C'era una volta "Fantastica", una collana di
fumetti europei di fantascienza e fantasy per edicole curata da Mondadori
Comics, gemella della collana Historica, specializzata in racconti di stampo
storico- biografico (questa con alcune incursioni anche nel fumetto americano), a sua volta sorella maggiore di Prima, una collana dedicata ai fumetti bd
appena sfornati e non ancora raccolti in volumi "stagionali". Con
Mondadori Ink virtualmente di sposta Fantastica in libreria e già sono tanti i
titoli, tra riproposte e novità, che succosamente possiamo trovare in vendita,
in formati e grafiche accattivanti. Shangri-la svetta con la sua copertina nero
spaziale e la sua dimensione over-size, che quasi tiene una parete. Poi ci si
avvicina timorosi al volume, lo si prende in mano consapevoli che è
pesantissimo come ce lo saremmo immaginato, si apre timorosi il contenuto per
sfogliare un paio di pagine e si viene travolti da un big bang sonico (virtuale) da urlo nel constatare quanto le tavole siano pazzesche.
Bablet, classe 1987, è uno dei più giovani e affermati
autori completi del panorama europeo. Con questo volumone di 222 pagine ricche
di pianeti, esoscheletri, pazzia e sangue, entra con merito nella Selezione
Ufficiale del Festival Internazionale del Fumetto di Angouleme del 2017.
Shangri-la è potente e disperato e ci fa tornare alla mente per cura maniacale
dei dettagli, tra enormi scenari brulicanti di componenti tecnologiche e
piccoli ormoni che giocoforza devono, ammassati, abitarci dentro, il capolavoro
di Katsuhiro Otomo, Akira.
Ci sono le stesse architetture complesse e suggestive,
c'è la stessa tensione di una umanità morente, che cerca di creare un
oltre-uomo per le generazioni future. Non c'è di fatto la Terra, perché le cose
sono finite male e ora la razza umana cerca nuove case nello spazio. Non c'è di
fatto la Storia o la cultura, perché questa "umanità in viaggio" vive
in uno straordinario ma asettico mondo - astronave dove si rincorre
all'infinito solo la tecnologia stessa di hi-phone e ammennicoli pesantemente
pubblicizzati sulle più grandi pareti della struttura. La morte è dietro
l'angolo e si respira aria di rivoluzione tra le nuove specie - cavie meta /
umane. C'è molta carne al fuoco e se possibile la storia allestita da Bablet è
anche più sorprendete dei suoi disegni, sa costruire una tensione palpabile e
pone interrogativi non banali sul nostro futuro. Cosa ne faremo degli animali?
Come combatteremo l'inquinamento? Saremo in grado di convivere insieme,
schiacciati dalla sovrappopolazione? Inseguiremo per sempre le nuove tecnologie
mettendole al di sopra di ogni interesse e anche degli altri? Crederemo più in
un Dio? Permetteremo a dei computer o a un'anonima multinazionale di comandarci? Bablet è curioso e attento e non dimentica mai nel suo racconto il
"fattore umano". Dietro tanta tecnica visiva sbalorditiva e forse in
parte asettica, l'autore fa muovere, stipati sotto pesanti tute spaziali e
corazze robotiche, personaggi dai lineamenti amorevolmente e
umanissimamente caricaturali, sgraziati e sbilenchi, che ci hanno
ricordato alcuni lavori e personaggi del nostro amato Gian Alfonso
"Gipi" Pacinotti. Spesso il "cuore" si nasconde tra le
linee sbilenche. La "carne in scatola" è un po' l'emblema di
quest'opera che sa essere techno-affettiva tanto quanto techno-fobica. C'è
tutto il senso della vita nel sorriso sbilenco e gli occhi esaltati ma tristi
di un astronauta che dice: "è bellissimo, siamo così piccoli rispetto allo
spazio" mentre guarda in faccia un pianeta lucente che gli cade addosso
dallo spazio prima di disintegrarlo. Pura poesia.
Se si
può muovere una critica a questo volume, che riteniamo comunque imperdibile, si
può dire che in 222 pagine non tutti i temi accennati trovano uno sviluppo
ugualmente ricco e originale. Ma davvero non c'è molto da lamentare per il
sottoscritto. Scovatelo nelle fumetterie e nelle librerie, richiedetelo se non
lo vedete o se è esaurito, ma buttateci sopra di occhi, nuotate tra le sue tavole
e perdetevi nel suo spazio come mentre muovevate i primi passi in Alien o
2001 odissea nello spazio, come quando per la prima volta vi siete trovati in
gravità zero nel videogame Dead Space o nel film Gravity. E soprattutto pensate
ad Akira. Siamo da quelle parti ed è un posto bellissimo.
Perché
esce nelle sale Il ragazzo invisibile: seconda generazione e non un
ipotetico Continuavano a chiamarlo Jeeg Robot? È un interrogativo
affascinante e curioso se si pensa all'incredibile successo, riconoscimento e
amore dei fan che ha scaturito la piccola - grande storia di Enzo Ceccotti da
Torbellamonaca, ladruncolo trasformatosi controvoglia in supereroe dopo essere
scampato a un confitto a fuoco. Il film era piaciuto anche a noi del blog,
abbiamo applaudito e abbiamo pianto, abbiamo apprezzato il punto di vista
originale e la perfetta integrazione del super-hero movie all'interno di un
contesto italiano difficile, credibile e ricco di spunti sociali. Bravi gli
attori, davvero tutti. Dolcissima, sbandata, sognatrice, sexy e fragile Ilenia
Pastorelli, il cuore emotivo del film. Brutale, imponente ma anche in fondo
ingenuo e sensibile Claudio Santamaria, corpo e testa di un eroe atipico.
Sfavillante, egocentrico ed eccentrico, crudele quanto incompreso Luca
Martinelli, un Joker alla cacio e pepe che avrebbe qualcosa da dire anche al
modello originale. Lo chiamavano Jeeg Robot era un film cupo come un temporale,
pieno di sangue e criminali, ma che ogni tanto riusciva ad allontanare le
nuvole e farci godere di intensi raggi di sole. Dalle scene più crude e dallo
humour nero, si arrivava con facilità a toccare altissime vette di poesia e
lirismo. La sceneggiatura di Guaglianone e la regia di Mainetti avevano creato
un mondo visivo e narrativo davvero unico e lo avevano fatto ibridando la
mitologia dei cartoni animati giapponesi, in questo caso il Jeeg di Go Nagai,
con il contesto sociale della periferia romana. Un'operazione che espandeva le
potenzialità e idee di due loro corti precedenti. Basette, che immaginava un
divertente Lupin III di Monkey Punch romano e con il volto di Valerio
Mastrandrea e Tiger Boy, in cui un piccolo ragazzino di periferia trovava la
forza di sopravvivere a degli abusi sessuali indossando la maschera di Tiger
Mask di Kajiwara e Tsuji (per guardarli, Basette si trova su YouTube e
Tiger Boy come extra dell'Home video di Lo chiamavano Jeeg Robot). Da amanti
dei cartoni animati degli anni '70, degli action movie poliziotteschi e dei film
sociali di Elio Petri, Volontè e Pasolini degli anni '70 (c'è una coerenza
temporale nel tutto) non possiamo che amare l'idea di cinema della periferia
supereroistica di Giaglianone e Mainetti. Sono gli anni '70 della nostra
infanzia che trovano un dialogo con il presente. "Roba da
quarantenni", ma non solo comunque. In tempi passati forse non ci saremmo
posti dei "desideri di sequel", ma oggi con in testa gli universi
cinematografici espansi della Marvel con tutti i pupazzetti e videogame che ne
conseguono "ne vogliamo ancora di Jeeg robot". Anche perché Jeeg è un
film di "origini supereroistiche" alla Unbreakable (che guarda caso
sta per ricevere un seguito dopo aver ricevuto uno spin-off, anche se si è
sviluppato il tutto a distanza di anni, in effetti), anche perché, e non saprei
dirlo con parole migliori, nel "cinema italiano i supereroi ci servono".
Negli anni '70 avevano Luc Merenda, Franco Nero, Thomas Milian, Bud Spancer a
combattere sullo schermo la malavita. Con gli anni abbiamo visto sempre di più
film che mitizzano sulla fascinazione del mondo criminale e biografie di
coraggiosi eroi borghesi martiri. È importante, vitale, che la Storia venga
rappresentata al cinema, anche se romanzata, perché la sua importanza non si
perda e perché, come direbbe il nostro amato Alan Moore, le idee possano più a
lungo essere "a prova di proiettile" (V per Vendetta, cit.). Ma tra
i vari Gomorra, Suburra, Romanzo Criminale possiamo una volta, almeno nel solo
mondo della finzione cinematografica, avere un eroe (ma ci basta un
"quasi eroe" come Ceccotti) che può vincere sul male, raccontando la
quotidianità italiana, senza rimetterci la vita? Certo sarebbe bello,
sarebbe economicamente interessante, sarebbe socialmente (su questo tasto
pigio molto oggi) importante. Ma si può fare davvero Jeeg 2, almeno in tempi
brevi? Mainetti non ne ha molta voglia. A un giornalista del Fatto Quotidiano
tempo fa ha raccontato di come fosse stato molto difficile produrre il primo
Jeeg e di come al momento sia in cerca di altri stimoli. Non è che si
escludessero possibilità future, ma il regista riportava di come il suo incontro
con il regista indiano Anurag Kashyap lo avesse spronato a non accontentare per
forza e subito i fan di Jeeg se ancora non ha trovato il modo giusto di
raccontare la prossima storia o se più semplicemente non vuole farlo. Certo
Mainetti è giovane, ha avuto un grande e meritatissimo successo che oggi gli
permette di avere più libertà creativa ed è giustissimo che sfrutti oggi questo
suo nuovo status, per lui Jeeg 2 può aspettare per un attimo da parte. Lo
sceneggiatore Guaglianone, autore anche dell'interessante Indivisibili di De Angelis, del nuovo Benedetta follia di Verdone (sempre con la Pastorelli) e del remake Sono tornato di
Miniero (di cui dovremmo aver già pubblicato o presto pubblicheremo il
trailer) quando intervistato da Francesco Alò di Bad Taste ripete più volte lo
stesso concetto, che francamente ci fa sempre cadere per terra le
braccia, che in sostanza è: "Sto crescendo, preferisco fare altro per il
momento". Ma è davvero così inimmaginabile vedere un sequel di Jeeg?
Proviamo, senza troppe pretese, a giocare un po' con l'immaginazione e la
citazione. È di fatto legittimo pensare, senza fare spoiler, che il primo film
funzionasse su degli equilibri che giocoforza non possono essere replicati nel
seguito, perché alla fine della pellicola sono mutati in modo (quasi)
incontrovertibile. Serve trovare un nuovo intreccio, che automaticamente
deve muoversi in altre direzioni, ma soprattutto occorre fare attività di World
building. La domanda delle domande è chi ha buttato in acqua la sostanza
radioattiva da cui derivano i poteri di Ceccotti. La risposta più interessante
sarebbe che non è stato un caso, ma un esperimento che magari voleva studiare
prima una mutazione nei pesci e che occasionalmente ha mutato un essere
umano che ora stanno comunque monitorando. Creata questa "società
segreta", non è detto che i suoi membri si rivelino subito, perché
potrebbero benissimo giocare a disseminare Roma con altri barili gialli
radioattivi. Sarebbe interessante magari che si occupassero di creare un
avversario di Ceccotti diverso dallo Zingaro di Marinelli. Se lo Zingaro
serviva a Ceccotti come linea di demarcazione tra il criminale che era e quello
che non voleva essere, si può lavorare specularmente costruendo un personaggio
che sia una linea di demarcazione sull'uomo di giustizia che è e che non
ritiene di voler essere. Chi potrebbe essere?
La prima volta che ho sentito
nominare Lo chiamavano Jeeg Robot ho pensato, in modo anche triviale, al
personaggio di Mazinga del film ACAB di Solimma tratto dal romanzo di Bonini.
"Mazinga" era il soprannome del poliziotto della Celere interpretato
da Marco Giallini e il film aveva tantissimi spunti sociali e ambienti della
periferia romana che ho poi ritrovato anche in Jeeg. A un certo punto sul finale
di Jeeg, durante la scena ambientata allo Stadio, ho pure immaginato come negli
storici film di robottoni Nagaiani anni '70, che Jeeg incontrasse Mazinga e
partisse un team-up contro lo Zingaro. Sembrerebbe una cosa davvero
"buttata lì", "Jeeg contro Mazinga", ma il personaggi di
Giallini potrebbe davvero essere il contraltare perfetto di Ceccotti,
diversissimo ma con comunque dei punti in comune e una storia tragica e
complessa alle spalle. Trovato così una eminenza grigia e un possibile
"candidato ai bidoni gialli", si potrebbe costruire tutto un
sottobosco mediatico sulla leggenda urbana di Jeeg, magari dei creepy pasta
sullo stile di Jeff The Killer. Jeeg esiste, la televisione ne ha parlato e
magari qualcuno lo ha pure visto. Già nel primo film qualcuno lo aveva
"graffitato" nel celebre atto di sradicare il bancomat e ora, a
diversi mesi di distanza, le nuove gesta di Jeeg, vere o presunte, potrebbero
essere raccontate sui muri della periferia e nelle canzoni rap, avere dei
gruppi di discussione Facebook, generare imitatori (e approfittatori a
pagamento) alla Kick Ass. Ceccotti potrebbe pure riuscire a
costruirsi una rete di aiutanti, magari pescando da laureati disoccupati della
Sapienza come quelli visti in Smetto quando Voglio. Magari qualche ingegnere potrebbe
pure dotarlo di una trivella rotante per aprire le cassaforti: "Flavia,
lanciami i componenti!!". Poi ci possono essere infiniti cattivi, dai più
"classici" in stile Suburra ai vecchi pazzi, potenti ed eccentrici
che vivono tra le campagne come il Peppe Servillo di Paura (che è un villain
fantastico per interpretare la gerontocrazia italiana) dei Manetti Bros o il
girone dantesco dei distinti frequentatori dei club privati stile Tulpa
di Zampaglione (su soggetto non a caso dal Dardano Sacchetti di mille
poliziotteschi anni '70). C'è però un bel problema dietro a tutta questa
magari poco fantasiosa ma entusiasta storiella da me buttata giù in sei righe.
Manca la donna. La Pastorelli era il cuore emotivo della prima pellicola e
nell'ipotetico seguito per motivi di trama non può che avere un ruolo diverso.
Personalmente io amerei vedere utilizzata una tecnica usata da Michele Soavi in
Dellamorte Dellamore sul personaggio della Falchi. Mi piacerebbe che Ceccotti
tornasse in quel centro sociale dove parcheggia il personaggio di Ilenia
nell'ultimo film e la "reincontrasse" in qualche modo. Mi piacerebbe
che in quel centro incontrasse anche un bambino, come quello del corto Tiger boy di Mainetti e Guaglianone, con indosso però una maschera
di Jeeg.
Tutta
questa è pura fan-fiction, un riciclo di idee già viste che ho messo insieme
con un piccolo goccio di passione per giocherellare un po' con voi. Guaglianone
e Mainetti invece, come sanno fare i grandi autori, ci hanno portato con la
loro arte in un posto nuovo e magnifico, e spero che possano continuare a farlo
in tutti i loro progetti futuri, a cui fin da ora aspettiamo impazientemente di
assistere. Lo chiamavano Jeeg Robot trova il suo senso più profondo nel
veicolare il messaggio che chiunque, anche la persona più improbabile,
emarginata e riottosa, può fare del bene e trovare felicità nel farlo. Può
succedere anche in Italia, anche se, come ho scritto sul post su Smetto quando
voglio, non siamo un paese che crede troppo ai supereroi. Scetticismo genetico
italico a parte, anche se non ci venisse ribadito 38 volte in più seguiti
questo concetto che "dalle grandi difficoltà possono nascere a volte
grandi poteri " (l'ottica Ceccotti dello Spiderman-pensiero), il
messaggio non perderebbe un grammo della sua potenza. I fan ora sono liberi di
scrivere tutte le storie che vogliono sul mito di Jeeg di Torbellamonaca, e
speriamo non arrivino mai a rompere le palle ai registi per le loro idee
creative come invece "certi fan" non possono evitare di fare. È
bello giocare con dei personaggi immaginari, non bisogna arrivare ad
arrabbiarsi. Cari Guaglianone e Mainetti, grazie per il giro di giostra, per le
risate e le lacrime e per ora arrivederci ai vostri prossimi lavori.
Ero a
fare quattro passi con un amico. Parlavamo del più e del meno e di Star Wars,
cosa che mi capita di recente spesso dopo l'uscita dell'ultima pellicola e la
conseguente "spaccatura" del fandom su chi è un vero fan e chi no.
Che bello, in quei momenti ascoltando alcune argomentazioni mi sembra di essere
tornato all'asilo. Speriamo che dopo il sonnellino pomeridiano la mamma mi
compri dal giornalaio le gelatine dei Masters.
Quanto mi mancano gli anni ottanta e le lunghe lezioni
a scrivere astine e pallini sul quadernone giallo... comunque, stavano
passeggiando e mi viene una folgorazione ragionando sul supremo leader Snoke,
sul conte Dooku e sul Grand Mott Tarkin. Sono tutti personaggi da film horror.
Peter Cushing è stato al cinema negli anni d'oro il dottor Frankenstein e
guardandolo insieme a Darth Vader nel primo film ho sempre pensato a una
evoluzione del rapporto scienziato-mostro di Frankenstein.
Allo stesso modo Christopher Lee è celebre per aver
interpretato più volte Dracula e il "conte" Dooku ha tutta
l'aristocrazia e la spietatezza del signore indiscusso dei vampiri.
E poi c'è Snoke. Un essere dal volto sfigurato che si
diverte a manipolare mentalmente dei ragazzini fino a farli impazzire. Chi vi
ricorda?
Certo, se ci fosse stato dietro al trucco il grande
Robert Englund e non un pupazzo artificiale sarebbe stato il massimo, ma non mi
sembra un caso che queste tre icone di Star Wars rivestano un ruolo tutto
sommato simile nelle rispettive trilogie di appartenenza e citino così
chiaramente storiche figure dell'immaginario horror. Chi sarà il mostro della
quarta trilogia, già in produzione sotto la guida di Rian Johnson? Io mi
aspetto uno come lui...
Siamo
nella provincia emiliana, con l'Italia che, superando la Bulgaria, è da poco
diventato il paese più corrotto d'Europa. In Italia vige secondo Max (un
paterno Walter Leonardi), una "legge del furiere" (una parola
"vintage" che ricorda i tempi del militare ai quarantenni) in ragione
della quale chi si lamenta non fa niente e chi sta zitto e fa il suo lavoro,
lavora anche per gli altri. Riko (uno Stefano Accorsi Freccia 2.0) lavora e
"fa i botti" in un salumificio in cui l'integrazione con un lavoratore
straniero come Pavak (il simpatico Jefferson Jeyaseelan) è tollerata finché lui fischia durante il lavoro, ma non si sopporta proprio se
"fischia male". C'è molto stress nell'aria, ma Riko sembra uno
tranquillo. Ha per moglie la bella, ottimista anche se un po' triste Sara (una
splendida e struccata Kasia Smutniak), che fa la parrucchiera e lo tempesta
ogni giorno di telefonate per sapere come sta. Ha un figlio giovane, entusiasta
e premuroso come Pietro (Tobia De Angelis), che presto andrà al Dams ma
che per ora non ne vuole proprio sapere di "scollarsi" da casa e
"svilupparsi", come vorrebbe il padre, andando a esplorare il mondo.
Perché Riko lo sa che è un attimo farsi andare bene tutto e non vuole che
Pietro, che è il primo della famiglia ad andare all'università, cada in
questo errore e rimanga seppellito nel triste mondo della provincia. Da zero a
dieci, si può dire che la vita attuale di Riko non vada oltre al cinque e
mezzo. A lui non basta tutta questa routine e per questo frequenta quando
capita "un'amichetta", per tenersi giovane, e tiene saldo un pugno
di amici con cui, tra una partita a scopa e una festicciola tra famiglie a base
di piatti etnici etiopi, girare insieme in auto. In quelle sere il mondo per
lui, grazie a un Virgilio di classe come Carnevale, si fa tutto diverso e ci
si può sentire davvero in libera uscita nel libero mondo. La notte, un po'
mamma e un po' porca com'è, riesce a tenere Riko e i suoi amici tra le sue
tette, guidandoli per le strade della provincia, tra nebbia e locali, cosce e
zanzare, magari con l'occasione di conoscere qualche altra bella e pericolosa
bambolina (che si spera non abbia con se una pistola). Riko però è già negli
"-anta", dovrebbe smettere di fumare come è riuscito da poco, ma per
troppo poco, all'amico Carnevale (Fausto Maria Sciarappa). Dovrebbe stare con
la testa più a casa ed essere più fiducioso, guardare al fatto che essere
diventato vecchio non è poi così brutto, ma lui si sente lì, sempre lì, lì nel mezzo, in bilico tra la vita da pischello e le responsabilità da adulto.
Anche perché c'è dietro una brutta storiaccia che non si può dire. Intanto però
vorrebbe ancora riappropriarsi delle casse dello stereo e dei dischi dei Simple
Minds, che il figlio ha stipato nella sua mansarda-fortino da adolescente.
Vorrebbe lasciare un po' il mondo dei salumi, con una mensa aziendale in cui sa
tutto di salumi e dove non ci sono più i proprietari di una volta, ma in fondo
finché è lì va bene. Vorrebbe magari essere bravo a fare qualcosa, come Carnevale,
che è bravo tanto a dipingere quanto a non assumersi le responsabilità. Magari
vorrebbe essere affidabile come il suo amico Max, ma Riko non è fatto come Max
o come Carnevale e poi cambiare vita, testa e lavoro... per fare cosa?
"Perché siamo qui?" è la domanda che piomba come una spada di
Damocle sulla vita di Riko e casualmente è anche il titolo del lavoro che
Pietro sta realizzando in vista del Dams, una serie di interviste che sta
coinvolgendo tutta la sua famiglia e amici. E quindi a saper rispondere
concretamente a quella domanda, davanti a uno smartphone, anche per Riko, non
si scappa. Ma come si fa a sapere "perché siamo qui" mentre lo spread
va male e dicono che ti devi preoccupare, mentre al lavoro iniziano a fioccare
i licenziamenti, mentre con Sara ci sono troppi sms strani, problemi
irrisolti e storiacce che stanno per far scoppiare un bubbone che sta crescendo
da anni? In più ci si mette pure l'amico "artista" Carnevale, che sta
sbarellando tra brutte compagnie, brutti posti e brutte sostanze, con tutta una
voglia matta di autodistruggersi che non conosce sosta. E Riko davanti a questo
è fermo, impotente, immobile. Da trent'anni a insaccare salumi nel cuore della
provincia, a voler essere ragazzino e a non sapere ancora cosa tenere o mettere
via della sua vita, a lasciare che Sara parli per monologhi perché lui non
sente di avere niente da dire. Poi però arriva quel momento lì, quello magico
che può cambiare le cose e mettere tutto in prospettiva. Una botta in testa. A
Roma Riko e amici si sentono di partecipare a un corteo, roba a cui non
partecipavano da vent'anni, da quando pensavano che: "è giusto non essere
d'accordo". Non arrivano nemmeno per le strade principali che vengono
coinvolti in uno scontro tra manifestanti e polizia. Gli animi si scaldano, le
parole si accendono, parte per sbaglio e paura un colpo in aria e in un assalto
maldestro Riko finisce, complice una manganellata, direttamente al pronto
soccorso. Sara, che forse c'ha un altro come di fatto pure Riko c'ha un'altra,
arriva a Roma, ad accudirlo. Lo guarda negli occhi e lui si ricorda o capisce
tutto in una volta che non è solo al mondo come aveva sempre pensato di
esserlo. Sara dice: "Sto qui finché non ti dimettono dall'ospedale, poi
torniamo insieme". Subito precisa: "Nel senso che torniamo a casa
insieme", ma ormai la frittata è fatta, i due tornano a guardasi come una
volta e magari, dopo "ottant'anni di prove" di una convivenza
infinita potrebbero pure pensare a sposarsi. In più ci sono il giorno dopo in
ospedale dei giornalisti che vogliono intervistarlo, perché il suo pestaggio ha
fatto scalpore. Presto arriverà forse il momento per Riko di raccontare tutto al
mondo, che è sempre una telecamera più grande dello smartphone del figlio. Il motivo per cui è in ospedale, ma anche la vita di merda che fa, le paure
per il futuro del figlio, i timori che la politica non possa ascoltare la gente
comune, la sua voglia di credere nelle brave persone, nel futuro e di essere
contento di essere una persona qualunque. Dirà tutto quello che ha dentro da
anni e dirà finalmente, a tutti e a se stesso, "perché sono
qui?". Ma saprà il mondo ascoltarlo? E questo grande evento gli cambierà
poi la vita?
Era il
1998 quando usciva Radio Freccia, oggi siamo nel 2018 e siamo tutti un po'
invecchiati, Ligabue e Accorsi compresi, anche se non si nota più di tanto.
Ieri come oggi c'è Stefano Accorsi, alter-ego cinematografico di Luciano
Ligabue, si trova davanti a un microfono acceso, cercando di raccontarsi
come il ragazzo semplice e un po' complessato della provincia. Probabilmente
Riko, come Ivan Benassi, crede ancora, vent'anni dopo, alle rovesciate di
Bonimba e ai riff di Keith Richards, ma di sicuro crede ancora anche al
doppio suono di campanello nel padrone di casa che vuole l'affitto ogni primo
del mese, crede ancora che ognuno di noi si meriterebbe di avere una madre e un
padre che siano decenti con lui almeno finché non si sta in piedi da soli,
crede ancora che la strana voglia di scappare da un paese con ventimila
abitanti vuol dire che in fondo hai voglia di scappare da te stesso e crede
infine che da se stessi e dai propri problemi non si riesca a scappare proprio,
nemmeno se si è Eddy Merckx. Freccia aveva scelto di non crescere, Riko però ci
vuole provare, pur tra i mille sbagli e qualche "rimorso!!".
Vuole crederci un po' di più e per davvero, pur nelle sue fragilità umane, nel
futuro e nella famiglia. È un Ligabue più "mediato e meditato", meno
"maledetto" forse, perché ha alle spalle vent'anni extra di vissuto
da raccontarci e condividere da quel Radio Freccia che, come una bomba, colpiva le sale cinematografiche in un modo inaspettato ed esaltante. Negli
anni poi Ligabue, oltre ai dischi e a un feudo tutto suo negli stadi e in un
noto aeroporto dove i fan accorrono periodicamente a frotte, è riuscito,
tra le tante cose, a uscire di nuovo al cinema, con Da zero a
dieci, un altro film sull'amicizia e sulla provincia, in cui è
riuscito a raccontare con malinconia e disillusione anche la Storia (la strage
nella stazione di Bologna). Tra i tanti libri ha anche scritto un romanzo di
fantascienza sociale interessante come "La neve se ne frega",
tradotto in un bel fumetto ma purtroppo non (ancora) in un film, che è
una diretta critica alla società gerontocratica che stiamo vivendo. Della sua
band oggi c'è ancora solo capitan Fede Poggipollini, i tempi sono cambiati ma
il Bar Mario non ha mai chiuso.
Nel
frattempo Stefano Accorsi, esploso proprio con Radio Freccia, si è un po'
ricalcato nel personaggio di Ivan nelle sue esperienza mucciniane, ma ha saputo
essere anche il roccioso commissario Scaloja di Romanzo Criminale, il
cinico Leonardo Notte della serie TV 1992 e ci ha regalato di recente il
meraviglioso personaggio di Loris De Martino in Veloce come il
vento.
Made in
Italy riprende questo sodalizio tra il cantante e l'attore e la stessa formula
da "film rock", carica di canzoni e di frasi ad effetto, dei paesaggi
della stessa provincia emiliana descritta con i suoi riti e piena di anti-eroi,
perdenti ma dal cuore d'oro. Questa volta alla base non c'è un suo romanzo ma
un suo disco, l'undicesimo, uscito alla fine del 2016.
Made in
Italy è un concept album, il suo primo, che Ligabue descrive come: "Una
dichiarazione d'amore frustrata verso questo paese, raccontata attraverso la
storia di un personaggio". Il personaggio, la cui storia è raccontata
attraverso i brani dell'album, è proprio Riko e complice un momento così brutto
per la voce del cantante da farlo allontanare dagli stadi (oggi problema
risolto) e la possibilità di avere Accorsi disponibile, si è riusciti in tempi
brevi a realizzare il film, sempre prodotto dallo scopritore
"cinematografico" di Ligabue, Stefano Procacci della Fandango. Come
già detto sopra qui e là, c'è un po' aria di rinnovamento rispetto ai temi
caldi della sua opera prima. Per gli amanti del Liga e del suo mondo che
seguono fedeli da anni le sue opere funziona come un caldo abbraccio, un
ritorno a casa quasi commovente, uno scoprirsi di nuovo ragazzini con in fondo
ancora poche rughe in faccia. I detrattori saranno tutti invece concentrati sul
solito adagio, su cui lo stesso cantante ha scritto pure un pezzo, del
dubbio se "è come prima / no si è montato" a cui di conseguenza
"ognuno può scegliere la sua verità". Perché questo film è, genuinamente,
dal soggetto alla scrittura alla direzione e alle musiche un prodotto del
Luciano Ligabue di oggi al 100%, con tutta la semplicità e potenza dei suoi
brani rock, con tutto il suo modo diretto e accattivante di dire le cose.
Ligabue si conferma un buon direttore, stilisticamente vicino a Muccino ma più
rock, capace di tirar fuori dai suoi attori personaggi vissuti e cool,
ripieni di battute così memorabili da voler correre a scrivere di volata sulla Smemoranda. Capace di gestire ogni sequenza per ritmo e peculiarità della
fotografia come un videoclip, attento alla necessità di farci ridere e insieme
farci piangere. Ogni tanto i più attenti potranno, guardando le scene, anticipare
i brani del concept album, prima che le note di fatto partano. Questo significa
che il "patto" con i fan del disco funziona ed è un effetto
interessante da vedere in sala, dove ogni tanto partono dei coretti o anche
solo si sentono battere i piedi a ritmo delle canzoni. Non è un musical, le
canzoni sono però un elemento narrativo centrale e riescono ad arrivare quasi
sempre al momento giusto, a volte anche solo in forma strumentale.
Ma com'è
questo Ligabue che parla di disillusione e famiglia a vent'anni da Radio
freccia? È meno cupo, come dicevamo sopra, ma è più attento alle sfumature, ai
colori e agli odori della vita. C'è un ponte sul Po, freddo e gelido durante
una notte disperata di pioggia e paure. C'è l'aria fresca di una serata romana
vissuta tra amici a cavallo di monoruota elettrici, a passeggio tra monumenti
storici. C'è il fetore, che spinge dei vicini di casa a interessarsi di una
persona che non si vede da qualche giorno. C'è il profumo di un prato appena
tagliato abbinato ai sapori buoni della tavola e alle risate degli amici di un
pranzo domenicale. Ci sono i prosciutti, che impongono la loro profumata e un
po' invadente presenza dop romagnola fin da inizio pellicola, quando un
prosciuttone insaccato si colloca alle spalle, come monito di un destino già
segnato, ad uno Stefano Accorsi che si improvvisa ballerino "vintage" con
indosso una camicia rossa a frange sbriluccicanti, quando leggenda non
confermata vuole che Ligabue come primo lavoro fosse ragioniere in un
salumificio. Ci sono nel bilancio finale immagini di un'Italia più carica di
paure che di gioie, specchio di una società percepita con forte voglia di
cambiare ma ancora fragile e che di certo non crede più nelle favole. In questo
ritrovo la vena più malinconica del Liga, quel senso agrodolce di cui sono
pregni tutti i suoi lavori ma che è sempre supportato dalla speranza che spesso
le relazioni umane diventino e possano restare l'unica, vera e insopprimibile
rete di salvataggio dei giorni nostri. Ligabue trova infatti il tempo di
parlare anche di anziani malati, di matti del paese, di drogati del gioco d'azzardo
che possono salvarsi solo se prima vedono il fondo, di un mondo dei giovani
visto con la paura che in un momento tutto possa degenerare irrimediabilmente.
Made in Italy è un film che consola, pur rimanendo di fondo molto amaro ed è
una pellicola che mi sento di consigliarvi, soprattutto se per voi il Liga è
ancora "come prima", come ai tempi di Balliamo sul Mondo. Ma anche se
siete tra i detrattori penso che il film potrebbe piacervi.
Ok, alzi
la mano chi sta piangendo di gioia dopo aver visto questo trailer! Non ci
speravamo più, noi 11 fan italiani di Hellraiser (scherzo.. lo so che siamo
tantissimi) ma alla fine i cenobiti di Clive Barker sono tornati per
infestare di incubi anche le nuove generazioni. Nove film, di cui gli
ultimi due incredibilmente ancora inediti in Italia, un fandom per cui libri,
fumetti e film sono un'autentica religione, montagne di action figures prodotte
e chili e chili di suggestioni visive riprese più o meno legalmente dall'opera
originale. Pensate a Resident Evil, Mortal Kombat, il fumetto Berserk di
Kentaro Miura, gli Slipknot, la saga di Insidious, Death Note, la moda, la
musica. Tutti si sono negli anni portati a casa un pezzettino di Hellraiser,
che si tratti del look di qualche cenobita, una maschera o di variazioni sul
tema del misterioso "cubo", l'oggetto magico che secondo la saga
permette a chi lo schiude di attingere a un infinito potere, oltre che aprire
nel nostro mondo un'autentica porta per l'inferno. Un'affettuosa citazione
al mattatore massimo di questa saga fatta di creature né angeli né demoni, il
mostro ultradimensionale Pinhead, è pure presente in quello straordinario
accrocchio meta-cinematografico che è Cabin in the wood (da noi Quella casa nel bosco), diretto da Drew Goddard. Il materiale di
partenza è così dark, carismatico ed epico che i fan hanno sempre
invocato uno sdoganamento serio, magari una esalogia di film con il budget del
Signore degli anelli. La saga, anche per carica com'è di sangue e tette, non ha
mai ricevuto un tale privilegio, ma oggi che Il trono di spade sbanca gli
ascolti delle reti via cavo forse il mondo può cambiare. Certo che servirebbe
pure una casa di distribuzione che ci creda davvero nel progetto. Ed eccoci
quindi all'ultima incarnazione del brand, scritto e diretto da Gary J.
Tunnicliffe, che a curriculum ha scritto l'Hellraiser precedente direct - to -
video, Hellraiser: revelations, diretto nel 2004 un corto sempre sul Pinhead e
poi poco altro di qualche alto profilo, a meno che voi riteniate di alto
profilo il celeberrimo Jack e la pianta dei fagioli con Christopher
Lloyd. Però di contro il buon J. è una mezza autorità nel campo del make-up. È
nel settore dai tempi di Waxwork 2 (mamma che ricordi!) e poi è passato, tra le
mille cose, per Hellraiser III, quella cosa pazzesca che era Candyman,
quell'altra cosa pazzesca che era Warlock con Julian Sands, Halloween,
Wishmaster, il Blade della Marvel, Dracula 2000 prodotto da Wes Craven, il nostalgicamente
delizioso Halloween Resurrection, Exsorcist The beginning che non mi era
affatto dispiaciuto, il bruttarello asiatico importato Pulse, il gustoso San
Valentino di sangue, quel piccolo cult di Drive Angry sempre diretto dai tizi
pazzerelli di San Valentino di sangue, quella zozzeria ma cool di Piranha 3DD.
E poi, sempre a pasticciare con i trucchi, te lo trovi pure nei Mission
Impossible, in Wolverine, Black Mass, Final Destination, la serie TV di Scream,
Gone Girl di Fincher. Oh, il buon J. lavora un casino!! Oltre a ciò è pure stato
assistant director per un discreto pugno di horror direct to video. J. ci
piace, è nel settore da anni e ha messo un pezzetto del suo cuore e
talento in un numero spropositato di cose che sicuramente avrete visto anche
voi. Noi tifiamo per lui e lo aspettiamo con i "suoi" cenobiti, anche
se è chiaro che il film è costato due spicci come il precedente.
Il trailer è
l'esatta festa di sangue e coolness che ci si aspetterebbe da Hellraiser. Tra
gli attori c'è la prima ragazza di cui mi sono davvero innamorato, Heather
Langerkamp, la leggendaria Nancy di Nightmare on Elm Street, Nightmare 3: Dream
Warriors (il mio film più preferitissimo della vita, anche se non è una forma
grammaticale corretta quella che ho appena usato) e New Nightmare. Il Pinhead è
a questo giro Paul T.Taylor, ha la faccia giusta mi pare. A Dimension Film
"je tocca" fare questo film per non perdere i diritti cinematografici
del franchise (cosa che sarebbe davvero un bene per lo stesso) e il budget è appunto
tutto per un direct-to-video. Il buon J. a quanto pare dalle vocine su internet
ha pure dei sensi di colpa per lo scarso successo di Hellraiser: Revelations,
film che appunto lui ha scritto ma non ha potuto dirigere per motivi vari, tra
cui il fatto che gli hanno preferito il regista che ha esordito con il
sanguinoso cortometraggio El ciclo. Comunque J. qui e oggi, con
Hellraiser Judgment, vuole fare qualcosa di bello per i cenobiti, innovare la
saga, riprendersi la fiducia dei produttori. Speriamo bene.
Quando
muore una persona buona, il film ci dice, non bisogna essere tristi, perché si
accende una stella nel cielo. Le stella sarebbero le luci che illuminano la
notte, stanno al di sopra di noi piccoli e problematici uomini, sono
bellissime, ma proprio per la loro riconoscibilità sono state usate per
tutt'altro. Usate come bersagli nella prima metà del '900, per marchiare le
persone, come si faceva a fuoco nel medioevo, in ragione della loro
appartenenza a una stirpe considerata per alcuni inferiore, nemica, sporca. Ma
c'è qualcuno che nonostante questo truce e problematico risvolto ama comunque
le stelle. Un bambino qualunque francese che è disposto a offrire
un intero sacchetto di biglie, il tesoro dei tesori di ogni bambino, pur di
avere in cambio proprio quella stella di stoffa a sei punte che il suo compagno
di classe Jojo (il più piccolo e bravo Dorian De Clech) è costretto a
portare in quanto "ebreo". A scuola essere ebreo era considerata una
cosa brutta, qualcosa che ti faceva attirare i pugni. Una cosa anche strana,
perché in fondo Jojo è sicuro che era "ebreo pure ieri!!" e per
questo non lo avevano mai menato! Ma quelle biglie regalate sono davvero il
massimo, gli svoltano la vita!! Jojo potrà farci cose incredibili tra le strade
di Parigi. Sono così tante e così performanti che magari potrà anche avere la
meglio nelle sfide sempre più impegnative che gli propone suo fratello Maurice
(l'altrettanto bravo Batyste Fleurial). C'è un altro oggetto, dopo la stella
di stoffa e il sacchetto di biglie, che nel film di Christian Duguay a un certo
punto fa capolino e viene descritto nel particolare. È la fibbia argentata della
cintura di un soldato tedesco, che riluce dell'inclusione "Gott mit
uns", cioè "Dio è con noi". Un biglietto da visita a corredo
degli ampi sorrisi dei nazisti che stanno per farsi tagliare
"incautamente" i capelli, presso un negozio del barbiere giudaico.
Non sarebbero certo entrati se Jojo e il fratello non gli avessero nascosto,
per scherzo, mettendosi davanti, il cartello sulla nazionalità degli esercenti.
Ma in fondo i tedeschi in quel momento erano solo di passaggio in Francia, che
mai poteva accadere per uno scherzo innocente? Ogni oggetto, che sia una
stella di stoffa, delle biglie o una fibbia, può avere significati diversi e
strani a seconda dell'osservatore. Un sacco di biglie è un film zeppo di
oggetti, ce li fa ispezionare, ce li fa ponderare circa il modo giusto di
leggerli, quello che in cuor nostro auspichiamo più "umano". Speriamo
sempre poi che i "detective crucchi" non imbrocchino la soluzione ai
mille enigmi che la loro "pulizia etnica" impone da quel momento in
cui cessano di essere in Francia "solo dei turisti eccentrici". E
sono molti gli oggetti su cui i nazisti con tutta la loro pignoleria tedesca si
interrogano, per scovare la presenza di ebrei. C'è un violino, che ad
orecchio per un militare suonerebbe "le musiche dei giudei",
indicandone la presenza nelle case in ispezione, nascosti dietro le pareti. Ma
il tedesco che ha questa intuizione in fondo non è sicuro se vengano con quel
violino suonate musiche giudaiche o russe. C'è o ci dovrebbe essere, per sapere
se un bambino è ebreo o meno, un certificato di nascita cattolica, che sembra
finto ma forse non lo è. Forse per essere più sicuri si potrebbe lasciare
aperta una via di fuga a quel bambino, facendo uso di un oggetto-trappola. Una
porta aperta verso la libertà che se "colpevole di essere ebreo" quel
bambino imboccherà, si troverà dietro una guardia armata. C'è un esame medico
che in base alla circoncisione svelerebbe la presenza di ebrei, ma che va in
palla se si pensa che anche gli algerini, molto presenti in Francia, praticano
anch'essi la circoncisione per motivi igienici. Cosa fare se poi il bambino a
cui fai l'esame ti dice proprio: "Sono algerino, anche noi abbiamo il
deserto e ci tagliano la mazza a tutti! Cristiani, musulmani... e io a dire
il vero non l'ho mai visto un ebreo! Come è fatto un ebreo??". Proprio con
questa sottile ironia Un sacchetto di biglie non è solo un film di oggetti, è
anche un film che racconta il viaggio vitale ed entusiasta di due bambini, Jojo
e Maurice.
Da
Parigi a Nizza, per andare a stare dagli zii in un posto più sicuro, dove ci
sono i più umani e paciosi soldati italiani. Un tragitto on the road, a piedi,
da soli, in cui incontreranno tanta gente normale trasfigurata dal fanatismo,
dalla fame e dalla paura. Molti davanti a dei bambini torneranno per poco
umani, ma i fratelli dovranno saper contare su loro stessi prima di
tutto, però con la certezza che se uno non riuscirà più a camminare ci sarà
comunque il fratello a sostenerlo. Un fratello che lo seguirebbe in capo al
mondo, anche se quando tira le palle di neve è sempre sleale.
Sembra
una favola horror questo viaggio verso la costa ma non mancano quindi buon umore e satira. C'è il personaggio assurdo di Bernard Campan, libraio simpatizzante
dei tedeschi che continua a ripetere che i francesi hanno come nemico naturale gli inglesi e quindi "che c'entrano
questi tedeschi!! Non sono nostri nemici" e cita al contempo Robespierre, Napoleone e il maresciallo Philippe Petain. Piccolo
spoiler, i tedeschi perderanno nonostante il suo sostegno. C'è poi il Dottor
Rosen (Christian Clavier) un ufficiale medico che rivestirà nella storia un
ruolo determinante e difficile per non perdere gli ultimi scampoli della
propria umanità.
C'è
tutto un flusso di emozioni che mi cade addosso quando ripenso a questa
pellicola così fresca e spontanea ma anche lucidamente critica e che non fa
sconti a nessuno, tedeschi e francesi, nazisti e partigiani. Un punto di vista
originale sul fenomeno dell'olocausto, facilmente per intensità accostabile a
La vita è bella. C'è alla base di tutto un libro autobiografico, bellissimo,
scritto proprio dal bambino protagonista di quegli eventi. Un bambino diventato
uomo e barbiere, come lo erano i suoi genitori e fratelli, che ha sempre
sostenuto, per sopravvivere nel momento più buio della sua infanzia, come
tenere stretta in pugno la biglia più preziosa, tesoro di tutti i tesori, fosse come avere in mano la propria vita. Un bambino che ha imparato dal padre
(lo straordinario Patrick Bruel), in una scena davvero struggente, come sia
alle volte utile uno schiaffo dato a fin di bene, se questo può insegnare a
sopravvivere.
Il romanzo
è del '73, l'autore è Joseph Joffo. Ha già avuto una versione per lo schermo
nel '75. Il film mi ha commosso molto, scegliendo come ha fatto, con tanto
coraggio, di descrivere senza alcun patetismo l'infanzia di un bambino allegro
vissuto in uno dei peggiori momenti storici di sempre. Talk0
-
Sinossi fatta male: È inutile, va sempre a finire in un modo con i figli:
"come fai sbagli". Succede oggi nelle nostre case come succedeva
negli anni '60 nell'America rurale abitata da bifolchi cannibali. Siamo tutti sulla stessa barca! Tu cerchi di stimolarlo il pupo. Gli fai vedere il lavoro
che fai, gli spieghi come si caccia per avere il cibo e sei contento quando
vedi che ha capito come attirare e catturare sprovveduti turisti usando
trappole da orsi e buche nascoste. Allora per farlo contento sventri la mucca
più bella che hai e ricavi dalla sua testa un copricapo buffo, solo per
farlo felice! Ma non sempre tutto è rosa e fiori, i bambini ti sanno deludere
in modi che non ti aspetti. Ci pensi un po' e li capisci anche. Sono piccoli,
hanno questo corpo che continua a mutare, i brufoli, gli ormoni in subbuglio,
un senso di sfida verso i grandi che forse pure tu avevi a quell'età. Però che
tristezza quando il pupo fa i capricci e non vuole sventrare la testa di un
turista con una motosega. Ed è una motosega bella, di marca, nuova, che tu hai
comprato tutta per lui. Qualcosa non gli gira bene in quella testa e sai già
che arriveranno i servizi sociali. Tu non sei un buon genitore e dovrà essere
lo Stato a crescere per bene tuo figlio, internandolo in un bellissimo
riformatorio criminale per schizzati di mente gestito da violenti secondini.
C'è da rallegrarsi perché andando così un po' a scuola si fa i giusti
amichetti, impara qualcosa sui soprusi e magari viene fuori uno splendido
adulto psicopatico come vorresti tu. Però che tristezza portarlo via dalle
braccia della mamma, lontano da casa per tanti anni e senza possibilità di
visita. Chissà come si sarà fatto ometto, oggi. Chissà se qualcuno sarà stato
così gentile da regalargli a Natale una motosega nuova.
- Avere
la faccia come il cuoio. Era sporco, era cattivo, era spaventoso e difficile da
guardare. Era Texas chainsaw massacre di Tobe Hooper. Esplorava l'America
dimenticata della Route 66, fatta di paesini sperduti nel deserto dove non
capitava più nessuno manco per sbaglio e con la crisi, se vuoi mangiare senza
avere i soldi per comprare il bestiame, ti devi arrangiare. Hooper esplora un
medioevo moderno terribile e angosciante, carico di freak cannibali e
mentalmente disturbati che però sono in qualche modo uniti, organizzati, quasi
affettuosi e attaccati a dei rituali come una famiglia americana media. Solo
che gli estranei per loro non sono esseri umani, ma cibo. Ogni oggetto dall'uso
comune nell'agricoltura viene usato da questi mostri in circostanze
inedite e aberranti. Da allora una motosega non è più vista solo come un
oggetto per potare gli alberi. Il film è terribilmente bellissimo, il suo
seguito lo è meno ma ha un'interessante cifra in termini di grottesco: la
famiglia cannibale riesce a partecipare a una gara per il chili con carne
migliore e a vincere, nella classica provincia americana per bene carica di
sorrisi e cappelli da cowboy, con la sua carne umana senza glutine. Sono
accettati nel mondo, almeno per un attimo, come i loro film sono stati accolti
dal grande pubblico per lo splatter, ma anche per la satira. Da allora il resto
è storia. Anche se i seguiti non sono stati poi il massimo Texas Chainsaw
Massacre o, come si chiama dalle nostre parti, Non aprite quella porta (come
se le vittime dei cannibali avessero davvero la possibilità di aprire o meno
una porta...) è diventato un cult. Imitatissimo, seminalissimo, cool negli anni
ottanta con il boom delle videoteche e con un erede vero e proprio, nel
2000, con il dittico La casa dei 1000 corpi/la casa del diavolo. Poi c'è
Nispel e la produzione Coppola con il loro remake noto più che altro per la
presenza di Jessica Biel, ma lì e nel suo seguito siamo davvero troppo lontani da Hooper. Gli ambienti realistici e lugubri sono decaduti e al loro posto c'è
un tranquillo e artefattissimo scenario da casa degli orrori di un parco
giochi. Il sangue è ridotto a zero o quasi per permettere al grande pubblico di
godersi lo spettacolo senza sentirsi sporchi e a disagio. Il pazzo Testa di
latta, che era anche una mezza critica sui reduci del Vietnam viene
comodamente tolto di torno. Al suo posto c'è l'ufficiale cattivo di Full Metal
Jacket, ma in un mood meno ispirato del solito. C'è per lo meno sempre Faccia
di cuoio, il mostro iconico della saga. Ha come sempre il corpo sformato, urla
frasi sconnesse, imbraccia una motosega in modo maldestro, è pericoloso e
ha il volto coperto da una maschera ricavata strappando e cucendo la pelle
delle sue vittime. Ma per un attimo si toglie quella maschera e sotto la
pioggia guarda la luna. E allora ti sembra di stare vedendo Bambi. Ed è
terribile. Taccio sull'ultimo Non aprite quella porta 3D, per me non è mai
esistito e per lui avevo già messo la parola file al mio interesse per
questa serie. Mi rimaneva solo Mortal Kombat.
Forse è
proprio da Mortal Kombat X che "qualcosa si è mosso". Dopo aver
presentato nel capitolo IX Freddy Krueger il picchiaduro di Netherrealm
proponeva per i dlc del decimo capitolo contro Jason proprio il vecchio Faccia
di Cuoio. I ragazzini non lo conoscevano, si lamentavano e questo deve aver
fatto un po' riflettere chi aveva i diritti di Texas Chainsaw Massacre in
quel di Hollywood. Serviva un rilancio e si doveva partire proprio da lui, da
Leatherface / Faccia di cuoio. Così si assumono Alexandre Bustillo e Julien
Maury. Non dei Nispel qualsiasi, ma degli stramaledetti demoni da film horror
in grado di non sfigurare con in mano la creatura di Hooper. Sono i registi di
A l'interieur, uno dei film che ha segnato la rivoluzione Horror francese di
inizio nuovo millennio.
I
registi francesi prendono Faccia di Cuoio e lo smontano pezzo per pezzo,
ricomponendolo fin dalla più tenera età e togliendogli per sempre quella cavolo
di espressione da Bambi che guarda con gli occhioni la luna. Il loro Faccia di
Cuoio è un "mostro sociale" perfettamente in linea con la critica
all'emarginazione sociale delle zone rurali che Hooper voleva lanciare con il
suo film. Non è la famigliola di cannibali a creare il Leatherface adulto, ma
un'educazione, frutto di un "intervento sociale" puritano e
perbenista, solo di facciata, irresponsabile e menefreghista su cosa significhi
davvero educare dei bambini. Sono temi che in qualche modo riguardano anche
noi, perché dietro a Faccia di Cuoio scorgiamo lo stesso spettro sinistro delle
case per l'igiene mentale del periodo pre-legge Basaglia. Non c'era cura ma
solo contenimento e zero socializzazione, la condanna a una vita
simil-vegetale. Il povero Faccia di Cuoio con una intuizione geniale di
sceneggiatura viene nascosto tra i volti dei ragazzi internati in una struttura
per ragazzi con disturbi mentali. All'arrivo nella struttura, al bambino
Leatherface, che abbiamo conosciuto nelle prime scene, viene
cambiato il nome e facciamo subito dopo un lungo salto temporale in avanti. Come
conseguenza ci sono almeno tre-quattro ragazzi ospiti dell'ospedale / carcere
che potrebbero essere benissimo lui. Il film ci fa scoprire chi è Faccia di
Cuoio in ragione a quali dovrebbero essere le sue vere motivazioni e valori, ma
è un procedimento per niente scontato e decisamente originale. A seguito di una
particolare circostanza si verifica una fuga e il film dirotta sul road movie,
il genere narrativo migliore di tutti per raccontare i personaggi. Certo è un
road movie efferato come si conviene ad ogni film horror slasher, pieno di
sesso e violenza, ma dove il personaggio più cattivo di tutti, esattamente come
in La casa del diavolo, pare essere quello che almeno socialmente ed
esteticamente non sembrerebbe avere niente del mostro. Parliamo del grande
Stephen Dorff, uno dei mascelloni più famosi degli anni novanta, che qui
interpreta con convinzione e la cattiveria del vero crociato il Texas Ranger
Hal Hartman. Hartman ha le sue sacrosante ragioni per odiare la famiglia di
Faccia di Cuoio, ma dedica la sua vita a torturare i figli di queste persone.
Per lui sono tutti mostri da uccidere come cani, quando invece la pellicola
dimostra che dei momenti di comprensione, confronto e umanità non sono per
nulla estranei a questi ragazzini. Il film non sarebbe così forte e incisivo
senza la presenza di Dorff e non riuscirebbe a spiegare al meglio le dinamiche
della disperata famiglia a cui "non bisogna aprire quella porta".
Quei mostri si sono chiusi a riccio al mondo, diventando dei ragni predatori,
anche per come il mondo si è comportato con loro. È decisamente una prospettiva
interessante, come lo è scoprire alla fine chi è il ragazzo che deciderà di
indossare, e perché, una maschera di Cuoio.
-Conclusioni:
Il film di Bustillo e Maury è bellissimo, mixa al meglio le suggestioni del
classico di Hooper e gli spunti narrativi del suo virtuale "erede",
La casa del diavolo di Rob Zombie, ma non si ferma qui, trova un approccio
originale e spinge la saga verso orizzonti interessanti e più "alti"
che nel recente passato. Molto bravi gli attori, belli gli effetti,
stupendi i paesaggi dal sapore inevitabilmente western del Texas, incalzante il
ritmo narrativo. Il miglior Texas Chainsaw Massacre dai tempi di Hooper, almeno
per il sottoscritto. Dategli un occhio e fatemi sapere. Per me ne vale la pena.
Giusto ieri nella classe in cui insegno stavamo parlando della storia di Gilgamesh, di come, spinto da una volontà di rivalsa personale, si metta in viaggio alla ricerca della vita eterna. E di come giunga alla conclusione che tutti noi siamo mortali e che non si possa vivere per sempre. Ma, anche se il nostro corpo tornerà alla polvere, saranno le nostre gesta a renderci immortali. Dolores e la sua voce struggente rimarranno per sempre ad accompagnare le generazioni future. Ciao e grazie di tutto.
Conoscete
Henry Joost e Ariel Schullman? Sono esplosi un po' di anni fa con Catfish, un
docu - film che parlava in toni molto dolci, ma spietati, di come sui siti di
incontri on-line potresti incontrare persone diverse rispetto a quelle che
compaiono sulla foto del profilo. Il protagonista va così a conoscere
davvero, fisicamente, una persona con cui intratteneva una relazione virtuale
magari da mesi, "buttando fuori" durante il viaggio tutte le
speranze, paure e accorgimenti pratici che avrebbe messo in campo nel gestire
quell'incontro. Un incontro che potrebbe essere fantastico quanto,
probabilmente, uno psicodramma. Mentre si avvicina il momento dell'incontro i
due "innamorati" continuano a sentirsi a distanza, ma avranno la
forza di "aprire quella porta sul reale?". Perché una persona
potrebbe sempre essere più grassa, meno alta, più vecchia o addirittura con
un'altra faccia e sesso rispetto alla foto che si sceglie come avatar della
propria "socialità". Idea semplice ma geniale, raccontata con il
cuore ma senza dimenticare mai il cervello, Catfish è diventato poi una serie
TV ugualmente gustosa, che vi consiglio di recuperare. Henry Joost e
Ariel Schullman sono poi approdati in Blumhouse. Su Paranormal Activity,
dirigendo gli episodi 3 e 4, e su Viral hanno portato la stessa passione per la
tecnologia e i social. Il loro mondo cinematografico è sempre pieno di telefoni
cellulari che riprendono e condividono qualcosa, di forum e meme e tutto questo
bagaglio arriva anche in Nerve, adattamento del libro di Jeanne Ryan con
protagonisti Emma Roberts, Dave Franco ed Emily Meade.
Nerve è
un "gioco" della rete che si svolge nel mondo reale e mette in premio
un sacco di soldi. Chi decide di parteciparvi, diventando
"giocatore", deve superare delle prove scelte da chi lo guarda, gli
"spettatori" (che poi sono anche quelli che pagano per guardare). Il
giocatore deve riprendere con il suo cellulare le sfide a cui partecipa. Se
decide di non partecipare o abbandona è fuori dal gioco, se vince le sfide va
avanti e alla fine di un certo periodo il giocatore con maggiori followers può
partecipare alla prova finale. Mai chiamare la polizia però, perché le
conseguenze sono davvero sconsigliabili. Nerve non ha altre regole e soddisfa
appieno l'edonismo di Sydney (Emily Meade), che vuole diventare una player
ricca e famosa, ma può essere pure un banco di prova per una vita perennemente
castrata dalla timidezza, come accade per Vee (Emma Roberts). Nerve e le sue
prove continue può essere anche il "mondo reale" per malati di
esperienze forti come Ian (Dave Franco) e Ty (il rapper Machine Gun Kelly).
Ma cosa chiede Nerve ai suoi player? Si parte da "bacia la prima persona
che incontri per caso" a " ruba un vestito" e si può arrivare a
"sali su un palazzo e penzola sul cornicione" o "stai sdraitato
sui binari mentre arriva un treno". Chi abbandona perde il soldi e la
popolarità. Ma potrebbe perdere qualcosa di più. Di sicuro se uno è un player
perde per sempre la sua privacy e vivrà circondato in ogni momento da dei
cellulari intenti a riprenderlo di continuo.
Un po'
Hunger Games, un po' Jackass, un po' pure Saw l'enigmista. Nerve è una creatura
strana che in mani diverse poteva diventare di tutto, ma soprattutto banale.
Invece, affidata alle mani di Henry Joost e Ariel Schullman riesce a catturare
al meglio il mondo dei social e dei giovani d'oggi. Si potrebbe definire il
primo film che mette davvero alla berlina i cosiddetti leoni da tastiera,
fotografandoli per quanto sono piccoli, immaturi e perennemente coperti in
volto dai loro mascheroni. Una generazione di "odiatori" che sono
peraltro stati descritti alla perfezione dal programma TV Rai "Far
Web", che vi consiglio di recuperare in streaming sul sito Rai o su Rai
Play, se avete la TV digitale. Senza poter vedere una persona negli occhi si
infrange la "barriera empatica" e si riesce quasi a percepire il
prossimo come un oggetto con cui trastullarsi finché non viene a noia, un
punchingball su cui sfogarsi e che tanto "vive nel computer". Sono
questi molti degli spettatori di Nerve, e Henry Joost e Ariel Schullman
vogliono farceli vedere per bene. Prima quando seguono i player per strada, con
il volto coperto per non farsi riconoscere. Poi quando sono nelle loro casette,
a viso scoperto e tranquilli, mentre decidono della vita o della morte
dei player. Adulti o bambini, annoiati o frustrati, il mondo degli
Haters è visto come un mondo di omini tristi e indifferenti al dolore altrui. Ma
fare questo era facile, ci sono già altri film horror che si sono dedicati agli
hater. Henry Joost e Ariel Schullman ci mostrano anche la gioia e la sana
incoscienza dei suoi player. I giovani Dave Franco e Emma Roberts sono carini e
vitali nel loro inseguirsi e incontrarsi sfida dopo sfida, la rete diventa
anche occasione reale di incontro e la parte più sentimentale del film funziona
al meglio. La parte thriller invece è un po' buttata via sulla lunga distanza,
la soluzione finale troppo frettolosa ma nell'insieme il film convince, diverte
e commuove, sa quando serve pure esaltare e qualche volta riesce anche a fare
paura. Si merita di sicuro una seconda visione per soffermarsi su
qualche dettaglio o rileggere in chiave diversa un paio di personaggi. Nerve
è un bel prodotto e non mi stupirebbe se comparisse prima o poi un seguito.
Alla fine il mondo "reale" del web fa comunque più paura.