento di caos, panico e autolesionismo sembra felice e partecipa pure agli alcolisti anonimi. Il padre di Carlo (Francesco Barilli) vede il figlio rinato, l’amica di sempre e sua insegnante di canto Angelica (Nina Torresi) non lo ha mai visto così in forma e concentrato. Per una volta anche il rivale Ferrarini lo teme davvero, perché davanti a “questo Carlo” può, per la prima volta da tanto tempo, perdere l’audizione per la parte da protagonista. 

Una nuova e misteriosa rappresentazione del Macbeth compare così all’improvviso in cartellone e il giorno del debutto si avvicina. Carlo sta forse rinascendo, ma al contempo inizia a pensare che la sua rinascita è “troppo forzata”. 

Tutto gira troppo dritto, tutti lo supportano felici di farlo e quando ci sono pure gli intoppi questi si risolvono in un istante e a suo favore, spesso con meccanismi così “crudeli e chirurgici” che non possono essere dettati solo dal caso. 

Riuscirà la Morte ad avere il suo Macbeth?

Riuscirà una rinascita artistica a favorire in Carlo anche una rinascita spirituale? 

Torna nelle sale Francesco Barilli, attore (per Pietrangeli e Bertolucci), sceneggiatore (per Chi l’ha vista morire di Aldo Lado e  Il paese del sesso selvaggio di Umberto Lenzi) e regista di cult come Il profumo della signora in nero, nel 1973, e Pensione Paura nel 1977. Con Barilli, che lo ha diretto proprio in Pensione Paura, ritorna, nel ruolo “metafisico per eccellenza”, anche Luc Merenda, il leggendario attore negli anni '70 di molto del cinema action “poliziottesco” (La banda del trucido, Napoli si ribella, Il poliziotto è marcio), negli '80 “rivale affascinante” nelle commedie di Paolo Villaggio (Missione Eroica I pompieri 2 e Superfantozzi) e nel 2000 insieme alla Fenech in Hostel 2 di Eli Roth. 

L’interprete principale è Luca Magri, sceneggiatore, produttore e regista che nel 2002 è stato attore principale del noir Nel cuore della notte di Primo Giroldini e nel 2019 incontrava proprio Barilli, per il remake del suo corto del 1966 L’urlo, iniziando così un sodalizio artistico con l’autore parmense. 

Dopo la regia di alcuni documentari sul teatro lirico, a Barilli arriva quindi l’idea di questo progetto dal sapore drammatico, satirico ma anche dalle sfumature horror: una pellicola malinconica quanto sarcastica sull’amore, l’alcol, l’arte e chi la commissiona, nonché gli infiniti modi disfunzionali in cui queste tre “energie” cercano di combinarsi egoisticamente tra loro. 

C’è chi vive per l’amore, c’è chi vive per l’arte come la Morte. C’è chi vive infine per l’alcol “in mancanza d’altro”, come il personaggio di Carlo: avvolto in una bolla alcolica autoindotta perfetta come un sogno dorato, rotondo e avvolgente come l’ascensione ritratta nella cupola della chiesa di San Giovanni Evangelista di Parma. Una visione mistico/artistico/alcolica a cui partecipa il protagonista sotto la guida di una Morte che per un istante prende le sembianze di un prete dall’aria severa ma accogliente, interpretato dal caporedattore della rivista di cinema horror “Nocturno”, Davide Pulici con grade charme.


Si parla di alcol in modo disincantato e diretto, onesto quanto complesso nelle sfumature: vicino al “paradiso” nel suo “uso ideale” e vicino all’inferno nella sua quotidiana dannazione, dove le allucinazioni diventano parte integrante della vita. 

Su un piano parallelo si innesta una storia sulla capacità individuale di uscire dall’alcol, dove la strada non è meno tortuosa, presentandosi spesso tragica e sottile. Su questo percorso tra autodistruzione e rinascita Barilli innesta un piano metafisico che avvolge il tutto e fa satira sul mondo dell’arte, domandandosi se una semplice “rinascita artistica” possa bastare a salvare una vita ormai ridotta in tragedia.  

È un cinema crepuscolare, che vive delle atmosfere tra sogni e incubo degli horror anni ‘70 e in cui i lettori dei fumetti di Dylan Dog riconosceranno qualcosa di “familiare”, vicino ai primi lavori di Scalvi (come al film di Soavi Dellamorte Dell’amore pertanto): la morte è sulla scena una creatura sempre iconica, come la rappresentazione “bergamaniana” impone, ma è anche una creatura profondamente dispettosa, edonista  e con un forte amore per l’arte. Gioca con il destino e lo piega al suo volere, spostando, alterando e intrecciando le vite degli esseri umani, come fossero burattini, con la grazia di un tritacarne. È così stanca della tragedia umana quotidiana da preferirle la finzione tragica nell’arte: più elegante nei gesti e parole, più partecipata coralmente, con migliori  luci e costumi. 

L’influenza “soprannaturale” del personaggio della Morte sulla vita del protagonista, pur nella inedita accezione di “sponsor anti-alcol”, spesso si sovrappone agli effetti allucinatori dell’alcol stesso, spingendolo a combattere una continua lotta tra i fantasmi etilici e gli incubi indotti dal tristo mietitore. 

Barilli parla di fragilità umana e, tra le righe, lancia con il personaggio di Luc Merenda precise critiche a un modo di fare spettacolo (che sia la lirica, ma anche il cinema e la musica) che forse ha perso il contatto con il mondo reale, gli attori e  il pubblico: uno mondo produttivo che si è chiuso in tecnicismi quasi barocchi o in meccaniche autoreferenziali che tendono ad alimentare prodotti che non parlano più al presente, quanto solo “a se stessi”. Uno show business che bada alla qualità di una performance secondo canoni molto strutturati e poco si cura delle attitudini e fragilità di interpreti, che vengono considerati spesso, come fa la Morte, alla stregua di prodotti “usa e getta”.  

Il lavoro di Barilli risulta nello sviluppo di queste tematiche spesso interessante, “giustamente malinconico”, sentito a livello emotivo e quasi cinico sul futuro di un arte “brutalmente selettiva (ma non meritocratica)” quanto eccessivamente standardizzata e poco incline nel cogliere il presente e le sue ruvidezze. 

Il viaggio allucinato di Carlo a fianco della Morte per le vie di una Parma piena di arte e cultura è stimolante, anche se al netto delle buone intuizioni, espresse sia a livello visivo che musicale, la messa in scena non sempre riesce a esprimersi al meglio. 

Luca Magri è contratto su un personaggio forse troppo impostato, fin dalla voce, “distante” per manifestare il caleidoscopio di sentimenti che lo animano. 

Eugenio Maria de Giacomi è troppo marginale nella storia e risulta nei suoi momenti sulla scena quasi macchiettistico . 

Ogni tanto la trama si sfalda e ingarbuglia, il finale può risultare forse troppo veloce nello svolgimento e alcuni nodi sembrano non staccarsi da un certo ermetismo (come i ricorrenti orologi). Certo sono pecche che non vanno a discapito delle ottime suggestioni anche narrative, ma l’insieme di questi elementi conferisce alla visione delle asprezze, “dissonanze” che a volte possono disorientare. 

Brava Nina Torresi nel ruolo di un personaggio complesso come quello di Angelica, molto elegante Luc Merenda, il cui tristo mietitore rimane bene impresso dall’inizio alla fine, con i suoi inediti capelli lunghi bianchi, la falce e il suo meraviglioso modo di giocare con le parole e i sentimenti: a volte ingenuamente cinico, a volte paterno, spesso sarcastico e distaccato. 

Un plauso alla colonna sonora, composta quasi tutta da arie di Verdi che riescono in alcuni momenti specifici e sincopati a rievocare momenti propri anche degli horror del passato (del resto anche il tema musicale portante di Chi l’ha vista morire aveva un coro femminile molto classico ). 

L’aria La zingarella, dal Trovatore, viene utilizzata, in modo straniante ma divertente, durante la scena della disintossicazione del protagonista e sembra quasi il momento dell’allenamento di Rocky sotto le note di Gonna Fly Now di Robbins, Conti e Connors. 

Il paese del melodramma è un’opera che vive di chiaroscuri, ma che può smuovere negli spettatori suggestioni affascinanti. 

È un’opera con il sapore del cinema di genere del passato, di cui spesso insegue geometrie e luoghi comuni, ma anche una particolare voglia di reinventarsi. Se amate i fumetti di Dylan Dog potrebbe essere una piccola sorpresa. Se siete fan dei film anni ‘70 vi sentirete in certe scene “tornare a casa”. Se amate la musica lirica e la città di Parma fateci un pensiero. 

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