C’era una volta Franco Battiato. Per
qualcuno è stato uno dei musicisti più influenti del ‘900, per qualcuno un uomo
che viveva sulle pendici di un vulcano per ascoltare ogni giorno il “suono del
mondo”. Per qualcuno aveva un modo di guardare la natura e il mondo simile a San
Francesco, per qualcuno era un uomo che attraverso l’arte faceva apparire
semplici i concetti complicati, per qualcuno era un “alieno”, per qualcuno un
maestro, un “padre”, un amico. Battiato nella sua vita e nella sua carriera è
stato così “tante cose”, originale ed eclettico, stimolante, spirituale quanto
“politico”, che negli anni oltre ai suoi lavori non sono mai mancati nuovi
libri e documentari che ne indagassero la vita, facendocelo scoprire in modi
sempre nuovi, inediti. Marco Spagnoli sceglie di iniziare parlando di Battiato
dalla Voce del Padrone del 1982, l’album con cui il cantante aveva
deciso di rendersi più accessibile al pubblico, l’album che lui “aveva
deciso” che avrebbe avuto “più successo”. Chiudeva idealmente il trittico iniziato
con L’era del cinghiale bianco e Patriots e aveva quella copertina in bianco e
nero con Battiato che sembrava galleggiare, seduto sul vuoto, “sostenuto da una
galassia”. Era l’album di Cerco un centro di gravità permanente, uno dei suoi
brani-manifesto, canzone in bilico tra leggerezza e spiritualità, brano
sulla necessità di scoprire oggi giorno (perché si parla di “cercare” non di
“aver trovato”) l’equilibrio del mondo e della propria vita interiore. Il
documentario parte da qui, dalla “costruzione in studio” di questo brano
insieme al fonico Pino “Pinaxa” Pischetola, che ce lo racconta a partire della
scelta di Battiato di “sdoppiare” più volte la sua traccia vocale e
sovrapporla, per poi fonderla, come fotografando momenti diversi in un suono
unico e universale. Unire suoni e voci di tempo ed epoche diverse, usare il
collage come costruzione sonora “stratificata”, nella composizione di un
“tutto” che parte dai cori agli archi, finendo alla ricerca del suono più
assurdo da creare in studio e poi da amalgamare anche lui all’insieme. Da
Pinaxa arriviamo insieme a Morgan al testo e a quel ritornello che “cerca di
trovare un centro (musicale quanto emotivo)” in un quadro immaginifico
bizzarro, uno scenario umano colorato quanto caotico fatto di capitani coraggiosi,
contrabbandieri macedoni, vecchie bretoni, gesuiti euclidei e cori russi. Dal
metodo scendiamo alle emozioni, laddove la cantante Alice parla di come
nell’82 quelle note e parole fossero ovunque nell’aria, diventate universali.
Il musicista Radius racconta del rapporto con un pubblico che proprio con
quelle canzoni diventava sempre più vasto e curioso, la produttrice Caterina
Caselli parla della volontà di Battiato di diventare in quel periodo “pop”,
nonostante prima avesse realizzato cose diversissime e molto di nicchia e il
realizzatore della copertina “sospesa” di La Voce del Padrone ci racconta di un
Battiato “seduto sul cosmo”. Seguono tantissimi contributi e interviste. C’è
chi parla del linguaggio musicale dalle radici “musicali classiche” che
prendono vita da un pianoforte, chi della ricerca in studio delle
situazioni più strane che coinvolgevano cori e musica elettronica in fusione
mai sperimentate, create con gioia e gioco. In un’intervista Battiato parla
della sua scelta di un linguaggio preciso quanto essenziale, della ricerca di
un “suono che avvolga il linguaggio” e c’è chi parla di post-cantautorato. Sembra che nel documentario sviscereremo anche il resto dell’album, anche
perché La Voce del Padrone nei suoi trenta minuti scarsi viene descritto come
un “Guernica”, un oggetto piccolo ma artisticamente potente, in grado di
rivelare la sintesi quanto il percorso futuro di Battiato. Magari ascolteremo
Cuccurucucu’, Bandiera Bianca o assaporeremo quella Summer on a solitary beach
dopo aver sbirciato i luoghi che forse hanno ispirato questo ultimo brano, nei
pressi di un cinema all’aperto vicino al mare dove Battiato ha ambientato anche
il suo film da regista più autobiografico.
Invece inizia il viaggio di Stefano
Senaldi, musicista e amico di Battiato, verso le pendici del vulcano dove
l’artista viveva, in un percorso tra spiritualità, celebrazione e leggerezza.
La voce del padrone come album non è quindi più al centro della narrativa del
documentario, che qui effettivamente cambia forma, come se con quella “voce del
padrone” si intenda ora in senso più lato “il percorso spirituale di vita” di
Battiato, la sua ricerca del trascendente, il suo modo intimo di “sentire il
mondo” cercando di interpretarlo con parole e musica, facendosi umile, piccolo,
“megafono” di qualcosa di immanente e universale. Seguendo questa linea
trascendente ed emotiva, dopo la grandiosità pirotecnica della prima parte, Spagnoli sceglie di dipingere il viaggio di Senaldi verso il vulcano in modo
particolarmente malinconico, crepuscolare. Nel secondo “giro di
interviste” prevalgono le voci dei parenti e amici, di chi era stato più
vicino a Battiato e quindi ne ha maggiormente avvertito la scomparsa, avvenuta
dolorosamente nel 2021. In questo percorso trovano spazio le interviste
marzulliane sul senso della vita e vengono celebrate canzoni di Battiato
appartenenti anche ad epoche diverse da quel folgorante 1982, come La cura. È
una scelta registica coraggiosa questo “cambio di passo”, molto singolare e che
per qualcuno potrebbe essere anche divisiva, quasi “antitetica” allo spirito
della celebrazione dei “colori” dell’album di Bandiera Bianca. Ma è una scelta
anche profondamente rispettosa dello spirito dell’autore: intimo quanto
universale.
La voce del padrone è un documentario ricchissimo di filmati di repertorio e interviste, tra cui si annoverano contributi di grandi musicisti, produttori e giornalisti, ma anche di personalità come Nanni Moretti, Oliviero Toscani, Willem Dafoe. È la commovente celebrazione della vita di un grande cantante, che forse per il periodo di realizzazione paga ancora troppo la sua recente scomparsa. C’è giocoforza nell’aria molta malinconia. Ascoltate al cinema Battiato, con un nell’impianto stereo, è però sempre bellissimo.
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