Siamo
nella provincia emiliana, con l'Italia che, superando la Bulgaria, è da poco
diventato il paese più corrotto d'Europa. In Italia vige secondo Max (un
paterno Walter Leonardi), una "legge del furiere" (una parola
"vintage" che ricorda i tempi del militare ai quarantenni) in ragione
della quale chi si lamenta non fa niente e chi sta zitto e fa il suo lavoro,
lavora anche per gli altri. Riko (uno Stefano Accorsi Freccia 2.0) lavora e
"fa i botti" in un salumificio in cui l'integrazione con un lavoratore
straniero come Pavak (il simpatico Jefferson Jeyaseelan) è tollerata finché lui fischia durante il lavoro, ma non si sopporta proprio se
"fischia male". C'è molto stress nell'aria, ma Riko sembra uno
tranquillo. Ha per moglie la bella, ottimista anche se un po' triste Sara (una
splendida e struccata Kasia Smutniak), che fa la parrucchiera e lo tempesta
ogni giorno di telefonate per sapere come sta. Ha un figlio giovane, entusiasta
e premuroso come Pietro (Tobia De Angelis), che presto andrà al Dams ma
che per ora non ne vuole proprio sapere di "scollarsi" da casa e
"svilupparsi", come vorrebbe il padre, andando a esplorare il mondo.
Perché Riko lo sa che è un attimo farsi andare bene tutto e non vuole che
Pietro, che è il primo della famiglia ad andare all'università, cada in
questo errore e rimanga seppellito nel triste mondo della provincia. Da zero a
dieci, si può dire che la vita attuale di Riko non vada oltre al cinque e
mezzo. A lui non basta tutta questa routine e per questo frequenta quando
capita "un'amichetta", per tenersi giovane, e tiene saldo un pugno
di amici con cui, tra una partita a scopa e una festicciola tra famiglie a base
di piatti etnici etiopi, girare insieme in auto. In quelle sere il mondo per
lui, grazie a un Virgilio di classe come Carnevale, si fa tutto diverso e ci
si può sentire davvero in libera uscita nel libero mondo. La notte, un po'
mamma e un po' porca com'è, riesce a tenere Riko e i suoi amici tra le sue
tette, guidandoli per le strade della provincia, tra nebbia e locali, cosce e
zanzare, magari con l'occasione di conoscere qualche altra bella e pericolosa
bambolina (che si spera non abbia con se una pistola). Riko però è già negli
"-anta", dovrebbe smettere di fumare come è riuscito da poco, ma per
troppo poco, all'amico Carnevale (Fausto Maria Sciarappa). Dovrebbe stare con
la testa più a casa ed essere più fiducioso, guardare al fatto che essere
diventato vecchio non è poi così brutto, ma lui si sente lì, sempre lì, lì nel mezzo, in bilico tra la vita da pischello e le responsabilità da adulto.
Anche perché c'è dietro una brutta storiaccia che non si può dire. Intanto però
vorrebbe ancora riappropriarsi delle casse dello stereo e dei dischi dei Simple
Minds, che il figlio ha stipato nella sua mansarda-fortino da adolescente.
Vorrebbe lasciare un po' il mondo dei salumi, con una mensa aziendale in cui sa
tutto di salumi e dove non ci sono più i proprietari di una volta, ma in fondo
finché è lì va bene. Vorrebbe magari essere bravo a fare qualcosa, come Carnevale,
che è bravo tanto a dipingere quanto a non assumersi le responsabilità. Magari
vorrebbe essere affidabile come il suo amico Max, ma Riko non è fatto come Max
o come Carnevale e poi cambiare vita, testa e lavoro... per fare cosa?
"Perché siamo qui?" è la domanda che piomba come una spada di
Damocle sulla vita di Riko e casualmente è anche il titolo del lavoro che
Pietro sta realizzando in vista del Dams, una serie di interviste che sta
coinvolgendo tutta la sua famiglia e amici. E quindi a saper rispondere
concretamente a quella domanda, davanti a uno smartphone, anche per Riko, non
si scappa. Ma come si fa a sapere "perché siamo qui" mentre lo spread
va male e dicono che ti devi preoccupare, mentre al lavoro iniziano a fioccare
i licenziamenti, mentre con Sara ci sono troppi sms strani, problemi
irrisolti e storiacce che stanno per far scoppiare un bubbone che sta crescendo
da anni? In più ci si mette pure l'amico "artista" Carnevale, che sta
sbarellando tra brutte compagnie, brutti posti e brutte sostanze, con tutta una
voglia matta di autodistruggersi che non conosce sosta. E Riko davanti a questo
è fermo, impotente, immobile. Da trent'anni a insaccare salumi nel cuore della
provincia, a voler essere ragazzino e a non sapere ancora cosa tenere o mettere
via della sua vita, a lasciare che Sara parli per monologhi perché lui non
sente di avere niente da dire. Poi però arriva quel momento lì, quello magico
che può cambiare le cose e mettere tutto in prospettiva. Una botta in testa. A
Roma Riko e amici si sentono di partecipare a un corteo, roba a cui non
partecipavano da vent'anni, da quando pensavano che: "è giusto non essere
d'accordo". Non arrivano nemmeno per le strade principali che vengono
coinvolti in uno scontro tra manifestanti e polizia. Gli animi si scaldano, le
parole si accendono, parte per sbaglio e paura un colpo in aria e in un assalto
maldestro Riko finisce, complice una manganellata, direttamente al pronto
soccorso. Sara, che forse c'ha un altro come di fatto pure Riko c'ha un'altra,
arriva a Roma, ad accudirlo. Lo guarda negli occhi e lui si ricorda o capisce
tutto in una volta che non è solo al mondo come aveva sempre pensato di
esserlo. Sara dice: "Sto qui finché non ti dimettono dall'ospedale, poi
torniamo insieme". Subito precisa: "Nel senso che torniamo a casa
insieme", ma ormai la frittata è fatta, i due tornano a guardasi come una
volta e magari, dopo "ottant'anni di prove" di una convivenza
infinita potrebbero pure pensare a sposarsi. In più ci sono il giorno dopo in
ospedale dei giornalisti che vogliono intervistarlo, perché il suo pestaggio ha
fatto scalpore. Presto arriverà forse il momento per Riko di raccontare tutto al
mondo, che è sempre una telecamera più grande dello smartphone del figlio. Il motivo per cui è in ospedale, ma anche la vita di merda che fa, le paure
per il futuro del figlio, i timori che la politica non possa ascoltare la gente
comune, la sua voglia di credere nelle brave persone, nel futuro e di essere
contento di essere una persona qualunque. Dirà tutto quello che ha dentro da
anni e dirà finalmente, a tutti e a se stesso, "perché sono
qui?". Ma saprà il mondo ascoltarlo? E questo grande evento gli cambierà
poi la vita?
Era il
1998 quando usciva Radio Freccia, oggi siamo nel 2018 e siamo tutti un po'
invecchiati, Ligabue e Accorsi compresi, anche se non si nota più di tanto.
Ieri come oggi c'è Stefano Accorsi, alter-ego cinematografico di Luciano
Ligabue, si trova davanti a un microfono acceso, cercando di raccontarsi
come il ragazzo semplice e un po' complessato della provincia. Probabilmente
Riko, come Ivan Benassi, crede ancora, vent'anni dopo, alle rovesciate di
Bonimba e ai riff di Keith Richards, ma di sicuro crede ancora anche al
doppio suono di campanello nel padrone di casa che vuole l'affitto ogni primo
del mese, crede ancora che ognuno di noi si meriterebbe di avere una madre e un
padre che siano decenti con lui almeno finché non si sta in piedi da soli,
crede ancora che la strana voglia di scappare da un paese con ventimila
abitanti vuol dire che in fondo hai voglia di scappare da te stesso e crede
infine che da se stessi e dai propri problemi non si riesca a scappare proprio,
nemmeno se si è Eddy Merckx. Freccia aveva scelto di non crescere, Riko però ci
vuole provare, pur tra i mille sbagli e qualche "rimorso!!".
Vuole crederci un po' di più e per davvero, pur nelle sue fragilità umane, nel
futuro e nella famiglia. È un Ligabue più "mediato e meditato", meno
"maledetto" forse, perché ha alle spalle vent'anni extra di vissuto
da raccontarci e condividere da quel Radio Freccia che, come una bomba, colpiva le sale cinematografiche in un modo inaspettato ed esaltante. Negli
anni poi Ligabue, oltre ai dischi e a un feudo tutto suo negli stadi e in un
noto aeroporto dove i fan accorrono periodicamente a frotte, è riuscito,
tra le tante cose, a uscire di nuovo al cinema, con Da zero a
dieci, un altro film sull'amicizia e sulla provincia, in cui è
riuscito a raccontare con malinconia e disillusione anche la Storia (la strage
nella stazione di Bologna). Tra i tanti libri ha anche scritto un romanzo di
fantascienza sociale interessante come "La neve se ne frega",
tradotto in un bel fumetto ma purtroppo non (ancora) in un film, che è
una diretta critica alla società gerontocratica che stiamo vivendo. Della sua
band oggi c'è ancora solo capitan Fede Poggipollini, i tempi sono cambiati ma
il Bar Mario non ha mai chiuso.
Nel
frattempo Stefano Accorsi, esploso proprio con Radio Freccia, si è un po'
ricalcato nel personaggio di Ivan nelle sue esperienza mucciniane, ma ha saputo
essere anche il roccioso commissario Scaloja di Romanzo Criminale, il
cinico Leonardo Notte della serie TV 1992 e ci ha regalato di recente il
meraviglioso personaggio di Loris De Martino in Veloce come il
vento.
Made in
Italy riprende questo sodalizio tra il cantante e l'attore e la stessa formula
da "film rock", carica di canzoni e di frasi ad effetto, dei paesaggi
della stessa provincia emiliana descritta con i suoi riti e piena di anti-eroi,
perdenti ma dal cuore d'oro. Questa volta alla base non c'è un suo romanzo ma
un suo disco, l'undicesimo, uscito alla fine del 2016.
Made in
Italy è un concept album, il suo primo, che Ligabue descrive come: "Una
dichiarazione d'amore frustrata verso questo paese, raccontata attraverso la
storia di un personaggio". Il personaggio, la cui storia è raccontata
attraverso i brani dell'album, è proprio Riko e complice un momento così brutto
per la voce del cantante da farlo allontanare dagli stadi (oggi problema
risolto) e la possibilità di avere Accorsi disponibile, si è riusciti in tempi
brevi a realizzare il film, sempre prodotto dallo scopritore
"cinematografico" di Ligabue, Stefano Procacci della Fandango. Come
già detto sopra qui e là, c'è un po' aria di rinnovamento rispetto ai temi
caldi della sua opera prima. Per gli amanti del Liga e del suo mondo che
seguono fedeli da anni le sue opere funziona come un caldo abbraccio, un
ritorno a casa quasi commovente, uno scoprirsi di nuovo ragazzini con in fondo
ancora poche rughe in faccia. I detrattori saranno tutti invece concentrati sul
solito adagio, su cui lo stesso cantante ha scritto pure un pezzo, del
dubbio se "è come prima / no si è montato" a cui di conseguenza
"ognuno può scegliere la sua verità". Perché questo film è, genuinamente,
dal soggetto alla scrittura alla direzione e alle musiche un prodotto del
Luciano Ligabue di oggi al 100%, con tutta la semplicità e potenza dei suoi
brani rock, con tutto il suo modo diretto e accattivante di dire le cose.
Ligabue si conferma un buon direttore, stilisticamente vicino a Muccino ma più
rock, capace di tirar fuori dai suoi attori personaggi vissuti e cool,
ripieni di battute così memorabili da voler correre a scrivere di volata sulla Smemoranda. Capace di gestire ogni sequenza per ritmo e peculiarità della
fotografia come un videoclip, attento alla necessità di farci ridere e insieme
farci piangere. Ogni tanto i più attenti potranno, guardando le scene, anticipare
i brani del concept album, prima che le note di fatto partano. Questo significa
che il "patto" con i fan del disco funziona ed è un effetto
interessante da vedere in sala, dove ogni tanto partono dei coretti o anche
solo si sentono battere i piedi a ritmo delle canzoni. Non è un musical, le
canzoni sono però un elemento narrativo centrale e riescono ad arrivare quasi
sempre al momento giusto, a volte anche solo in forma strumentale.
Ma com'è
questo Ligabue che parla di disillusione e famiglia a vent'anni da Radio
freccia? È meno cupo, come dicevamo sopra, ma è più attento alle sfumature, ai
colori e agli odori della vita. C'è un ponte sul Po, freddo e gelido durante
una notte disperata di pioggia e paure. C'è l'aria fresca di una serata romana
vissuta tra amici a cavallo di monoruota elettrici, a passeggio tra monumenti
storici. C'è il fetore, che spinge dei vicini di casa a interessarsi di una
persona che non si vede da qualche giorno. C'è il profumo di un prato appena
tagliato abbinato ai sapori buoni della tavola e alle risate degli amici di un
pranzo domenicale. Ci sono i prosciutti, che impongono la loro profumata e un
po' invadente presenza dop romagnola fin da inizio pellicola, quando un
prosciuttone insaccato si colloca alle spalle, come monito di un destino già
segnato, ad uno Stefano Accorsi che si improvvisa ballerino "vintage" con
indosso una camicia rossa a frange sbriluccicanti, quando leggenda non
confermata vuole che Ligabue come primo lavoro fosse ragioniere in un
salumificio. Ci sono nel bilancio finale immagini di un'Italia più carica di
paure che di gioie, specchio di una società percepita con forte voglia di
cambiare ma ancora fragile e che di certo non crede più nelle favole. In questo
ritrovo la vena più malinconica del Liga, quel senso agrodolce di cui sono
pregni tutti i suoi lavori ma che è sempre supportato dalla speranza che spesso
le relazioni umane diventino e possano restare l'unica, vera e insopprimibile
rete di salvataggio dei giorni nostri. Ligabue trova infatti il tempo di
parlare anche di anziani malati, di matti del paese, di drogati del gioco d'azzardo
che possono salvarsi solo se prima vedono il fondo, di un mondo dei giovani
visto con la paura che in un momento tutto possa degenerare irrimediabilmente.
Made in Italy è un film che consola, pur rimanendo di fondo molto amaro ed è
una pellicola che mi sento di consigliarvi, soprattutto se per voi il Liga è
ancora "come prima", come ai tempi di Balliamo sul Mondo. Ma anche se
siete tra i detrattori penso che il film potrebbe piacervi.
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