"Dovrete
portarmelo via dalle mie mani fredde". Era questa la frase che era solito
pronunciare, sollevando un fucile coloniale, l'attore Charlton Heston
alla fine dei suoi interventi nei convegni della National Rifle Association, di
cui era anche presidente. Nel 2008 aveva sfidato anche Al Gore, con la stessa
veemenza, a strappare il secondo emendamento dalle sue "mani fredde",
ribadendo fino alla morte il diritto di ogni americano a impugnare un arma.
Probabilmente è stato pure seppellito con in mano un fucile coloniale e il
secondo emendamento nell'altra. Negli anni '60 Charlton Heston è stato
però di fatto anche un attivista dei diritti civili, che lottò a fianco di
quel Martin Luther King che abbiamo ricordato di recente nel post su Black
Panther. Da questa parte del mondo a volte sembra contraddittorio vedere
insieme il diritto di armarsi e la voglia di difendere le minoranze etniche, ma
questo modo di ragionare è un tratto tutto suo della logica americana che
spunta in modo sarcastico anche nell'ultima pellicola di Eli Roth. Eli Roth è
americano, ma forse perché nato in una famiglia ebraica di origini
austro-russo-polacche, riesce ancora a sorprendersi e sorprenderci di queste
strane manie americane. C'è nella pellicola a un certo punto un uomo anziano di
ritorno dal funerale di sua figlia, forse il momento più doloroso che
l'esperienza umana può immaginare. È in macchina, sta guidando e parla con il
personaggio di Bruce Willis, distrutto come solo può essere distrutto chi ha
subito un lutto così importante, inaspettato e crudele, per colpa di
ferite inferte da uno sconosciuto criminale armato. Questo padre di famiglia si
sta sfogando con dei fiumi di parole mentre avanza piano per una stradina
sterrata al volante di un carcassone americano tipo. A un certo punto si
ferma. Si ricorda qualcosa. Dice a Bruce Willis: "Mi sono dimenticato di
fare una cosa importante". Fa inversione a "u" con il suo
veicolo sgommando e si dirige come una furia verso i suoi campi che, rimasti
incustoditi per via del funerale della figlia, ora sono diventati sicuramente
preda dei ladri di bestiame. E infatti il vecchio arriva a destinazione e li
trova. Subito estrae un fucile a doppia canna dal cruscotto con lo stesso
spirito con cui si cerca un cd dei Pink Floyd da mettere nel lettore o si cerca
l'ombrello dietro al sedile. Scende dall'auto e inveendo tutto incazzato inizia
a sparare a caso. Parole e palle d'odio metallico all'indirizzo dei briganti in
fuga. Giù pallettoni, ricarica e giù pallettoni. Normale come passare con la scopa
il vialetto per togliere le foglie. Torna in auto e torna a parlare con Bruce
Willis del suo dolore.
Il giustiziere della notte di Eli Roth è così. È tutto
così. Un'atmosfera vintage calda e soffocante che assimila la Chicago di oggi
alla San Francisco di 48 ore di Walter Hill, lo sguardo cattivo da western
urbano di Carpenter, una colonna sonora Tarantino -deluxe (nel senso di cool e
curata), lo splatter esagerato da rape'n'revenge mutuato da robe come I Split
on your grave, la tensione dell'uomo normale caduto in una situazione folle che
di recente abbiamo ritrovato in Death sentence di Wan ma soprattutto l'ironia,
tanta ironia cattiva a pacchi sull'esigenza dell'americano medio di armarsi e
scendere in campo "quando la situazione lo richiede", finendo per
rimetterci le penne. L'originale film con Charles Bronson rispondeva con "la seduzione delle armi e della giustizia" al desiderio di
combattere e abbattere i criminali da strada in quelli che anche da noi erano
chiamati gli anni di piombo. Eli Roth ribalta tutto e senza nemmeno nasconderlo
troppo tra le righe fa vedere come molte sparatorie della pellicola si potevano
di fatto evitare senza la smania tutta americana di giocare ai cowboy e
l'ossessione di giocare la partita fino a che dovranno togliere il fucile dalle
loro fredde mani. Il plot è quindi simile, con al centro un personaggio che
diventa giustiziere a seguito della morte della moglie per mano di una banda di
delinquenti. Ma gli esiti e le premesse sono decisamente diversi. Il Paul Kersey
di Charles Bronson è un architetto che ama sparare ed è di base un ottimo
cacciatore, con la polizia che lo tallona stretto. Il Paul Kersey di Bruce
Willis è un medico che non ha mai toccato un'arma circondato da un mondo
felicemente e pesantemente armato. Quando diventa un giustiziere e inizia a far
salire con il pallottoliere il numero dei criminali morti ammazzati quasi gli
danno la medaglia, la società esulta, la polizia stima, alcune voci sono
dubbiose ma non vengono ascoltate. Le radio locali sostengono che è una figata
questo tizio, è come nel videogioco del Gran Ladro d'Auto e poi
"serve", svolge un compito sociale di smaltimento rifiuti! Il look
da giustiziere che sceglie Bruce, con felpa da ginnastica con calato il
cappuccio sulla testa che gli fa guadagnare il nome di "mietitore"
(il grim reaper classico è infatti la morte con il cappuccio e falce),
diventa subito virale e a un certo punto tutti gli everyman sfigati di Chicago
iniziano ad andare in giro così agghindati, come in una scena di V per
Vendetta, pronti a farsi crivellare di colpi dalla prima mezza tacca di
quartiere. "Armarsi" in questo film è poi visto in un modo così
gioioso e sopra le righe da non sembrare vero. Un paio di giorni e ti porti a
casa un mitragliatore cromato oro dal punto vendita più figo di zona, gestito
da commesse ultra-sexy, in modo totalmente legale e garantito. Si nota ed è un
bel vedere la sceneggiatura sulfurea a firma Joe Carnahan, uno che ha creato il
pazzo dittico degli Smokin'Aces e il cupo The Grey, uno che è dietro alle
puntate migliori della serie TV Blacklist. Carnahan sa giocare con l'eccesso
come maneggia bene la grammatica dell'azione e questo sodalizio con Eli Roth
funziona a più livelli, dall'intrattenimento allo splatter alla satira, come
alcuni dei gioiellini anni '80 di Paul Verhoeven. L'azione è sempre divertente e
strutturata, il ritmo indiavolato, alcune sequenze così sulfuree che pare di
leggere il Punisher di Garth Ennis. Finalmente vediamo in forma Bruce Willis
dopo troppo, troppo tempo. Ed è una vera gioia, inaspettata. Finalmente vediamo
Eli Roth tornare ai tempi d'oro dopo un paio di film simpatici ma un po' opachi
e lo vediamo tecnicamente quasi più in forma (anche se gli ultimi minuti del
primo Hostel ancora non si battono e stanno di diritto in cima al suo
cinema). Quindi tutto bellissimo e tutto fantastico? Questo Giustiziere della
Notte formato 2018 diverte e intrattiene, fa sorridere in modo amaro, ogni
tanto come si conviene sa giocare con la tensione e infine vola via veloce.
Peccato che nel frattempo siano arrivati i The Raid di Gareth Evans, gli Atomica
Bionda e i John Wick di Stahelski e Leitch, le Notti del giudizio di DeMonaco
e, perché no, il Baby Driver di Wright. L'opera di Roth, pur coccolando il fan
medio del revenge/action movie, non riesce a essere altrettanto
sovversiva e incendiaria, nuova come linguaggio e altrettanto sexy. Però è di
sicuro una bella bombetta, come lo era ai suoi tempi Payback con Mel Gibson.
Sia chiaro che se mi annunciano un seguito io sono già in sala a vederlo in
prima fila. Questo ultimo Roth non è affatto male.
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